Guido Verona (alias Guido da Verona)
Mimi Bluette

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Mancavano dodici minuti alla seconda ora del pomeriggio, sul meridiano di Greenwich, quando Max e Bluette discesero sul "quai de la Gare de Lyon".

Bluette entrò nella Capitale in un tassametro giallo; al primo quadrivio poco mancò non perdesse la dolce sua vita sotto un camione gigantesco, il quale si muoveva per le strade anguste soffiando e reboando come un ciclopico mammut.

Presero alloggio in una vecchia celebre locanda parigina, che si affaccia verso una strada napoleonica, e dove i corridoi sembravano le retroscene d'un teatro di terz'ordine. Ma una cameriera dalla faccia di pomo, come le donne di Picardia, garbatamente le domandò: "A quelle heure faut-il envoyer un artiste pour onduler Madame?" Ella rispose: "Merci, bonjour!" - e si sentì felice come una Parigina.

Col naso in aria cercava per tutte le strade la Tour Eiffel. Quando la vide, capì finalmente che Parigi somigliava un poco alle sue cartoline illustrate. Parigi era una città come tutte le altre, un poco più grande, con la Tour Eiffel.

Quando Max le fece conoscere la famosa Rue de la Paix, ella si mise a ridere, come se Max volesse farle uno scherzo. Nella Place de l'Opera il Protettore le disse che in quel momento ella si trovava nel centro del mondo. Bluette si guardò intorno stupefatta, con l'aria di chi, stando su l'Equatore, cerchi un segno qualsiasi che lo renda visibile. Ma i boulevards, di sera, le scompigliarono l'immaginazione. D'un tratto le parve d'essere afferrata nel vortice d'un immenso carrosello, e di girare, di girare, sopra un circolo senza fine, tra il carnovale d'una città ubbriaca, sopra veicoli di montagne russe che volassero in mezzo a baldorie di lumi. Guardava le donne, maravigliandosi che da vicino fossero alcune vecchie e brutte, ineleganti e povere; guardava i soldati repubblicani dai calzoni di porpora, pensando alle piume di gallo de' suoi bellissimi bersaglieri. Osservava gli squallidi ronzini delle vetture di piazza ed i grembiuli bianchi dei camerieri da caffè.

Si chiedeva per qual ragione illuminassero tutte le strade con trofei di parole incomprensibili, scritte sui muri, sui balconi e sui tetti; da un lato la testa d'un cuoco, dall'altro il pancione d'un adulto che si fa pungere l'umbilico dall'indice d'una modistina; e girandole di fiammelle, proiettori, cinematografi aerei, punti esclamativi, punti d'interrogazione, parole in tutte le lingue: "Maxima Maximum chez Dusausoy - Bouillons Maggi - le Matin sait tout - la Revue de l'Alhambra - Rouli Rouli... Crémieux... Luna Park... habille bien - Le Matin... Michelin... Galeries... Polin... sait tout..."

Questa ridda le durò nel cervello per un paio di settimane; poi cominciò a comprendere che in tutto quel disordine v'era un'assoluta coerenza. Quale? Forse la più semplice: quella di essere Parigi.

Max in breve le fece conoscere tutte le persone più autorevoli della Capitale: Mimyss d'Houby, "qui avait perdu son gant", ossia che aveva perduto i cinquemila franchi al mese del profumiere Houbigant; Florina-Bey, che aveva credito presso l'Ambasciata Turca; Jennie-Minnie et Lélie, società in accomandita, della quale era gerente un emulo di Max, le vicomte Jean Pinai-Kennedy, che si chiamava Jean Kiki. Poi Boblikoff, ex-domatore d'orsi, che adesso ammaestrava un paio di minorenni; Micaello, creatore di una "valse chaloupée"; Garcia Pois-lourd, o Garcia Poilu, boxeur deluso; Lucien-Lucienne e P'tit-Béguin, maschi a doppio senso.

Queste onorate persone andavano a pranzare nel Bar de la Grande Rouquine, donna che aveva un passato. convenivano tutti, da Mimyss a P'tit-Béguin, oltre un buon numero di clubmen amici del forestiere, jokeys di cartello, che avevano qualche finish particolarmente piacevole o per Florina o per Minnie, polledre di razza; bookmakers, ballerini, dandys, nottambuli, disegnatori, spiritisti, compositori di couplets; critici d'arte affiliati alla sifilide; consumatori di gin e di cocaina; adolescenti che parlavano con il senno della cassa da morto; compratori e venditori di gioielli ambigui; spadaccini che facevano il prestanome in tutte le faccende losche; principi del Caucaso e decorazioni del Missisipì; ex-maîtres-d'hôtel, che, smessa l'onorata marsina, campavano con molto garbo su l'industria del forestiere; professori di bigliardo, scacchi, puzzles e pattinaggio; poi tanti rimbecilliti quanti sia possibile trovare, per i quali, durante il pranzo e la cena, lo scorbutico tzigane suona il pezzo favorito.

Nel Bar della Grande Rouquine Mimi Bluette imparò molte cose. Prima di tutto imparò qualche frase d'argot.

Max le aveva insegnato il "suo" francese; ma pur troppo dovette dimenticarlo.

Quando seppe l'argot, Bluette comprese che ognuno di que' bizzarri tipi era coerente con il bisogno di campare la sua vita. Così ella perdette l'idea provinciale che fosse quasi un furto, non il rubare, ma il farsi regalare per forza tutto quello che c'è nel portafogli d'un forestiero ubbriaco; l'idea che Lucien-Lucienne o P'tit-Béguin fossero stomachevoli per quel po' di belletto che si mettevano su le guance, o Jean Kiki un farabutto perchè aveva una sessanta cavalli della marca Jennie-Minnie et Lélie, o la Grande Rouquine una vendicativa e temibile mezzana perchè aveva per amante un Commissario di Polizia.

Tutte sciocchezze!... Questa brava gente faceva prosperare il suo piccolo commercio, pagando le tasse al Governo e deridendo lo stupore dei buoni provinciali.

La Grande Rouquine, ogniqualvolta poteva parlare con Bluette a quattr'occhi, le diceva con insistenza, mordendo il bocchino della sua lunga sigaretta russa: - Fi!... t'es une gourde!

E questo: "Fi!... t'es une gourde!" le sprizzava dalle sottilissime labbra come il fischio velenoso d'una bella vipera.

Bluette non sapeva cosa volesse dire "une gourde". Quando glielo spiegarono, guardò in faccia la Grande Rouquine con i suoi occhi attoniti e rotondi. Perchè "une gourde?"

- Plaque-le ce macaroni qui fait tant d'esbrouffe! T'es assez bien fichue pour marcher sur tes pattes! Fi!... !

Questo fu il consiglio della Grande Rouquine.

La Grande Rouquine era seccatissima di avere tanto seno quanto ne hanno per solito le quindicenni tubercolose. Aveva due cosce così lunghe da parere in piedi sovra due stampelle; una fisionomia di cera con due grandi occhiacci da gatto, verdi; poi quel suo cespuglio di capelli rossi che le ventava intorno alle tempie come un colore di malvagità. Aveva una voce fioca e sonora, bruciacchiata dall'arsura delle sigarette russe. Dicevano che avesse tirato un paio di stilettate in vita sua, come s'infila un ago da calza dentro un gomitolo di lana.

Ma la polizia, per riconoscenza, le aveva permesso di aprire il Bar.

Limka, violino di spalla dell'orchestrina zingara, il famoso Limka, tzeco delle Batignolles, era suo fratello; cioè figlio di sua madre.

Quanto al padre, Limka la Grande Rouquine nulla sapevano di positivo.

Un cugino di Limka faceva il Régisseur a Montmartre.

Gli raccomandarono Bluette.

Il Régisseur le mise un dito sotto il mento: - Faut achalander, ma poule!...

"Achalander? Achalander? Neanche Max intendeva cosa volesse dire.

Garcia-Pois lourd, boxeur deluso, per quanto a sua volta non fosse un aborigeno, diede tuttavia la spiegazione: - "Eh, bon Diô! ça dire tirrer les cliannts! Achalandèrr, achalandèrr, quoi!..."

Micaello, creatore d'una valse chaloupée, si assunse l'incarico di farne in poche settimane "la premièrre dansôse de la Scalà." Era un bel ragazzo, agile come una pallottola, con occhi da Saraceno. "Et tou me payeras quand tou auras plous de gallette!... Ze ne suis pas compatriote pour rienn, ze ne suis pas!..."

Quando seppe il Cake-walk, la Sailor's-dance, la Chaloupée e tutto il resto, Jennie-Minnie-et Lélie vennero a proporle di fare un numero insieme: Micaello vestito da negro e lor quattro vestite col bianco della loro pelle. Max e Jean Kiki avevano scoperta frattanto un'Americana, ossigenata e robusta, che sfruttavano in società.

Il numero di bianco e nero mandò in visibilio quel rispettabile pubblico, e, sebbene le altre avessero più scuola, quella che piacque fu Bluette.

Il Régisseur la ficcò nella Rivista, indi la portò a cena.

Il Régisseur era un uomo scrupoloso, che pagava lo Sciampagna sei franchi sotto il prezzo della lista e diceva al maggiordomo: - Voyons, Ernest, ne m'embête plus avec ta cousine! Si elle ne parvient pas à relever son gros derrière, qui lui tombe sur les mollets, comment veux-tu que j'en fasse une Commère?

Quanto a Bluette, le disse: - Je ne te donne rien, ma petite, mais aussi je ne te demande rien: ce qui est fort gentleman de ma part.

Bluette si mise a ridere, passandogli una mano leggera sul cocuzzolo calvo.

Soltanto lo pregò di farle portare carta penna e calamaio, perchè voleva scrivere due parole a sua madre.

 

"Cara mammina.

 

Finalmente sono riuscita ad essere "une étoile"; fra poco diventerò quello che a Parigi si chiama "une vedette", il che vorrebbe dire una stella di primissimo ordine. Denari ne avrei molti, se non me li avesse tutti sequestrati regolarmente il mio buon amico Max. Ma non importa, perchè la settimana ventura entrerò ne' miei mobili, come si dice qui; ossia ho trovato un grande industriale che mi mette su casa e mi compera l'automobile. Se hai voglia di venire a Parigi, avvertimi súbito, che ordinerò al tappezziere una bella camera da letto, stile Liberty, ove dormirai bene. Ma, ti prego, non condurmi anche il maestro di scherma, perchè non saprei dove metterlo, e qui ne troverai di molto più eleganti che il tuo. Il grande industriale è uno fra gli uomini più ricchi di Parigi. Ha quarantasette anni; è vedovo; ha due figlie da marito, una vecchia amante in pensione che gli costa un occhio della testa; è ancora un bell'uomo, tutto sbarbato, e pare un Inglese. Questa sera mi ha mandato un filo di perle attorcigliate al manico d'un paniere d'orchidee. Sono a cena col Direttore del mio teatro, un buon diavolo, sempre allegro, che mi protegge e che mi vuol bene. Addio; mammina; ti manda un bacio la tua

 

Bluette"

 

 

 


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