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INTRODUZIONE ALLA RISTAMPA DEL 1885 | «» |
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INTRODUZIONE ALLA RISTAMPA DEL 1885
Quando venne in luce questo racconto storico, Il sacro macello di Valtellina, i clericali si levarono contro Cesare Cantù, perché mal sapevano acquietarsi al pensiero che si risuscitasse, da uno scrittore operoso, il ricordo di fatti crudeli, operati da fanatici cattolici, che insanguinarono una terra ch'è asilo antico di libertà. Tanto maggiore fu l'ira dei clericali, in quanto l'autore non era un protestante, ma bensì un cattolico, che professò sempre la sua fede anche se, il proclamarla, gli sia costata la popolarità.
Le monografie sulla Lombardia del secolo XVII, la Storia di Como, la Rivoluzione di Valtellina, (riveduta ed ampliata nel Sacro Macello) erano la preparazione all'opera colossale della Storia Universale che con meravigliosa modestia l'autore imprese a correggere, a ampliare, a rifondere. E lo fece spinto da quella «perseverante ricerca della verità e deliberata franchezza nel dirla» che è il merito di tutta la sua vita; perché altri autori, invece di ritornare sull'opera propria, si sarebbero compiaciuti di riposare sulla gloria ottenuta per aver scritto la storia più popolare nel mondo civile, che ebbe dieci edizioni in Italia e fu tradotta in tante lingue. Di questa universalità della sua storia se ne deve cercar la ragione nella limpida parola, nella forza dell'argomentazione, nella logica inflessibile, nell'aver «scritto col cuore, dopo molto riflesso colla testa» sicché le sue storie hanno tutte le attraenze della lettura amena, ma lasciano vital nutrimento in chi leggendole si ferma a considerare con lui il bello e melanconico spettacolo dell'umanità, la cui destinazione «è di ingrandire soffrendo, e di camminare all'acquisto del vero, all'attuazione del buono, ad una più equa partizione dei godimenti della vita e dei vantaggi del sapere».
Un'altra ragione della fama antica e ognor verde delle opere storiche di Cesare Cantù (come delle altre educative e di fantasia) è l'amore che sempre ebbe per le classi deboli e perché deboli infelici. Nelle sue pagine spira il soffio dei tempi nuovi, della rivendicaziome del diritto; uscito dal popolo, ricorda con compiacenza le dure prove subite e vinte colla tenace volontà che gli fece scrivere in nome di chi lavora: «Noi abbiamo per simbolo il progresso per guida di battaglia Avanti». All'elenco dei re, che una volta costituiva la storia, eglì aggiunse lo studio delle condizioni degli oppressi, egli ci fece partecipi dei dolori della massa disconosciuta, dimenticata composta dì ignoti, alla quale si devono lo svolgersi delle istituzioni e i progressi che gli scrittori d'un tempo solevano attribuire, quale appannaggio di gloria, ai principi. E per questi dimenticati del passato egli chiede per il presente e per l'avvenire non privilegi, ma giustizia: e mentre ciò chiede ai potenti, dall'altra parte lavora perché crescano quei deboli nel loro diritto, educati, virtuosi e dignitosi. Noi non dividiamo in tutto le opinioni dello scrittore; parecchie volte siamo indotti dalle nostre convinzioni a proferire diverso giudizio dal suo; ma non per questo vien meno in noi il rispetto per le opinioni, con sì schietta e sì ferma fede, proclamate da Cesare Cantù. E mentre guardandoci intorno si vede tanta trivialità d'ingegni e codardia di carattere, non si può rifiutare l'ammirazione a quest'uomo contro il quale si sbizzarrirono invidie e calunnie, ma che in questi tempi in cui i libri più lodati vivono sei mesi, ha la compiacenza di veder sempre letti i suoi libri di sessant'anni fa, e che opponendo la serenità della coscienza alla trascuranza colla quale si cerca di opprimerlo, può dire d'essere sempre lo stesso di quando giovinetto «combatteva solo, col suo coraggio e colle sue speranze».
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