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LVI.
Tre pensieri mi rimangono di Collegno, il castello, il molino anglo-americano ed il manicomio.
Il castello di Collegno è assai antico. Tutta Italia fu munita sui monti di tali fortezze, o per difesa di un feudatario contro un altro, per frenare l'impeto degli stranieri che spesso irruppero su le nostre belle contrade, contenti di trovarle discordi e miseramente divise.
Codesto castello seguì le vicende del paese, passando di padrone in padrone, di rovina in rovina. I Francesi che nel secolo decimosesto cerchiarono Torino di fortificazioni, da essi poi smantellate ai tempi napoleonici, atterrarono molta parte di questo castello prima della loro sconfitta a S. Quintino. Una parte sta ancora in piedi ad attestare la fortezza del tutto, atto e disposto a resistere al morso dei secoli, non che alla rabbia degli invasori.
Quell'ampio palazzo, che vedesi là a maestrale verso la Dora, appartiene ai Provana di Collegno, e fu innalzato su gli avanzi del combattuto castello. La sua torre, che domina il bastione Verde a guisa di cittadella, n'è pure avanzo. Ora non serve che a bellezza pittorica.
Nel 1854 mi feci alle porte di quel palazzo cinto da giardini, e il nipote degli antichi feudatari mi permise che, accompagnato da un suo servo, io vedessi su vasta tela l'effigie di un illustre suo antenato, vestito alla spagnuola, e che fra massicci muraglioni e per iscala di legno salissi la vecchia torre.
Sorgente da folte selve, quella bruna torre veduta da lontano pareva che al sommo portasse un vaso enorme di fiori e frutti. In cima del torrione ai quattro angoli trovai quattro aceri cresciuti a maraviglia: tre erano imbozzacchiti come molti alberi delle schiatte feudali; uno reggeva agli anni.
Il sole mi dardeggiava, e l'acero vivo avviticchiato dai tralci di vite vergine mi proteggeva della sua ombra, mentre io guardandomi intorno, pensava a certe reliquie di reggimento feudale rimaste a Collegno, nei quaranta franchi che il Comune pagava alle guardie, e negli ottocento franchi di canone al conte del castello.
Forse ogni resto di feudalismo cessò ora che eziandio la vecchia torre spogliata degli aceri perdette il bruno aspetto del medio evo e si volle ringiovanirla coll'imbiancarla.
«Il secolo si rinnova, e si deggiono operare grandi riforme», andavasi ripetendo sul Bosforo ai tempi del sultano Mahmud: e il sultano, volendo provare di essersi posto a capo delle civili riforme, cominciò dal far imbiancare le moschee e spogliarle de' vecchi arredi, anche preziosi, per sostituirvi i nuovi, talvolta di poco valore.
Così fra noi, «Il secolo si rinnova», si va gridando, e s'imbiancano gli atrii storiati de' santuari, s'imbiancano le brune torri del medio evo, e nella mia Novara si è atterrata la vetusta cattedrale di arte cristiana, per erigervi invece una chiesa di arte profana.