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Il Monastero di Novalesa e l'ubertosa valle e i gioghi che le fanno corona, abbondano di antiche leggende, raccolte dalla celebre Cronaca novaliciense, scritta in barbaro latino, ma piena di peregrine notizie, pubblicata dal Duchesme e dal Muratori, e in Torino dalla R. Deputazione di storia patria, e volgarizzata ed illustrata in alcuni capitoli da Cesare Balbo.
Del cronografo s'ignora il nome e la patria: si rileva però dalla cronaca istessa e dalle osservazioni del cav. Fabrizio Malaspina, ch'egli dimorasse nel Monastero di S. Pietro di Breme.
Amo le antiche leggende dei monasteri, imperocchè sotto il rozzo loro involucro io sento le virtù di operosi romiti, la semplicità d'un popolo credente, e l'ingenuo animo del cronografo cenobita.
Chi ama le leggende si faccia meco sul Rocciamelone, sul più alto fra i picchi circostanti, a 3492 metri dal livello del mare.
«A destra del Monastero (così narra un frammento della Cronaca novaliciense, tradotto dal Balbo) sta il monte Romuleo, eccelso sopra gli altri monti aderenti. Nel quale dicesi dimorasse già durante l'estate, tratto dalla frescura ed amenità del luogo o del lago Romulo, un certo re sterminatamente grande. Da questo re adunque prende nome il monte, a' piè di cui passa la via a Borgogna. Narra il volgo esserci sopra alcuni generi di fiere che sono pure sul Moncenisio, orsi, ibici, capre ed altre, buone a cacciarsi. Nascevi e scendene per un petroso profondo burrone un torrente, in mezzo a cui, dicesi, che sorga come misto un fonte salato, onde le ibici e le capre e le agnelle domestiche vi corrono per amor del sale, dove mette al piano, e molte vi son prese. Dicesi poi che quando nel detto monte dimorava il detto Romulo, vi adunasse un enorme tesoro; ma nullo che ci abbia voluto salire vi potè mai riuscire.
«Ora il vecchio che tante cose di questi luoghi mi narrò già, facevami intendere che egli stesso con un suo compagno chiamato Clemente, essendosi un mattino alzato molto per tempo, e per un cielo serenissimo, presero a salire quanto più presto il monte. Ma sendo già vicini, incominciò il cacume a coprirsi di nubi ed ottenebrarsi; e a poco a poco a crescere l'oscurità e giungere ad essi, ed essi a brancolare colle mani, ed a scamparne a mala pena. Parve loro, dicevano, come se di sopra si buttassero loro pietre; imperciocchè ad altri pure, dicesi, che succedesse il medesimo. Sulla sommità poi, da una parte non trovasi altro che saliunca; dall'altra, dicesi sia un lago di maravigliosa grandezza, con un prato. Il medesimo vecchio poi solea narrare d'un certo cupidissimo marchese nomato Arduino, il quale avendo sovente udito dai villani narrar tali cose, cioè del tesoro ragunato sul monte, e accesone di desiderio, subito comandò ai chierici che seco ne venissero a salire, i quali, tolta la croce e l'acqua benedetta, e cantando Vexilla Regis e le litanie, misersi in via; ma prima d'arrivar all'apice del monte, non diversamente dagli altri, con ignominia se ne tornarono.» Fin qui la cronaca al libro XI, cap. V.