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CAPO VI Passo dei Lanzichinecchi per la Valtellina - Fame - Peste del 1630 - Superstizioni - Il duca di Rolian in Valtellina - Capitolato di Milano. |
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CAPO VI
Passo dei Lanzichinecchi per la Valtellina - Fame - Peste del 1630 - Superstizioni - Il duca di Rolian in Valtellina - Capitolato di Milano.
Qui dice la storia come di quei giorni Vincenzo Conzaga duca di Mantova fosse morto senza eredi e Carlo di Nevers duca francese, suo prossimo parente, si credeva in diritto di succedergli nel Mantovano e nel Monferrato85.
Ma il duca di Savoja aveva antiche pretensioni e gravissime convenienze sul Monferrato. Il re di Spagna, o dirò piuttosto il conte d'Olivares suo ministro ambendo posseder tutt'Italia, mal sopportava questo vicino sostenuto dal re di Francia, o dirò piuttosto dal Richelieu suo ministro. E così per intrighi di successione e miscele di regii maritaggi, di cui non vogliono ricordarsi quei che beffano i ridicoli motivi delle guerre popolari delle repubblichette del medio evo, nacque una delle miserabili guerre regie, cominciate senza buona cagione, condotte senza pietà, terminate senza gloria e senza effetto.
Il duca di Nevers, profittando della recente convenzione di Francia coi Grigioni, venne in Valtellina coll'esercito da Poschiavo, e per i Zapelli d'Aprica passando sul Veneto andò a prender possesso del ducato. Da altre intanto delle valli che sì inutilmente ci chiudono, sbucavano soldati francesi, spagnuoli, savojardi a disputarsi il tristo onore di spogliare ed avvilire questa povera Italia premio ognora della vittoria. L'imperatore Ferdinando, per fare smacco alla Francia e sostener egli austriaco le austriache ambizioni, mandò trentaseimila fanti e ottomila cavalli, alla guida di Rambaldo Collalto. Truppe terribili sempre, allora viepiù per il timore della peste che serpeggiava. Già il grosso di costoro per Lindau era venuto nel Chiavennasco, e stava per calarsi sul Milanese quando il Cordova, governator di questo, mosso dai reclami dei popoli, spaventati dai latronecci e dal contagio, mandò l'ordine che non si avanzasse più.
Si diffuse dunque per tutta la Valtellina questo nuovo ed orribile flagello. Erano, quelle, bande assassine, che andavano desolando la Germania nella guerra detta poi dei Trent'anni; erano i Lanzichinecchi di quel Waldstein che in sette anni smunse da una metà della Germania sessantamila milioni di talleri86. Gente che, solo ingorda di far suo l'altrui, non perdonava a sacrilegi, a stupri. Ora colla forza, or cogli ordini portava via i mangiari di quella povera gente. Sicché, oltre le solite provigioni, la valle doveva pagare 10.000 scudi al mese, e con larghissimi doni abbonacciare, se non saziare, l'ingordigia degli uffiziali87.
La stagione era andata affatto sinistra ai grani, sicché n'era un caro già eccedente nel 1628, esorbitante nell'anno seguito88: onde può ognuno figurarsi come travagliasse la Valtellina, sino a vedere la gente, abbandonata del pane per sostentarsi un dì, trovar buone a mangiare le carogne, a contendere alle bestie la gramigna e le ghiande. Si richiamavano con dolorosa istanza i Valtellinesi ai governatori di Milano. Ma a questi piaceva meglio lasciare le truppe colà, che trarsele nello Stato. Finché cresciute a 22.000 pedoni e 3.500 cavalli, non trovando più sostentamento, dovettero portare il disastro delle loro lentissime marce sopra il Milanese. Dalla valle e dal contado di Chiavenna, raccozzatisi dunque a Colico, contaminarono la riva sinistra del bellissimo lago di Como, percotendo d'inesprimibile terrore gli abitanti. Fra i quali era Sigismondo Boldoni, felice scrittore latino e non pessimo poeta italiano, il quale da Bellano sua patria ai lontani amici descriveva i patimenti suoi e degli altri. «Tutti gli abitanti del Lario (traduco e compendio il suo elegante latino) sono a spogliare le case, cacciare le mandre ai monti, trasportare ogni cosa di pregio, sovrastando i Tedeschi, che, per nostro malanno e per ira di Dio, passano di qui, affinché l'Italia, già strema per battaglie, rapine, uccisioni ed inumane farri, sia involta in guerre, che ai dì nostri non finiranno. Allo schiamazzo loro non le muse soltanto, ma gli uccelli fuggono: nulla santo, nulla sicuro».
E già in suo terrore gli pareva, fra lo scrivere, udire i tamburi, ed in gran procella recò ai cappuccini dell'opposto Bellagio il poco suo danaro e, che più gli premevano, le sue scritture: poi a casa a nascondere, a steccare, a murare le porte. Intanto quei Lanzichinecchi piombano su Colico e lo depredano: di là per sentieri montani sboccano sopra Bellano, rubando se trovano, smurando e disotterrando come pratici, costringendo chi trovavano a svelare il nascosto. «All'arrivo di quella sozzura del genere umano, tutta va devastata la campagna, sperperata la matura vendemmia, unica speranza dopo tanta fame e tante depredazioni. All'avidità degli uomini, non che i frutti, neppur bastano le erbe: a tanti cavalli, non che foraggio, neppure si trova spazio. Non un abito, non un vaso lasciano nelle stanze: solo un insoffribile tanfo. Bruciano le travi ed i pali delle viti, stramenano i tralci, tolgono ogni cosa ed in pagamento danno busse e ferite e stupri. Brandeburgo, Vallenstaino, Anzalt, Maradas, Furstembergo, nomi di casa del diavolo; Altringer, Montecuccoli, Ferrario, Acerboni, ed i Croati, e Torquato Conti, ed in fine Galasso, e sempre ad una banda cattiva una peggiore ne succede».
Dava alloggio il Boldoni in sua casa agli uffiziali, uno dei quali visto una macchia d'alloro: «Che fronda è quella?» gli chiese.
«Oh l'uom barbaro! (esclama il Boldoni) povere Muse! cosa aspettarvi da gente che neppure la vostra pianta conosce?»89
Così da Samolaco a Lecco guasto tutto quello che non potevano portar via, passarono l'Adda, e giù per la Brianza: e otto giorni rimasero a flagello del Milanese, lasciando da per tutto il segno di loro gola e disonestà. Stridevano i miseri paesani, ma i re avevano a pensare ad altro che al bene dei popoli, né curavano a quali guai esponessero una pacifica popolazione per crescere d'una piccola provincia uno stato immenso, per una prerogativa, per un puntiglio, talora per supina infingardaggine di non saper pigliare un partito. Eppure quelle erano truppe amiche, erano ausiliari: vi lascio pensare come dovesse stare la Valtellina, corsa da tanti nemici. Tali frutti coglieva dal tenersi raccomandata ai signori della Lombardia, quando avrebbe potuto farsi libera ed indipendente col proprio braccio.
Quelle truppe scesero verso il Po a fare un lento macello d'amici e di nemici, a devastare Mantova, che ancora se ne piange; a raccogliere le maledizioni dei popoli travagliati da quelle non so se chiamarle guerre o ladronaje, in tanto peggiori, in quanto che neppure offrivano una speranza alla imaginazione. Ma un altro tristissimo dono lasciarono al paese, una terribile peste.
Ognuno sa quanto ricorressero frequenti le epidemie in Europa. Nel 1610 la morte nera, aveva imperversato fra gli Svizzeri, donde si propagò nelle valli dei Grigioni, e di là nella Valtellina; altre volte vi tornò, e singolarmente nel 1621 se ne stette in gran paura. Gli eserciti erano reclutati e tenuti allora in tal maniera che, come dice il Varchi, v'aveva sempre uno spruzzolo di peste.
Questi poi venivano da Lindau, scala generale delle merci per l'Alemagna, «dove per il più dell'anno sono molte città e luoghi infetti di morbo contagioso»90. A ragione dunque se ne temeva; e di fatto dietro a quelle sudice truppe, che si rifiutavano ad ogni legge di sanità, si sviluppò un contagio, che ritrovando i corpi disposti dalla miseria universale, dalla fame, dal cattivo cibo, dai crucci dell'animo, dai patimenti del corpo, doveva produrre la più fiera mortalità che le moderne memorie ricordino. Una contadina di Tirano fu la prima cui si scoprisse la peste: poi su tutta la via, che le truppe avevano percorsa, se ne trovavano orribili tracce. A Bellano, a Lecco, a Chiuso. Pier Paolo Locato italiano a servigio di Spagna, venuto da Chiavenna, la recò a Milano. Il moltiplicare delle vittime scosse il tribunale di sanità, che mandò un commissario, il quale tolto seco a Como un medico visitò i luoghi infetti: se non che a Bellano avendoli un barbiere ignorante assicurati quella non esser peste, eglino, con imperdonabile trascuranza, stettero contenti agli oracoli di costui. Fors'anche bassamente connivendo al governo, al quale non giovava che peste vi fosse o si dicesse.
Intanto il male acquistava violenza. Tutto era pieno dell'imagine di varia morte: prima una palpitazione, indi letargo, spasimo, delirio e col corpo orrido di buboni e di luridi gavoccioli si trascinavano i miserabili alla tomba. I pubblici provvedimenti non bastavano alla furia del male: onde, dopo che negli spedali si erano più ammassati come cadaveri che disposti come infermi, avresti veduto per le vie, per li campi stendersi poveri giacigli di stoppie e di immondo ciarpame, o capanni di fronde e di strami, ove, malagiati di cibo e peggio di rimedi, si gettavano i miseri man mano che il morbo toglieva loro le ultime forze da reggersi in pié. Ivi persone d'ogni sesso ed età, cresciute fra gli stenti o gli agi, avvezze all'umiliazione od alla prepotenza, venivano eguagliate a dar di sé una vista d'inesprimibile compassione. Gli uni appiccavano il morbo agli altri: col crescere dei malati crescevano le miserie. Qua vedevi alcuno lacrimando trascinarsi lungo le vie in traccia di soccorsi, o almen di compassione, anch'essa venuta meno. Là bambini che s'attaccavano all'esausto seno delle madri. E da per tutto e tutto il dì un incessante trar di guai, ad ora ad ora funestamente interrotto dalle disperate strida di quei miserabili, in cui al male si aggiungeva il tedio del male, e l'aspetto dei presenti, ed il desiderio dei lontani, ed il dolore dei perduti, ed i terrori della fantasia. Non bastavano i cimiteri a ricevere le salme dei tanti, gettati là senza onore d'esequie, senza funebri deprecazioni. Interi paesi furono spopolati, né si riebbero più. Como perdette 10.000 persone, la Valtellina che, secondo la relazione di monsignore Scotti, comprendeva ben 150.000 abitanti, fu ridotta a non più che 40.000.
Da una parte crescevano i pii legati ed i voti; dall'altra, riflettono i contemporanei, non che farsi migliori alla terribile voce del castigo divino, vie peggio si pervertivano i costumi degli uomini, insultando al Dio che flagellava, godendo della vita che fuggiva, del disordine che regnava, degli averi che nei superstiti si accumulavano. Noi vorremmo raccomandare ai gran savii del nostro secolo di non permettere mai queste grandi sciagure naturali. In primo luogo, essi vantano l'onnipotenza dell'uomo, il poter suo nel domar la natura, un avvenire di godimenti quando esso avrà tolte le cause di distruzione, incatenati gli elementi. Ed ecco un torrente, una scossa di terra, un morbo che s'attacca all'uomo o alle patate, un'avversità di stagione, perde le gioconde previsioni, e attesta il predominio di una mano poderosa, e come precario sia il possesso dell'uomo su questa crosta che copre un incendio.
Secondariamente le gravi sventure sono il giorno del prete, del frate, della carità. Cose tutte che i gran savii del nostro secolo devono ingegnarsi di screditare e d'impedirne quell'influenza che divien tanto efficace quanto benedetta in simili casi.
E anche allora se al male v'aveva qualche rimedio, lo porgeva la carità cristiana. Al clero si erano concesse amplissime facoltà; ma era un eroe chi rimanesse al posto destinatogli dalla provvidenza, quando il vivere era un'eccezione. Eppure non pochi con ispontaneo sagrifizio andavano incontro alla peste come ad un premio, non perdita ma guadagno riputando il dare la vita temporale per acquistare altrui l'eterna. I cappuccini dì e notte erano ove li chiamasse il bisogno altrui: essi ad apprestare cibi e medicine, rassettare i letti, vegliare i moribondi, con affetto più che di madre trasportarli, nettarli, profittare di quei terribili momenti che sogliono far trovare la coscienza anche ai più perduti d'anima, e mandare i morenti confortati nella speranza del perdono. In Tirano singolarmente infierì la morìa, e gli infermi si fecero collocare in un palancato attorno al tempio della miracolosa Madonna, fidando d'averne conforto al corpo o all'anima; consolati almeno di morire ove bramavano. Si erano colà fino dal 1624 stabiliti i cappuccini, e fin ad uno morirono a servigio degli appestati. Altri sottentrarono volenterosi alle loro cure, a morire anch'essi. Dare la vita per fare del bene! A queste azioni ti riconosco, o religione, che sola crei i martiri dell'amore.
A prevenire ed a curare il malore si erano dati provvedimenti quali buoni, quali superstiziosi, quali esecrabili. Sequestrare i malati, durare le quarantene, non comunicare con alcuno, portarsi in mano ruta, menta, rosmarino, aceto, una boccetta di mercurio, che si credeva assorbire gli effluvii contagiosi. I monatti, infermieri incaricati di portare gli infetti agli spedali, erano un nuovo flagello: ed entrando nelle case vi commettevano le più laide cattiverie, rubando, svergognando sugli occhi dei padroni, e minacciando chi fiatasse di trascinarlo ai lazzaretti.
E poiché nei grandi flagelli dove non si osa bestemmiar la provvidenza, si sente il bisogno di sfogar contro alcuno il brutale istinto dell'odio, e della superbia umiliata dall'impotenza, si era sparsa la funesta opinione che uomini perversi venissero con malìe ed unzioni propagando la peste: e molti paesi soffersero il miserabile spettacolo di alcuni reputati untorì, processati, convinti, e messi ai peggiori tormenti ed alle fiamme. Né la mia storia può andare esente di tali orrori, ché sempre e da per tutto vengono gli stessi frutti dall'ignoranza e dalla superstizione. Bormio aveva posto divieto che nessuno osasse passare nell'Engadina, ove il contagio infieriva. Nelle guardie, che ronzavano al cordone, incappò un contadino che l'aveva trapassato. Alle interrogazioni confessò come, trovandosi la donna sua inferma e dubitando fosse effetto di stregheria, si fosse condotto di là per tenere consulta coll'astrologo di Camoasco, volgar uomo che se l'intendeva col diavolo, ed il quale di fatto gli aveva dato a vedere in un'ampolla tre persone, che avevano fatto l'incantesimo alla sua donna91. Ignorante o maligno, il contadino nominò una povera vecchia, che detto fatto catturata e domandatane alla corda, incolpò sé stessa e denunziò molt'altri. Il giudice di Bormio istruì il processo, facendo, per sicurezza di coscienza, intervenire l'arciprete Simone Murchio; e col consenso del vescovo di Como furono decapitati ed inceneriti trentaquattro fra uomini e donne92. Così e folli guerre, e tremendi contagi, e pazzi pregiudizi concorrevano ad affliggere ed a sterminare la miserabile umanità.
Quand'a Dio piacque, la peste cessò: ma non i mali della Valtellina. Poiché, ora col pretesto del passaggio, ora del bisogno, or dell'inquietezza, era ogni tratto riempita da quella ribaldaglia che si chiamava soldatesca, la quale diffondeva lungo il cammino malori, fame, mal costume. E quando era costretta andarsene, se ne faceva compensare con dei mille fiorini come d'un gran favore. Si dovettero vendere od impegnare gli argenti delle chiese, e gli abitanti erano messi a gravi tormenti per obbligarli a dare danaro93; tanto che i pochi residui della peste erano entrati nel disperato consiglio di abbandonare l'infelice patria, se per avventura il Feria, tornato governatore del milanese, non avesse adoprato di cuore presso l'imperatore, affinché di là togliesse le truppe. E l'ottenne o fosse pietà, o piuttosto il bisogno di opporre quei soldati al gran Gustavo Adolfo di Svezia, che aveva in Germania rialzata la causa dei Protestanti.
Ed appunto per quella guerra, di grand'importanza diveniva la Valtellina all'Austria, che per di là portava, senz'altro chiederne, i soldati d'Italia in Alemagna a pronto soccorso. Così nell'agosto del 1633 il duca dì Feria s'inviò con 12.000 fanti e 1.600 cavalli pel giogo di Stelvio in Tirolo, calle preferito perché non toccava terre grigioni. Venne poi meno della vita a Monaco, mancando così un gran protettore alla Valtellina. Anche l'anno dopo, il Cardinale infante con 12.000 combattenti fu accolto a tripudio in Como, indi per la Valtellina passò, come dice Minozzi, invece di olivi comaschi a sfrondare fiamminghi allori. Questi ajuti, cui porgeva agevolezza la fede della Valtellina, furono principale stromento a difendere Costanza e Brisacco, e sollevare l'agonia dell'impero.
Tanto più incresceva questo possesso della rivale alla Francia. La quale si levò alfine risoluta di liberare l'Italia, titolo solito (diceva il Ripamonti), onde i Francesi valicano le Alpi; i Francesi (soggiunge egli) ai quali punto credere si dovrebbe, essendo gente inquieta, e che vuol gli altri inquietare.
Fatto sforzo d'ogni parte: Weimar è sul Reno, Crequi penetra in Italia, la Vallette assale il Piemonte, l'Arcivescovo Sourdis arma sul mare, Gassion sul Rossiglione, e per la via dei Grigioni è mandato il duca Enrico di Rohan, il più compito gentiluomo del suo secolo.
Come capo dei Riformati aveva egli resistito con forza e genio al Richelieu, il quale poté fargli perdere il favor della corte, ma non la reputazione di capitano eccellente. Colla quale e con 12.000 pedoni e 1.500 cavalli passò per Basilea e Sangallo fin a Coira e preceduto da un proclama (già si sapeva adoprare quest'arma in guerra) entrato per Chiavenna, senza guari difficoltà occupò la valle.
Tosto 9.000 Tedeschi col barone di Fernamondo, entrano in Bormio, e da veri barbari mandano a fil di spada oltre cento inermi. Spagnuoli e Milanesi vengono dal forte di Fuentes, dai cui rincalzi il Rohan è costretto ritirarsi nell'Engadina. Ivi, rinnovato di forze, rientra, agita terribili battaglie, a Livigno fa carne non battaglia addosso ai Tedeschi ubbriachi, poi addosso agli Spagnuoli al Fraele,94 indi a San Martino di Morbegno, ove, se non era il valore del Robustelli, pigliava lo stesso famoso generale Giovanni Serbelloni95, e smorba la valle dagli Austriaci.
Anzi, mentre aveva buono in mano, feroce per le prospere cose, precipita sopra le Tre Pievi, le pone a sacco e fuoco; mette fiamme al bellissimo palazzo Gallio, composto di glorie maritate agli stupori; ma... il fuoco conobbe esser grande empietà il danneggiare quelle torri che nella loro elevatezza sembran parenti prossime della sua spera. Al Monte Francesca il Rohan sconfigge il Serbelloni e s'inoltra: finché Lodovico Guasco, mastro di campo che gli aveva sempre nojato il fianco e impedito i viveri, gli oppose nel castello di Musso tale resistenza, che il Rohan diede l'impresa per impossibile. Ma com'era d'animo audacissimo, per tentare una punta sovra Milano, di concerto coi collegati, prese via sulla sinistra del Lario e da Bellano risalendo per il letto della Pioverna entrò nella Valsassina. Ad Introbbio distrusse le fucine dei projetti guerreschi, e tutto malmettendo, si spinse fino al ponte di Lecco. Quivi trovò una testa grossa dei Brianzuoli, gente (riflette il Ripamonti) robusta e bella, salda nelle battaglie, che esercitata nelle guerre per le frequenti insidie e contese private, non ismentisce la vera, libera, generosa, battagliera origine sua. Al tocco del campanone di Brianza, ed alle fiamme accese sulle vette, erano essi accorsi in arme guidati dai loro castellani; e tale aspetto offrivano di bravura e sicurezza, che il Rohan si tolse giù dal disegno, e fatto rogare ad un notajo l'atto di questo ardimentoso tragitto, ripeté il corso sentiero. E perché ne mormoravano le truppe sue, schiuma di ribaldi, le acquetò permettendo il sacco del litorale, principalmente di Mandello e Bellano, poi della Valtellina96.
In questo stante s'erano messi nuovi trattati per parte della Francia, la quale, smaniosa di togliere all'Austria quel passaggio, moveva ogni macchina per amicarsi i Valtellinesi, promettendo sottrarli affatto dai Grigioni, redimerli fin dallo stabilito censo, incaricandosene ella stessa, e concedere giustizia propria, unica religione.
Ne venne odore ai Grigioni, i quali altamente adontatisi, come il re gli accarezzasse solo in quanto gli parevano utili contro gli Austriaci, abbandonarono di tratto l'alleanza del Cristianissimo e si volsero a Spagna. E Spagna, non avendo maggior desiderio che questo, non istette ad assottigliare sulla coscienza, e ne abbracciò la lega.
Che che delirano i gabinetti, ne soffrono i popoli. Subito sonò di armi il paese: Spagnuoli al forte di Fuentes, Tedeschi a Bormio, Grigioni a lato. Sicché il Rohan, a cui la rivalità del Richelieu faceva sempre scarseggiare i soccorsi, dovette battere in ritirata, non senza insulti e sangue per parte della ciurmaglia, usa a mordere chi fugge, leccare chi arriva.
In tal modo la fortuna della Valtellina ritornava nelle mani della Spagna, che ingorda di saldare l'alleanza coi Reti, perché non avesse altri a coglier la lepre ch'essa aveva levata, non si faceva coscienza di sacrificare agli interessi proprj l'antica ma debole sua protetta. Il marchese di Leganes, nuovo governatore del milanese, cupido di tornare carico di questa gloria in Ispagna, non badava se bene o male fosse il porre a repentaglio la religione e la nazionalità altrui. Quindi ogni cortesia ai Grigioni ambasciadori, niuna ai Valtellinesi: chiese al vescovo di Como se la religione cattolica fosse compatibile col governo grígione, e questi rispose del sì. Né diversamente aveva deciso una congregazione di teologi in Spagna. Vi ricorderà che pochi anni prima si era diversamente sentenziato: ma gli è uso antico, fin quando i generali colle spade dettavano le risposte agli oracoli.
E già nel castello di Sondrio s'era messo presidio grigione: del che non domandate se fremevano i Valtellinesi. Si era anzi da certuni proposto di avventarsi di bel nuovo nell'armi e, concitati da sdegno formidabile, scannare i pochi nemici in paese, ardire ogni estremo per risuscitare la fortuna da sé, dopo gettata a banda ogni fiducia di soccorsi da Francia o da Spagna. Pareva ottimo quel che non era più a tempo. Perocché erano asseccati di vivande; non più danaro né credito; la peste del '30, rinnovata per soprasoma cinque anni dipoi, li aveva consumati di popolo; ed in tutto l'universale era quella malavoglia, quella stanchezza che suole succedere alle forti emozioni, come al delirio furente il delirio tremante; e che fa parere il minor male chinar la testa, e pregare Dio che la mandi buona.
In somma fu, per venire presto al fine di questa lagrimevole narrazione, che il governatore Leganes coi deputati Reti ultimò l'affare in Milano, restituendo ai Grigioni la Valtellina coi patti e salvi compresi in 40 articoli, i cui termini principali erano questi: - nessuno venisse riconosciuto pei fatti corsi dopo il 1620; cassate le procedure di Tosana; le finanze, le tratte e le consuetudini tornino come avanti l'insurrezione; gli uffiziali, dal vicario della valle in fuori, vengano eletti dai signori Grigioni, e la sindacatura se ne faccia in paese; degli statuti impressi nel 1549 sono derogati nominatamente quelli intrusi a danno della fede e delle immunità ecclesiastiche; Bormio ed altri comuni godano i privilegi quali avanti la rivolta; così Chiavenna e Piuro conservino le proprie leggi, ed invece del vicario, possano nominare tre persone pratiche del diritto, una delle quali assista al podestà nei casi criminali; in occasione di passaggio di truppe, i Grigioni procureranno che i Valtellinesi vengano trattati e compensati al pari di loro; unica religione la cattolica, operando in ciò come gli Svizzeri nei baliaggi italiani; non inquisizione; vescovo, preti frati esercitino francamente i loro ministeri, non vi fermi dimora alcun protestante, se non sia magistrato; i signori Grigioni cattolici eleggeranno di due in due anni chi provveda acciocché non sia indotta novità; si manderanno a fascio le fortezze erette dopo la sommossa. Alle tre leghe doveva la Spagna pagar 1.500 scudi l'anno per ciascuna, e mantener sei giovani a studio a Milano e a Pavia. Libero a soldati austriaci il transito per la valle, e a niun altro.
Ai popoli bisogna pure gettar polvere negli occhi; e il Leganes invitò a Milano i caporioni della Valle, come uomini di fiducia interessati nelle decisioni che si stavano per pigliare. Vennero, ma egli non li consultò, non li fece intervenire all'atto, perché non istessero da pari a pari coi loro signori97. Rato e stipulato, gl'informò dell'accordo. Cadde il fiato a tutti in udirlo, gridarono contro il vescovo Caraffino, la cui fede si diceva mercata e mendicata dai ministri spagnuoli98; parodiavano il nome del Leganes in liga-nos; protestarono; s'appellarono: fu invano; il gran cancelliere ai loro lamenti rispondeva, non essersi potuto ottenere di meglio; i forestieri davan ad essi ragione, ma nulla più. Onde i Valtellinesi diedero un altro esempio a chi si solleva per favorir un altro principe, e a chi prima degli accordi si lascia togliere le armi di mano.
Questo capitolato formò la base del gius pubblico della Valtellina verso i suoi padroni, e la misura dei diritti e dei doveri reciprochi. Allora si lamentarono altamente i Valtellinesi che fosse stato conchiuso senza di loro; eppure, venne stagjone che, trapassandosi anche quei patti si richiamavano essi alla piena osservanza del Capitolato, asserendo che anch'essi vi avevano stipulato, trasfondendo i proprj arbitrj nel loro protettore99, e con quello alla mano dovettero, deh quante volte! ricorrere al duca di Milano, che n'era entrato mallevadore, acciocché provvedesse alle continue violazioni. L'ultimo lamento il portarono a Buonaparte, generale e onnipotente della repubblica Cisalpina nel 1797, il quale, considerandosi come sottentrato nei diritti dei duchi di Milano, citò i Grigioni a scolparsene, e prima che arrivassero dichiarò la Valtellina unita alla Lombardia, colla quale poi stette al male e al bene; e con essa caduta sotto la Casa d'Austria, divenne importante anello fra i possessi di quella in Italia e i trasalpini.
Ma senza prevenire i tempi, per allora tornarono Grigioni nell'intero possesso e, dicasi a loro lode, moderatamente. Non s'affidarono però a rimanere quelli ch'erano stati maggiori stromenti a ordire la rivolta; e il cavaliere Robustelli, primo fulmine di quella guerra, benché affidato di pace e di salute, non sofferse d'obbedire cogli altri ove agli altri aveva comandato, e alla patria, cui più non poteva giovare, disse addio con quel sentimento, con cui s'abbandona la terra che rinchiude ogni cosa più caramente amata. Non mancò chi gli applicasse il titolo che gli Italiani serbano a chi non riesce, di traditore.
Le cose però non potevano a lungo passare di cheto fra tanto astio di sangui: e sarebbe un non finir mai il ripetere le lamentanze dei Valtellinesi perché si violassero alla scoverta le convenzioni. I Riformati, benché avessero divieto dal paese, crescevano di dì in dì: la sola piccola Mese dopo un 15 anni ne contava 50. Quattro famiglie n'erano a Tirano, tre a Teglio, altrettante a Cajolo, il doppio a Traona, nove a Sondrio, due a Berbenno, dodici a Chiavenna, altre altrove di buona parentela, a non contare gli artigiani ed i forestieri. E questi vivere alla libera, facendo gabbo dei divoti e dei riti. Ed i magistrati ledere le immunità del clero, proibire il ricorso a Roma, pretendere la rivelazione delle confessioni, tenere in palazzo a Sondrio conventicole di predicanti, e industriarsi d'introdurli100. Anzi i Riformati avevano chiesto alla dieta grigia di potervi avere tre chiese. Intanto i ricchi tenuti sempre in colpa per ismungerne danaro; assolto chi pagava; processati due ragguardevoli sondriesi perché avessero usato la parola eretico e lo stesso arciprete perché congregò alcuni caporioni a prendere partito sopra questa cattura. «O cara libertà come t'ho persa! O cara libertà dove sei gita!» esclamavano essi101. Quindi frequenti richiami; e gran trattati si menarono nel 1652 nel '59, nel '69, ma tutti coll'esito stesso, rimanendo fermo il Capitolato di Milano.
I Riformati però non ebbero più il vantaggio nella diocesi comense, e libertà di riti tennero solo a Poschiavo e Brusio, terre che anch'oggi appartengono alle Leghe grigioni, benché di lingua italiana e cisalpine. Ivi i Riformati sono un terzo, ed in questa proporzione si distribuiscono gli impieghi: essendo il podestà due anni cattolico, uno riformato e così delle altre cariche. Vivono in buona concordia e tolleranza, e noi vedemmo assai tra gli Evangelici assistere ai riti dei Cattolici con bella modestia. I pastori delle due chiese riformate sono spediti dal capitolo dell'alta Engadina. Usano la bibbia tradotta da Giovanni Díodati! e seguono la confessione retica segnata in Coira il 22 aprile 1553, cui si aggiunse poi l'elvetica. Ammette quella i tre simboli, il pater, il decalogo, la domenica, i sacramenti del battesimo e della cena, però come segni e non necessari alla salute. In un concistoro, tenuto ogni anno dai pastori della Rezia per turno, e sopravveduto dal decano, approvano i ministri, e si danno a vicenda consigli sulla fede e sui costumi. Nei loro catechismi variano assai anche nei punti fondamentali; alcun che di luterano vi s'introduce, conservandosi il sacramento e portandolo agl'infermi; s'era fin proposta la confessione auricolare, ma tutto dipende dai ministri, laonde questi da alcuni anni ebbero istruzione di non trattare mai di dogma, ed attenersi alle sole verità pratiche. E deh sia presta l'ora che rinverdiscano i rami, e il sacro sangue della redenzione ci unisca tutti in un solo ovile sotto un solo pastore.
A questo riuscì la lotta sì lungamente agitata con armi e con trattati in Italia e fuori: lotta male avvisata nel cominciamento, crudele nell'atto, inutile nel fine. Quegli uomini, superstiziosi non religiosi, se la religione sta in benevolenza d'affetti e santità di opere, dopo compiuto il gran delitto, persuasi di non trovare perdono, e che unica salute era il non sperarla, dovevano da sé stessi difendersi fra le barriere dei loro monti. Qual esercito, pur ordinato e grosso, può resistere alla fatica della guerra popolare; che sventa i disegni del nemico e glieli volge sul capo, che drizzando sempre i colpi dal giro al centro, li fa tutti mortali; che affanna e stracca, fugge e ricompare impreveduta, inevitabile, né può per battaglie terminarsi; ove più valgono i soldati assai che i capitani; ogni casa diviene una fortezza; ogni siepe, ogni macia un baluardo, ogni elemento un'arma micidiale. ove gli aggressori scorati, privi del mangiare e del bere, devono in fine cedere al popolo, che, non disperando della patria nel giorno della sventura, difende la propria indipendenza? Così vedemmo ai dì nostri salvarsi dall'ambizione d'eserciti tremendi la Spagna, il Tirolo, la Grecia... doveva così la Valtellina francheggiarsi. Ma i coltelli adoprati all'assassinio parvero cadere di pugno. E dopo la vittoria di Tirano, non sapendo intera soffrire né la libertà, né la servitù, seguitarono non diressero gli eventi. Quand'era tempo di fare, se riandarono in consigli: da re, i più avidi di acquistare che vogliosi di francheggiare, mendicarono gli ajuti che dovevano da sé soli sperare.
Ricorsi all'intervenzione dello straniero, potevano ottenere buono stato dalla Francia; invece si commisero alla Spagna, che col non risolvere, nutricò lungo tempo la guerra. Poi pretendendo vigilarne il bene e la religione, la vendette per vantaggio proprio a coloro che più odiava, senza tampoco i privilegi di prima; anzi consolidando quel servaggio, cui l'avevano ridotta le lente usurpazioni dei Reti. Diciannov'anni di guerra fra tumulti ed eccidi, fra le ansietà della speranza e degli sgomenti, colle solite conseguenze delle rivoluzioni, sospensione delle utili arti e del faticato progresso, abbassamento dei caratteri, assuefazione allo stato provvisorio ed ai mali come ad una necessità, oblìo della franchezza vera e della legittima opposizione, schifiltà da quell'obbedienza che è la condizione più necessaria alla libertà, bisogno di distrarsi e stordirsi, confidenza nelle eventualità imprevedibili e fin nella conflagrazione universale come rimedio, mentre è un male che tutti gli altri peggiora e a nessuno ripara. E l'appannaggio dei deboli la rabbia e la paura: aggiungete 25 milioni di lire scialacquati, infine la sudditanza che avevano dichiarata importabile furono l'espiazione imposta da quel Dio, di cui si erano arrogati i diritti e le vendette.
Ad alcuno parrà che la storia dia torto ai Valtellinesi sol perché soccombette, se fosse riuscita, cercherebbe da lei esempi del meglio. Caduta, non vi vede che ragioni di biasimo. E forse è così: ma se il passato potesse servir di lezione, e l'uomo non si ostinasse a ricominciare sempre l'esperienza a proprie spese, avrebbero i signori ad apprendere a rispettar la giustizia, i patti e la più libera delle cose, la coscienza, onde non costringere i popoli a ricorrere all'estremo rimedio. Avrebbero i popoli ad apprendere che a grandi mutazioni si vuole gran consiglio prima, gran risolutezza poi, adoperare tutti i mezzi di riuscire, né prorompere senza considerazione o procedere senza fermezza per non pentire senza rimedio quando si trovino ribadite e aggravate le catene da quegli appelli alla forza, da cui si erano ripromesse libertà e pace.