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Norberto Rosa e il Cantamerlo.
Quel podere sostenuto dai baluardi dell'antico castello è una bella casa con fregi e porte di stile gotico, e con una torre ottangolare coronata da otto merli biforcati, dipinti in rosso. Intorno alla casa su le rupi del monte ridono campi fertili e fiorite aiuole; e gelsi, pampini ed allori verdeggiano fra i rosai.
«Il Cantamerlo è un piccolo podere
Fra campo e vigna e un po' di bosco in fondo
Con una casa colorata in biondo
E nel mezzo una torre o belvedere,
Donde si può d'una vista godere,
Che la più bella non si gode al mondo,
La Dora, i laghi, cento ville a tondo,
E la Sagra e Superga infra le sfere».
Così giovialmente lo descriveva il caro Norberto; e nella vôlta della torre, in lieta cameretta, mi additava figurato su di un ramoscello di edera il merlo, da cui piglia nome il fantastico suo podere; e frattanto ci allietava il soave mormorio delle acque della Dora, che scorrono in verdissimi prati tra filari di pioppi e salici.
Norberto Rosa, dirò col suo biografo, il Borella, è stato uno di quegli uomini che non si ricordano mai abbastanza, siccome modello di virtù pubbliche e private. Visse onoratamente nell'esercizio del fôro; e, facile all'ironia, la usò molte fiate con rara felicità in verso e in prosa. Dall'anno 1840 cominciò a scrivere nel Messaggiere Torinese, e continuò quando in questo e quando in quello de' diari più popolari d'Italia la sua vita di brioso scrittore.
Il primo plebiscito del regno d'Italia fu il felice concetto di Norberto, cioè la soscrizione dei cento cannoni per la fortezza di Alessandria, che promossa pure dalla Gazzetta del Popolo, fu preparazione ai trionfi dell'unità italiana.
Consorte e padre de' più amorevoli fu il nostro Norberto, ed amico sincero. Io lo provai, che, eccitato da' suoi incoraggiamenti, presi a descrivere la valle della Dora, da lui onorata. Egli mi aveva accompagnato col consiglio e talvolta di persona dalla sorgente del patrio fiumicello sino alla Sagra di S. Michele.
Nel giugno del 1862 egli mi aspettava nel suo Cantamerlo e preparava preziose notizie a fecondare il mio lavoro. Ahimè! mi giunse in Torino la notizia della sua morte, e la penna con cui descriveva le regioni della Dora mi cadde di mano sulle pagine bagnate di pianto, nè più seppi ripigliarla, se non quando le recenti calamità toccate al Piemonte mi consigliarono a dire qualche parola di conforto a questa magnanima terra subalpina, gravemente offesa.
Ben meritò il lagrimato amico che di lui scrivesse Giuseppe Revere:
Schietto il cor, mesto il labbro, e il ratto ingegno
Ricco di argute fantasie gioconde
Ebbe questi che morte ora n'asconde,
Non ancor giunto al suo maturo segno.
Amò l'Italia, . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
Amò l'alpe natìa donde s'affretta
La Cozia Dora a disposarsi all'acque
Del fiume che il suo mare alto richiede.
Amò quell'arte che pungendo alletta,
Nè giammai per paure il vero tacque
Cui sacrava l'intrepida sua fede.