Giuseppe Regaldi
La Dora

CAPITOLO TERZO DA SUSA AL PIRCHIRIANO

XXII.

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XXII.

 

Questa luttuosa catastrofe suggerì ad Alessandro Manzoni due lavori, tesori di patria letteratura, la tragedia l'Adelchi, e il discorso (Della storia longobardica in Italia) che l'accompagna; tale, diremo volentieri con Tommaseo, che di per basta alla fama d'un nome.

Visitando le Chiuse e i dintorni, ne ammirai la fedele dipintura nelle pagine del Manzoni, non altrimenti che in Grecia, consultando l'Odissea di Omero, io riscontrava l'antico porto d'Itaca, dove al suo ritorno in patria approdava Ulisse, e la misteriosa grotta dalle due porte, nella quale egli deponeva i ricchi doni avuti nella reggia dei Feaci.

Il Manzoni, ponderate le particolarità della cronaca Novaliciense, e studiati i documenti e le opinioni che di quel fatto scrittori diversi ci tramandarono, erudito e filosofo del pari, si mostrò conoscitore peritissimo de' tempi e de' luoghi, quasi che si fosse egli trovato al di delle Alpi e nella Novalesa ai consigli dei re Franchi, ed a quelli del Longobardo nella reggia di Pavia, o che il suo fatidico spirito aleggiasse nelle pianure lombarde e sui monti cozzii allo scontro dei due tremendi nemici.

I gioghi e i valloni, i torrenti e le ghiacciaie, e le leggende del Rocciamelone, alle cui falde sorgevano le tende dei Franchi, tutto è con vivi colori espresso dal nostro poeta nelle parole del diacono Martino a Carlomagno, quando nella Novalesa gli narra come egli giunto presso le Chiuse abbia saputo schivare i vigili Longobardi, e torcendo a settentrione per ardui e reconditi cammini, condursi al suo campo. Uditelo. Nella nostra Italia dove si odono sempre con piacere ripetere le melodie del Rossini e del Bellini, con pari diletto ed ammirazione si udrà alle Chiuse ripetuta una delle più stupende pagine della poesia Manzoniana. Il monaco Martino interrogato da re Carlo come a lui fosse nota la via, e come al nemico ascosa, risponde:

 

Dio gli acciecò, Dio mi guidò. Dal campo

Inosservato uscii; l'orme ripresi

Poco innanzi calcate; indi alla destra

Piegai verso Aquilone, e abbandonando

I battuti sentieri, in un'angusta

Oscura valle m'internai: ma quanto

Più il passo procedea, tanto allo sguardo

Più spazïosa ella si fea. Qui scorsi

Greggie erranti e tuguri: era codesta

L'ultima stanza de' mortali: entrai

Presso un pastor, chiesi l'ospizio, e sovra

Lanose pelli riposai la notte.

Sorto all'aurora, al buon pastor la via

Addimandai di Francia. - Oltre quei monti

Sono altri monti, ei disse, ed altri ancora,

E lontano lontan Francia; ma via

Non avvi: e mille son quei monti, e tutti

Erti, nudi, tremendi, inabitati

Se non da spirti, ed uom mortai giammai

Non li varcò. - Le vie di Dio son molte,

Più assai di quelle del mortal, risposi;

E Dio mi manda. - E Dio ti scorga, ei disse:

Indi tra i pani che teneva in serbo

Tanti pigliò di quanti un pellegrino

Puote andar carco: e in rude sacco avvolti

Ne gravò le mie spalle: il guiderdone

Io gli pregai dal Cielo; e in via mi posi.

Giunsi in capo alla valle, un giogo ascesi,

E in Dio fidando, lo varcai. Qui nulla

Traccia d'uomo apparia; solo foreste

D'intatti abeti, ignoti fiumi, e valli

Senza sentier: tutto tacea; null'altro

Che i miei passi io sentiva, e ad ora ad ora

Lo scrosciar dei torrenti, o l'improvviso

Strider del falco, o l'aquila dall'erto

Nido spiccata in sul mattin, rombando

Passar sovra il mio capo, o sul meriggio,

Tocchi dal sole, crepitar del pino

Silvestre i coni. Andai così tre giorni;

E sotto l'alte piante, o nei burroni

Posai tre notti. Era mia guida il sole;

Io sorgeva con esso e il suo viaggio

Seguìa, rivolto al suo tramonto. Incerto

Pur del cammino io gia, di valle in valle

Trapassando mai sempre; o se talvolta

D'accessibil pendìo sorgermi innanzi

Vedeva un giogo, e n'attingea la cima,

Altre più eccelse cime, innanzi, intorno

Sovrastavanmi ancora; altre di neve

Da sommo ad imo biancheggianti, e quasi

Ripidi, acuti padiglioni al suolo

Confitti; altre ferrigne, erette a guisa

Di mura insuperabili. - Cadeva

Il terzo sol quando un gran monte io scersi,

Che sovra gli altri ergea la fronte; ed era

Tutto una verde china; e la sua vetta

Coronata di piante. A quella parte

Tosto il passo io rivolsi. - Era la costa

Orïentale di quel monte istesso,

A cui di contro al sol cadente, il tuo

Campo s'appoggia, o sire. - In su le falde

Mi colsero le tenebre: le secche

Lubriche spoglie degli abeti, ond'era

Il suol gremito, mi fur letto, e sponda

Gli antichissimi tronchi. Una ridente

Speranza, all'alba, risvegliommi, e pieno

Di novello vigor la costa ascesi.

Appena il sommo ne toccai, l'orecchio

Mi percosse un ronzìo che di lontano

Parea venir, cupo, incessante: io stetti,

Ed immoto ascoltai. Non eran l'acque

Rotte fra i sassi in giù; non era il vento

Che investìa le foreste, e sibilando,

D'una in altra scorrea; ma veramente

Un rumor di viventi, un indistinto

Suon di favelle e d'opre e di pedate

Brulicanti da lungi, un agitarsi

D'uomini immenso. Il cor balzommi: e il passo

Accelerai. Su questa, o re, che a noi

Sembra di qui lunga ed acuta cima

Fendere il ciel, quasi affilata scure,

Giace un'ampia pianura, e d'erbe è folta

Non mai calcate in pria. Presi di quella

Il più breve tragitto: ad ogni istante

Si fea il rumor più presso: divorai

L'estrema via; giunsi sull'orlo, il guardo

Lanciai giù nella valle, e vidi... oh! vidi

Le tende d'Israëllo, i sospirati

Padiglion di Giacobbe: al suol prostrato,

Dio ringraziai, li benedissi, e scesi.

 

 


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