Ferdinando Petruccelli della Gattina
Il concilio

XXII.

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XXII.

 

Nella seconda sessione si decretò che i voti si raccoglierebbero per individuo e non per nazione - il che assicurava al papa la direzione dell'assemblea, ove gli Italiani erano tre contro uno; - che il Concilio s'intitolerebbe ecumenico, senza la clausola «rappresentante la Chiesa universale», la quale avrebbe potuto inorgoglire i Padri e far dubitare della supremazia del papa; - e che, in fine, le quistioni sarebbero discusse in congregazioni particolari, si risolverebbero in congregazioni generali segrete, e sarebbero poi pubblicate nelle sessioni, delle quali si farebbero conoscere soltanto gli atti per mezzo della stampa.

Paolo aveva ordinato a' suoi legati di mostrarsi assai corrivi nella discussione dei dogmi, purchè nella formula si adoperassero espressioni vaghe ed ambigue; ma di non ceder punto allorchè si trattava dell'autorità e delle prerogative del papa. Nondimeno il primate di Portogallo aveva detto: «Gl'illustrissimi cardinali devono essere illustrissimamente riformati». Poichè la riforma era la cosa la più desiderata dai Padri stranieri, e la più temuta dai legati.

Pietro Danès, ambasciatore di Francia, giunse, ed arringò il Concilio.

- Questo gallo canta bene! esclamò un de' legati - giuocando di parole sul Gallus (gallo e Francese).

- Piacesse a Dio, rispose l'ambasciatore, che Pietro si pentisse di nuovo al canto del gallo!

I Padri parlavano in latino, come parleranno nel prossimo Concilio di Roma. Figuratevi quale Babele, con un latino imperfettamente conosciuto, pronunciato alla francese, all'inglese, alla tedesca, da Italiani, Spagnuoli e Polacchi! come dovevano intendersi bene!

Le sessioni si succedevano. Le decisioni erano prese sempre secondo il voto de' legati inspirati da Roma. Malgrado ciò, le discussioni furono tempestose, poichè i teologi dei diversi Ordini non s'intendevano punto, specialmente intorno la Grazia e il peccato originale. Nella discussione sulla giustificazione, il vescovo di Cava, il quale pensava, come S. Paolo, S. Agostino e i protestanti, che basta la fede per salvarsi, strappò a piene mani la barba al vescovo di Cheronea, il quale coi cattolici obbiettava che la fede non valeva nulla senza le opere.

I protestanti, alla Dieta di Ratisbona, respinsero i primi decreti del Concilio. Carlo V ne proscrisse i capi, ed armò l'esercito.

Nel tempo stesso, Lutero moriva tranquillamente (18 febbraio 1546), vedendo la sua opera perseguitata, ma per nulla in pericolo.

I principi protestanti risposero alla sfida di Carlo V con la lega di Smulkalda. Il papa mandò il suo esercito all'imperatore; ma questi, curandosi mediocremente de' settarii, voleva schiacciare i principi ribelli per consolidare il proprio Impero in Germania. Al contrario, il papa voleva creargli degl'imbarazzi politici in Germania per indebolirlo in Italia.

I protestanti furono vinti a Mühlbourg.

Il papa, spaventato da questa vittoria, ordì intrighi in Italia.

Carlo V pesò alla sua volta sul Concilio, e minacciò il cardinale Santa-Croce, che parlava della traslazione dell'assemblea, di farlo gettare nell'Adige.

Ma Paolo III, approfittando delle febbri che regnavano a Trento, fece decretare la traslazione de' Padri a Bologna. Però i vescovi ultramontani, i quali dicevano «che il papa era un vecchio ostinato, che lavorava a mandar a male la Chiesa», non si mossero.

Carlo V protestò per mezzo de' suoi ambasciatori; e poi rispose col suo decreto dogmatico, conosciuto sotto il nome d'Interim - una specie di compromesso conciliativo tra la dottrina protestante e quella dei cattolici, il quale fece tutti malcontenti.

Paolo III si limitò a riprovare il matrimonio de' preti e la comunione sotto le due specie, e reclamò la restituzione dei beni confiscati al clero in Germania.

Il Concilio di Bologna, ridotto a sei arcivescovi e trentasei vescovi, senza la presenza degli ambasciatori de' principi, non poteva più procedere. Paolo si apparecchiava a chiamarlo a Roma, quando fu côlto dalla morte.

 

 


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