Ulisse Barbieri
Plauto e il suo teatro

CAPITOLO XII. Quintiliano il Fornajo.

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CAPITOLO XII.

Quintiliano il Fornajo.

Diffatti così avvenne. Quintiliano macinatore di farine e fornajo, divenne il padrone del commediografo, che dai geniali convegni e dalle libere inspirazioni della fantasia, dovette passare ai faticosi lavori. – Dal teatro ove dettava leggi, all'obbedienza d'un padrone che poteva su lui adoperare la verga.

Era questo Quintiliano, uomo rozzo e brutale e la sorte dovette intestarsi per far proprio a Plauto uno dei suoi più brutti tiri, se lo fece capitare in tali mani.

Era destino che portato una volta alle labbra il calice amaro del dolore, il povero poeta dovesse berne a sazietà.

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Dei poeti, Quintiliano aveva sempre avuto una pessima idea e della poltroneria li sapeva amantissimi. Per tale motivo se anche il giovane cadeva sfinito a forza di lavorare, a lui pareva che quei suoi sfinimenti fossero smorfie per evitare un po' di fatica.

La casa del fornajo era quindi per Accio un vero inferno, e nella sua fantasia che non tralasciava di lavorare sognando commedie, anche quando girava la fatale macina, il burbero Quintiliano assumeva i mille aspetti di un demone.

«Se posso uscire di quà, pensava egli cercando riconfortarsi colla speranza, nella prima delle mie commedie ti acconcio come si conviene!...

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Avvenne che un giorno mentre il poeta sognava attori e palchi scenici, mentre lui ne era lontano, Quintiliano andò ad una rappresentazione.

Erano tornate in voga le Attelane ibride farsaccie con fantasmagorie e scostumatezze d'ogni genere.

Nel teatro, un immensa folla si agitava e domandava che si incominciasse la rappresentazione, facendo scoppiettare le dita, ed urlando.

Gli attori non incominciavano, ed i disegnatori incaricati di collocare gli spettatori e di mantenere l'ordine, incominciavano a non poter più contenere l'espressione di quella generale irrequietezza.

Alzavano essi invano la loro bacchetta bianca e se ne servivano per indicare i più turbolenti.

Questi, lungi dal sembrare vergognosi di quella pubblica riprensione, facevano maggior chiasso.

I raggi del sole che trovavasi a mezzogiorno, non potevano però per nulla incomodare la folla e dar ragione a quella loro importunità.

Una vela grandiosa tenuta distesa per mezzo di corde ed assicurata ai pali piantati all'intorno del coronamento dell'edificio, impediva al calore d'arrivare troppo vivo fino agli spettatori, e per d'ingegnose macchine questa vela era agitata in modo che produceva l'effetto d'un immenso ventaglio. Finalmente gli istrumenti musicali incominciarono a suonare. – Per mezzo di grossi ciottoli agitati entro un vaso di bronzo si imitò dietro la scena il tuono, ed i gridatori intimarono il silenzio.

Tutte quelle voci che scambiavansi parole impazienti, tutte le dita che scoppiettavano con un rumore quasi simile a quello che fa la gragnuola quando cade sui tetti, tacquero a poco a poco, e parve che fosse improvvisamente cessato il brontolìo d'un temporale.

Un attore vestito alla greca dopo aver salutato il pubblico a più riprese e camminando su alti trampoli, colle braccia allungate da lunghe maniche in fondo alle quali si movevano delle mani finte, e col volto coperto da una maschera colla bocca aperta, annunciò il prologo.

In questo fece un breve assunto della produzione che doveva rappresentarsi, – spiccò quattro salti, e scomparve.

Dopo lui si rappresentò la annunciata azione, con una specie di ridicola pantomima accompagnata da lazzi.

Erano così sconci quei lazzi, così osceni gli atti di quelle maschere, e la folla era così burlata per accarezzare le classi patrizie, che Quintiliano arrabbiatosi collo spettacolo incominciò a bestemmiare contro il teatro e contro tutti i poeti.

Uscì prima che la rappresentazione fosse finita e recatosi in una delle antiche taverne della città ove trovò qualche amico, vuotò una o due anfore di Falerno poi recossi a casa.

Era d'umore nero e mezzo ubbriaco, cosa che non gli accadeva troppo raramente.

Entrato nella sua bottega vide il giovane Plauto che girava la macina un lentamente perchè spossato dalla fatica.

Sgrettolavasi sotto essa il grano che doveva servire alla fabbricazione del pane per l'indomani.

Egli gettò sopra una panca il suo manto ed acerbamente rivolta la parola al giovane tirò giù una sfuriata di ingiurie.

«Asinio!... poltronaccio, incominciò Quintiliano, che hai tu fatto dacchè sono uscito?...

Non hai empito di farina che un solo sacco, e sì che avresti dovuto empirne due se invece di guardare le nuvole tu avessi macinato davvero.

Il giovane non rispose sillaba e asciugò col braccio nudo, le spesse gocciole di sudore che imperlavano la fronte, anzi con maggiore attività continuò il suo penoso lavoro.

Innanzi a quell'obbediente sottomissione non si acquietò però la collera dell'avvinazzato fornajo che imbestialì più ancora.

«E che?... riprese egli... per Ercole! non mi credi tu degno forse d'avere una risposta?...

«Cos'hai tu fatto da che lasciai la bottega per andare a vedere una di quelle sudicerie che scrivevi anche tu?...

«Quello che hai fatto già me lo immagino!... – ti sarai messo sull'uscio a vedere chi passava e ad ascoltare i pettegolezzi della gente che non è vero forse?... Quante volte tornando all'improvviso non ti ho colto a spiare ed a ridere alle spalle di quelli che tu spiavi!...

Plauto taceva sotto quella sfuriata, aspettando che l'uragano passasse.

«Per gli Dei!... gridò il fornaio più ancora invelenito, non so chi mi tenga dal romperti un bastone sul dorso e dal trattarti come lo stupido animale di cui tu fai le veci.

Credi tu forse asinio, o meglio asinaccio che sei!... di poter infinocchiarmi colle tue menzogne?... –

Sentitelo!... quest'animale!... Egli dice ai miei schiavi che la finirà colla sua miseria e che escirà di qui più onorato d'un senatore!... Egli crede che i più ricchi di Roma e persino i consoli verranno a festeggiarlo!... Egli!... forse per le belle sguajataggini che scrivi!... – A sentirlo lui si è rovinato per dei traffici!... ed è stato ricco!... – Ricco di debiti sei stato!... ed è perciò che t'ho comprato e sei capitato in buone mani!... gira!... gira la macina gaglioffo!... o per tutti gli Dei ti mando da Caronte a raccontargli le tue fole!...

– Quella lunga sfuriata aveva arse le fauci a quel devoto di Bacco, onde tolto un orciuolo pieno di vino ch'era in un canto della bottega, lo vuotò tutto in un fiato.

Nel posarlo s'avvide che tra le sacca di grano eravi un rotolo di papiri.

– Che Cerere m'ajuti!... sclamò egli: cos'è quello che veggo laggiù?... t'appartiene forse?... – Ah! ora sì che comprendo!.... tu scrivi miserabile!... invece di girare la macina!... ti trastulli calcando il papiro a mie spese!... Ma sta pur lieto che i tizzoni del forno faranno giustizia dei tuoi perdimenti di tempo!... – Per Plutone!... che bella fiammata che voglio fare o asinio dei tuoi memorabili scritti!...

Il fornaio presi i papiri erasi avvicinato al forno.

«Per gli Dei tutelari, esclamò il giovine lanciandosi verso l'avvinnazzato padrone, acceso d'ira e di dispetto, non li bruciare!... non li bruciare o per Giove tonante, tu avrai a pentirtene ne mi saprò render ragione di quello che farò.

«Io ti pago perchè tu mi obbedisca, strillava il fornaio vieppiù inferocito e fe l'atto di gettare nel fuoco i papiri.

Dagli occhi del giovane uscì un lampo d'ira; egli si lanciò sul fornaio e gli strappò di mano le carte.

L'ubbriaco cadde sopra un sacco di farina bestemmiando.

«Domani per gli Dei!... esclamò Plauto, io avrò pagato quanto tu spendesti per comprarmi e sarò libero!... sai cos'è questo che tu volevi distruggere?... è l'Anfitrione!...

«Il fornaio diede una sghignazzata, fe per alzarsi ma le gambe non lo ressero, ricadde e poco dopo dormiva.

Il giovane uscì – Quando fu sulla via respirò a pieni polmoni l'aria tiepida. – Era quasi sera – egli era stanco ed aveva fame. – Per gli Dei!... disse egli, bisognerà bene che mangi!... per passar la notte, il portico d'un tempio mi basta... e domani!... Un onda di speranza gli allargò il cuore... Sì! sì!... riprese egli, perchè imprecare contro gli Iddii che hanno forse voluto provare la tempra della mia anima!... non sono forse ricco io?... Se il mio corpo è coperto da una lacera vesta, non ho un opulenza che altri non ha? quella della mente?... Tre tesori stanno in me – la giovinezza!... la salute e la poesia!... dunque sieno di ciò grazie agli Dei... Egli gettò uno sguardo all'Anfitrione che aveva messo tra le pieghe della sua tunica e si trovò felice...

Vidde in quel momento venire verso lui un uomo a cui molta gioventù testimoniava onoranza e rispetto.

Non avea mai veduto Catone, ma ne aveva inteso parlare e per un intuizione del cuore egli indovinò che doveva essere lui l'austero cittadino.

Il momento era decisivo, ed il domani sarebbe presto arrivato. Per farsi accettare di nuovo dagli edili, aveva bisogno d'un appoggio.

«Salute a Catone, disse egli arrossendo e nello stesso tempo sentendosi fiero di volgere la parola all'uomo di cui tanto ammirava l'ingegno e la onestà.

«Salute anche a te schiavo, rispose Catone.

«Non schiavo, riprese il giovane, ma figliolo d'un liberto e cittadino romano.

«Salute dunque a te, figliuolo d'un liberto e cittadino romano, replicogli Catone col suo tuono burbero, e fe' l'atto di passare innanzi.

«Catone, mormorò con debole voce e tutto tremante Plauto. – Il cittadino romano ha fame.

«Il cittadino romano non sa guadagnare il suo pane col lavoro? domandò austeramente Catone.

«Il cittadino romano lo sa guadagnare, ma è fuggito dalla bottega in cui lavorava perchè fu crudelmente malmenato, e perchè il mestiere di fornajo non gli piace... Catone!... riprese infine con voce supplichevole, ho bisogno di tornare al teatro... ho terminato l'Anfitrione!... fammelo vendere agli edili… sono Plauto!...

«Plauto! sclamò Catone gettando uno sguardo benevolo sul giovane infarinato... tu hai scritta mi pare qualche commedia!...

«Sì, ma non mi accontentai d'esser poeta e volli mercanteggiare. Gli affari mi andarono male e fui comperato da un fornajo poichè dopo la mala riuscita d'un mio lavoro gli edili non vollero più saperne delle mie commedie.

Catone rise. «E come la facesti col tuo padrone? domandogli.

«Per carità non me lo chiedere. Basti il dirti che avendo scoperti fra i suoi sacchi questi papiri, voleva gettarli nel forno. Io mi slanciai allora su lui poichè era ubbriaco e gli ritolsi i papiri. Fuggii dopo ciò e domani voglio pagargli la somma che egli spese per comperarmi...

Catone trasse dalle tasche alcuni sesterzj e li diede al giovane.

«La credi buona la tua commedia? gli domandò poi.

«Forse la mia migliore, rispose Plauto colla franchezza del genio.

«Domani vieni da me!... Gli edili la finiranno colle Attelane!... e daremo l'Anfitrione!...

Plauto ne baciò la veste con fervore.

«Cittadino, buona cena... gli disse Catone allontanandosi.


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