Giuseppe Regaldi
La Dora

CAPITOLO TERZO DA SUSA AL PIRCHIRIANO

XXV.

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XXV.

 

A breve distanza dal Monte Caprasio, presso Chiavrie, si vedono le rovine del quadrangolare castello del Conte Verde. Seduto innanzi alle sue merlate mura meditai nelle pagine del Manzoni il ferale avvenimento delle Chiuse e le contrarie sentenze degli scrittori. Alcuni, fra i quali il Giannone, opinarono essere stata una calamità per l'Italia la sconfitta de' Longobardi, i quali a noi mescolati per consuetudine di vita, e ingentiliti nei costumi nostri, sbarazzatisi de' Greci, avrebbero alla fin fine ricomposte le disgregate parti della penisola in una potente nazione. Altri, per contro, danno lode a papa Adriano I, che richiamò i Franchi, perchè,

 

....Quando il dente longobardo morse

La santa Chiesa, sotto alle sue ali

Carlo Magno, vincendo, la soccorse.

 

e inoltre perchè colla venuta de' Franchi, come asserisce il Manzoni, i Romani ottennero per mezzo de' papi uno stato che li guarentiva dalle invasioni barbariche, e fu un insigne benefizio.

Esaminando le contrarie opinioni, io vedeva nel Discorso del Manzoni, direi quasi, connaturate le anime del Muratori e del Vico, dei quali egli ci il più stupendo ritratto che desiderar si possa: e nella tragedia, come ravvisiamo lo stesso cantore dell'Eneide nel pius Æneas, così nel personaggio dell'Adelchi io riveriva la pia e generosa anima dell'autore, che si riconosce in tutte le sue opere, e la riscontrai nella venerata sua persona, allorchè in compagnia del mio dolce amico ed illustre latinista G. Gando andai la prima volta a inchinarlo su le rive del Verbano, e lo trovai dolorante innanzi al recente sepolcro del filosofo ed amico suo Rosmini.

Di pensiero in pensiero fra l'erudito e il filosofo io andava cercando il poeta nazionale, e lo trovava in due cori, potenti voli della lirica italiana.

Ermengarda, la figlia di Desiderio, moglie di Carlomagno, che

 

Con l'ignominia d'un ripudio in fronte

 

torna alla paterna reggia, e ricoveratasi in Brescia nel monistero di San Salvadore, cessa di soffrire cessando di vivere, è tale episodio che trasse dal cuore del poeta un canto che tutti sanno come sia improntato di santo dolore e di carità cristiana.

 

Sparsa le trecce morbide

Su l'affannoso petto,

Lenta le palme, e rorida

Di morte il bianco aspetto,

Giace la pia, col tremolo

Guardo cercando il ciel.

 

L'altro coro è nell'atto terzo, e vi senti lo stato angoscioso d'Italia.

 

D'un volgo disperso che nome non ha.

 

Nel dramma è rappresentato lo spettacolo di due forze straniere che vengono a cozzare sulla nostra terra, e forse non basta al compiuto trionfo del teatro, perchè fra quella barbara lotta non udiamo il lamento d'Italia, di questa novella Ifigenia, sagrificata all'ambizione di due superbi stranieri, se ne levi il coro

 

Dagli atrii muscosi, dai fôri cadenti, ecc.

 

Il poeta nazionale, nel cui pensiero, come ben avverte il Tommaseo, la tirannide longobarda era sacra, la conquista di Carlo era santa, in quel coro si leva gigante coronato di tutta la sua luce. Egli non è franco, non longobardo, non papista; egli si è innalzato al di sopra delle controversie dell'erudizione e della filosofia, e sfolgora nella sfera della giustizia suprema, donde guardando quaggiù alle superbie della polvere umana sente con Balbo, che signori stranieri, civili o barbari, si rassomigliano; e nelle ultime strofe del coro dirette agli Italiani raccoglie la sintesi di tutto il dramma, il concetto vero e sublime del poeta che maledice, nella lotta delle Chiuse, vinti e vincitori, esclamando:

 

E il premio sperato, promesso a quei forti

Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,

D'un volgo straniero por fine al dolor?

Tornate alle vostre superbe ruine,

All'opere imbelli dell'arse officine,

Ai solchi bagnati di servo sudor.

Il forte si mesce col vinto nemico,

Col nuovo signore rimane l'antico,

L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.

Dividono i servi, dividon gli armenti,

Si posano insieme sui campi cruenti

D'un volgo disperso che nome non ha.

 

 

 


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