Giuseppe Regaldi
La Dora

CAPITOLO QUARTO DAL PIRCHIRIANO A TORINO

II. La Sagra di S. Michele.

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II.

 

La Sagra di S. Michele.

 

A dieci miglia da Torino, nella Valle della Dora, a guisa di promontôri irti e scabri, sorgono due monti, Pirchiriano e Caprasio, che separati dalle acque del fiume si guardano davvicino fra mezzodì e tramontana, come se da potenza misteriosa dovessero venir congiunti per impedire all'avido straniero l'entrata in Italia. I due monti abbondano di leggende, e specialmente il Pirchiriano per la famosa Badìa che gl'incorona il capo, già abitata da monaci Benedettini, ed ora da preti Rosminiani, uno de' quali mi è stato benevola guida al salire.

Quel Rosminiano, Clemente di nome, avea in cervello tutte quante le cronache e tradizioni del Pirchiriano e de' luoghi circostanti, e mi aperse i tesori della sua erudizione.

- Sino dal secolo nono dell'êra cristiana, egli mi diceva, le nostre giogaie furono abitate da penitenti cenobiti, che sulle cime di questo monte costruirono un oratorio all'Arcangelo S. Michele. Invitato sullo scorcio del decimo secolo a consacrare l'oratorio, venne Amisone vescovo di Torino. Si narra, che nella notte precedente alla consacrazione, a lui ed ai molti del suo seguito dormenti in Avigliana apparisse vivida luce sull'Oratorio e per le rupi del monte; e che pieno la mente di tal visione il vescovo, giunto all'Oratorio, incontrasse schiere luminose di angeli con insegne pontificali, e una colomba, che scesa dal cielo volava intorno all'alpestre tempietto. Entrato nella chiesuola vide i candelabri per prodigio accesi, e il pavimento sparso di cenere, e su le pareti le croci stillanti di olio, e l'altare eretto dagli angeli tutto fragrante di balsamo e d'incenso e radioso di luce sovrumana. Allora il buon vescovo si chiarì che il tempietto di S. Michele era stato già dagli angeli consacrato, ond'egli ne rese grazie a Dio, offerendogli il santo sacrificio della messa su l'altare taumaturgico.

- Voi davvero mi narrate mirabili cose, io lo interruppi: ma da qual fonte mai traeste codeste memorie?

- Non v'ha alcun dubbio intorno alla consacrazione degli angeli, ripigliò il prete Clemente: ne parlano con fede la Cronaca Clusina e la Malleacense, e l'Ughelli ed Agostino della Chiesa e il Terraneo ed altri gravi scrittori la confermano; ed anzi vi aggiungerò che i devoti della Valle qui concorrono ogni anno a celebrare il 29 maggio, giorno del miracolo.

Ma se desiderate udire altro di questi luoghi, vi narrerò cose non meno mirabili, che vi tempreranno le noie dell'aspra salita.

- Sì sì, proseguite, ve ne prego, io gli risposi.

- Ebbene udite. Fra i cenobiti che assistettero alla costruzione dell'Oratorio di S. Michele vuolsi ricordare il santo romito di Ravenna, Giovanni Vincenzo. Il bravo prevosto di S. Ambrogio vi avrà fatto leggere nei codici membranacei dell'archivio parrocchiale, che Giovanni, essendo arcivescovo di Ravenna, nel conferire la cresima dimenticò il fanciullo di una povera vedova, il quale morì senza il sacramento della confermazione. L'arcivescovo ne fu addolorato, e colla preghiera ottenne da Dio la risurrezione del fanciullo, onde lo potè rendere, subito cresimato, alla madre. Salito in fama di santo per così segnalato miracolo, a fuggire le tentazioni della vanità, lasciò il seggio episcopale e si chiuse nella solitudine delle Alpi. Visse penitente sul Caprasio e poi tramutossi al Pirchiriano fra i cenobiti di S. Michele. Vien tuttavia ricordato sul Caprasio da una cappella alla B. Vergine, ch'egli eresse, e lo ricordano le sue spoglie mortali venerate nella chiesa di Sant'Ambrogio. Ma la più splendida memoria di lui è la Badìa, di cui lassù appariscono le rovine, che fu edificata col suo consiglio e patrocinio.

A que' tempi fu veduto salire per questi greppi un francese di grande autorità, Ugone di Montboissier, gentiluomo dell'Alvernia, detto lo Scucito. Avea seco la sposa Isengarda e sèguito numeroso; e veniva da Roma, dove erasi prostrato innanzi alla tomba degli Apostoli ad invocare dalla Chiesa perdono di gravi peccati. La Chiesa gli perdonò, ingiungendogli a penitenza, o di vivere sette anni esule dalla patria, o di edificare sulle Alpi un monistero.

- Edificherò un monistero - egli disse; e secondando la voce del cielo, ed animato da angeli apparsigli in sogno, venne fra queste Alpi, e andò sul Pirchiriano a richiedere di consiglio il romito Giovanni. Lascio nella loro integrità le pie tradizioni del luogo, per cui vi dirò che il signore d'Alvernia, giunto a questi dirupi, franto dai disagi delle salite e bisognevole di ristoro per e i suoi, aveva soltanto un'ampollina di vino, che però benedetta dal romito Giovanni si converti in vena inesauribile da dissetare la stanca compagnia.

Ugone d'Alvernia a tale prodigio sempre più si accese nella deliberazione di erigere il promesso monistero presso il miracoloso Oratorio, spendendo in tale impresa i molti suoi tesori, coll'assistenza del romito Giovanni, e coll'assenso di Arduino marchese d'Ivrea, dipoi re d'Italia, sedente allora nel castello d'Avigliana.

Sorse infatti sul finire del decimo secolo, o nei primi anni dell'undecimo il magnifico monistero, che Abbazia della Stella fu nominato, ed Abbazia di S. Michele della Chiusa dallo storico paesello alle falde occidentali del monte, e più comunemente per antonomasia la Sagra di S. Michele.

Papa Silvestro II, compiacendo al vescovo Amisone, fu largo di privilegi alla Badìa di S. Michele che, per le donazioni de' fedeli cresciuta di ricchezze, colla preghiera e coll'opera de' suoi trecento monaci Benedettini si segnalò per santità e dottrina fra le quattro prime badìe d'Italia, emula delle più cospicue nella cristianità. -

Mentre queste e simili altre cose mi andava raccontando il prete Rosminiano, io non soddisfatto della cavalcatura salivo a piedi, soffermandomi di tanto in tanto a guardare i pittoreschi dintorni, e pensavo che gli scrittori di que' luoghi farebbero meglio a distinguere la schietta storia dalle vane leggende, che ad accozzare un indigesto ammasso d'incondita erudizione, come fece l'Avogadro nella sua Storia dell'Abbazia di S. Michele, per cui si direbbe ch'egli fosse un cronista de' tempi barbari, anzi che uno storico nella piena luce del secolo xix.

 

 


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