Giuseppe Regaldi
La Dora

CAPITOLO QUINTO TORINO

XIX. Arte e Patria.

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XIX.

 

Arte e Patria.

 

Non lascerò così grato argomento senza prima far cenno che l'Arte, considerata nel complesso de' suoi attributi, qui spesso rappresentò i destini della patria, e li preparò talvolta.

L'Architettura dai Cesari di Roma ad Emanuele Filiberto ricorda gli avvenimenti di sei tempi diversi nel turrito edifizio Augustale, il quale, ristaurato dal Municipio, spiccherà venerando, abbattute le case che ne impedivano la vista. L'Architettura narra i fasti e i lutti della stirpe Sabauda e del Piemonte, additandoci la Reggia e i reali Castelli e il Palazzo Carignano, culla di Carlo Alberto e del Parlamento del Regno italico. Essa, guidandoci al ponte di pietra a cinque archi onde si varca il Po, c'invita a salutare in cima ai côlli torinesi la Basilica di Superga, dedicata a Maria, sepoltura dei nostri Re. Quel tempio, architettato dal Juvara, è monumento di vittoria nazionale, eretto da Vittorio Amedeo II in ringraziamento a Dio per aver liberato questo combattuto paese dall'insolenza forastiera.

Guardando a Superga, ripetiamo esultanti colla Debora del Piemonte, Giulia Colombini:

 

«Oh! salve dal tuo côlle

Di patria indipendenza alto trofeo!

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Tu il sorriso del ciel sui brandi nostri,

Tu il prodigio d'amor Micca ci mostri.

Sul vinto baluardo

Spiegava lo stendardo

Il Francese guerrier: l'ardito esempio

Cento seguiano e cento;

Ma, nuovo Curzio, nel fatal momento

Diede il suo capo il Gran Biellese, e volle

stesso per la patria in sacramento;

Scoppiò l'accesa polve, e glorïoso

Micca su mille eroi tomba si aderse.

Oh viva eterno! E laude a te che, sperse

L'armi Franche, o Amedeo, vittorïoso

Innalzasti sul monte

Simbolo di salvezza, ara al Piemonte

 

Colla Basilica di Superga la Monarchia Sabauda ringrazia Iddio in vetta ai côlli torinesi; e alle loro falde il popolo subalpino lo ringrazia nel tempio della Gran Madre di Dio.

Quella chiesa, edificata col disegno del Bonsignore, ricorda il Panteon di Roma e il tempio del Canova in Possagno. Benchè posta sovra alto basamento con pronao grandioso ed ardito, trovasi oppressa dalle colline circostanti, ma nella mia mente quella chiesa prende gigantesche proporzioni, e dai côlli si eleva sfavillante d'insolito splendore, quando ricordo essere stata costruita per voto del Corpo Decurionale Torinese (1818), dopo il ritorno della stirpe Sabauda dalla Sardegna al Piemonte. Fra le colonne del tempio circolare ricordo le feste cittadine al cessare della gallica dominazione, e il solenne ingresso in Torino di Vittorio Emanuele I, addì 20 maggio 1814. Alla erezione di quella chiesa esultò il Piemonte, che vide restituita la dignità nazionale a queste regioni, riacquistando la dinastia di que' Principi che per otto secoli n'erano stati i reggitori e i padri, educando il popolo alle armi ed alle industrie, e a mantenersi libero dal giogo straniero.

L'arte statuaria con maggiore evidenza ci narrò i fasti della patria effigiandone gli eroi.

Non è stata felice nel ritrarre in bronzo e in marmo il Conte Verde; ma felice e gloriosa oltre ogni dire fu rappresentando nella Piazza San Carlo il Duca Emanuele Filiberto, che, vinta la battaglia di S. Quintino e firmato il trattato di Château-Cambrésis, entra in Torino vindice e stabilitore della sua schiatta, e, riposta la spada, interamente si ad ordinare il governo civile. La statua equestre in bronzo, e la battaglia e il trattato scolpiti in altorilievo nel piedistallo compongono il monumento principale della città per concetto e bellezza d'arte.

Il bolognese Salvatore Muzzi, perito negli studi dell'arte e noto per affettuosi libri di letteratura educativa, spesso mi era compagno nel 1863, mentre per le vie di Torino andavo notando le cose più degne di ricordo.

Un , dalla statua equestre di Emanuele Filiberto andammo insieme ad ammirare quella pure in bronzo del Re Carlo Alberto nella piazza dallo stesso Re intitolata. Girammo intorno al grandioso monumento di granito e di bronzo, ricco di statue e storiati bassorilievi, da cui sorge sul destriero di battaglia l'augusto martire dell'indipendenza italiana, col brando sguainato, in atto di capitanare l'esercito nelle pugne nazionali.

Io osservava che meglio delle attillate divise militari d'oggidì si affanno alle scolture le antiche armature e i larghi paludamenti; e consideravo che i bassorilievi di quel monumento con militari in tunica e borghesi in abito di rispetto non sono tanto ammirati. Il Muzzi non poteva farsi apologista di questa parte dell'opera; ma notava come l'artista abbia tenuto assai depressi i quattro storici bassorilievi, ed abbia saputo ad un tempo trattarli per modo che tutto vi si legge bene, anco esposti all'ombra, anche nell'ora del tramonto: e se non potea difendere che l'artefice avesse frammisto la realtà dei quattro soldati di tutto tondo alle quattro donne simboliche assise sul secondo piano del monumento, osservava, come ad una ad una le otto statue ornamentali siano veramente assai belle, e degne dell'artista che le concepì e plasticò, sicchè le bellezze de' modelli sono trasfuse nel bronzo.

Levandomi dalle controversie dell'arte al concetto incarnato nelle due statue equestri, io salutai col Muzzi in piazza San Carlo il Genio della Stirpe Sabauda che, ricuperata la signoria degli Stati aviti, ripone la spada nel fodero per attendere alle imprese di pace, e nella piazza Carlo Alberto salutai lo stesso Genio cavalleresco, che, pronto all'invito degl'Italiani, torna a sguainare la spada, già gloriosa in S. Quintino, per dare libertà e potenza a tutta la nazione.

Era conveniente che il medesimo artefice dovesse interpretare e significare nel bronzo la duplice impresa di quel Genio guerriero e legislatore. L'insigne artefice fu l'italiano Marochetti.

Altri monumenti per le piazze e nelle vie ci ricordano i fatti generosi de' Principi e del popolo. Nella facciata del Palazzo municipale veggonsi le statue marmoree del Principe Eugenio di Savoia e del Duca Ferdinando di Genova, scolpite dal Simonetta e dal Dini, e donate dal banchiere Mestrallet, degne di lode, comechè alcuni le notassero di soverchio movimento, quasi fossero simulacri d'artisti ginnastici. Innanzi al mastio dell'antica cittadella di Torino ci si presenta Pietro Micca, statua in bronzo modellata dal Cassano, degno allievo del Vela; in cospetto al Palazzo Carignano, già seggio del Parlamento, l'Albertoni ci addita una sua applaudita scultura, Vincenzo Gioberti, colà collocato come esempio e scuola agli oratori della patria; e nella piazza Castello v'ha l'Alfiere del Vela, che, stringendo il patrio vessillo nella sinistra, e la spada colla mano destra, dal Palazzo Madama guarda a Doragrossa: profetico dono dei Milanesi all'Esercito Sardo, il 15 gennaio 1857.

Se pei verdi viali saliamo al pubblico giardino, detto dei Ripari, quattro sculture di marmo ci empiono l'animo di civili e guerresche memorie. Ci si mostrano Guglielmo Pepe che varca il Po, bel lavoro del professore Butti, ed Eusebio Bava, vincitore a Goito, opera dell'Albertoni. Le statue dei due valorosi capitani sembrano erette sul medesimo poggio dei Ripari per celebrare l'unione degli eserciti di Napoli e del Piemonte nelle battaglie nazionali. Chi non ammira colà i due marmi animati dal Vela? Nell'uno è onorato il Manin, il veneto cittadino che, repubblicano di origine, con vivo accorgimento riconobbe e riverì nella monarchia di Savoia l'unica salute della presente Italia; nell'altro marmo è onorato Cesare Balbo che meditabondo tiene la mano sul rinomato suo libro Delle Speranze d'Italia. Visitatori del grand'uomo, non rompete con vane ciance il nobile corso de' suoi pensieri. Egli è assorto in gravi meditazioni. Inchinatelo tacendo, e andate oltre.

Dai fioriti viali dei Ripari trasportiamoci fra gl'incensi degli altari nella Chiesa della Consolata che ricorda Ardoino, l'infelice re d'Italia, in una cappella da lui eretta.

Nel 31 luglio di quest'anno entrai in quel tempio mentre il cielo abbuiatosi turbinava, e, piovendo a dirotta, il vento dalle finestre aperte spingeva l'acquazzone contro le marmoree colonne del Santuario. Una musica soavissima si diffuse, e parve colla virtù dei suoni rasserenare la scompigliata natura. Era il nostro celebrato Marini che sonava l'organo maraviglioso del tempio. Egli toccando maestrevolmente colle magiche dita i tasti dell'organo crea subite armonie ispirate dall'affetto del cuore e dalla maestà della religione.

Una vivida luce tornò a rallegrare il cielo e la chiesa; l'incantevole musicista coi suoni ora imitando il canto degli usignuoli traea il mio spirito a pregare in fondo ad una selva, ed ora imitando i flebili rintocchi della campana mi ricordava in sul vespero l'Ave Maria del villaggio. Così mentre il Marini in varie guise svegliava il sentimento della preghiera, io mi era prostrato presso la cappella semicircolare dove stanno le marmoree statue delle due regine genuflesse, Maria Teresa e Maria Adelaide, che si amarono in vita e che compiante morirono quasi ad un tempo nel gennaio 1855.

Un angelo colle ali spiegate tiene sospese due corone sul capo delle auguste donne che innanzi al Santuario di nostra Donna Consolatrice invocano la concordia e la prosperità sulla Reggia e su l'Italia.

Le due statue, opera del Vela, sono capolavori dell'arte moderna e gloriosi monumenti di quel prodigioso Santuario, da cui mi allontano per farmi alla Cattedrale di S. Giovanni eretta da Baccio Pontelli o da Meo del Caprino sugli avanzi di tre chiese antichissime.

Spesso ritorno alla Cattedrale, ma non a ricordare la bandiera musulmana e il vessillo colla Croce di Savoia insieme sventolanti innanzi alla SS. Sindone per ringraziare il Dio delle vittorie nella oppugnazione di Sebastopoli. Se lo spettacolo delle due bandiere, al quale assistemmo nel 1855, fosse avvenuto nel 1578, quando dal prossimo vicolo, ove abitava Torquato Tasso, più volte vi sarà andato devotamente a chiedere inspirazioni dal funebre Sudario di Cristo, oh! senza dubbio l'epico cantore delle Crociate sarebbe uscito dalla chiesa indispettito, per recarsi a disfogare il cristiano suo sdegno nella prossima casa che abitò pochi mesi, consacrandola per tutti i secoli!

Io vi ritorno per salire alla Cappella circolare della Sindone, ardimentosa struttura del Guarini, dal cui pinnacolo piove la mesta luce a illuminare quel regale recinto. Quivi intorno all'urna contenente il Sudario di Cristo morto sono monumenti e simulacri d'insigni uomini di Casa Savoia: quivi lo scultore Marchesi ornò il sepolcro di Emanuele Filiberto, il Cacciatori quello di Amedeo VIII, il Fraccaroli quello di Carlo Emanuele II, e il Gaggini quello del Principe Tommaso.

Bella gara artistica per onorare la memoria di grandi uomini trapassati! Bell'effetto ottico di que' massi bianchi figurati su que' fondi di nero marmo!

A un lato, dentro nicchia di ricco ornamento, fra colonne di marmo nero con capitelli corinzii dorati, non possiamo guardare, senza esserne commossi, la statua della regina Maria Adelaide, augusta moglie del Re d'Italia Vittorio Emanuele II. Il ligure artista Revelli scolpivala seduta, in bianco marmo da lui animato, poi la seguiva nella beatitudine de' buoni.

Non meno della Scoltura fra noi piacquesi egregiamente la Pittura di ritrarre patrii soggetti. Splendido esempio ne trovai in Savigliano, nella città ch'ebbe la prima tipografia del Piemonte, portatavi dal tedesco Giovanni Glim nel 1470.

Colà il Molineri detto il Caraccino nella vasta sala del palazzo, già ducale, ora del marchese Taffini, immaginò sei grandi arazzi pendenti dai balaustri d'un cortile rettangolare. Negli arazzi dipinse le geste militari, e nel cielo aperto l'apoteosi del Duca Vittorio Amedeo I, figlio di Carlo Emanuele I, la cui effigie vedesi sovra la porta della sala. Nell'apoteosi intorno al carro della Vittoria scorgonsi le quattordici lettere componenti il nome di Vittorio Amedeo sostenute vagamente da angioletti; e ne' guasti caratteri de' cartelli si scoprono iscrizioni latine sotto città e fortezze diverse; e servono a indicare i loro nomi insieme cogli stemmi corrispondenti, non già i fatti d'armi e le imprese rappresentate su quelle mura, come opinò il Napione illustrando quei dipinti.

Gli affreschi della Sala Taffini sono l'ultima e la principale opera di Giovanni Antonio Molineri. Al pari di lui altri valenti dipintori nel suolo subalpino colorarono le imprese eroiche della patria, e volentieri andrei accennando i loro lodati lavori sparsi nella città, se non mi sentissi tratto nel palazzo reale a contemplare più che altrove convenute le Arti belle a illustrare i politici accorgimenti e le virtù guerresche e civili degli Italiani.

 

 


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