Giuseppe Regaldi
La Dora

CAPITOLO QUINTO TORINO

XXII.

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XXII.

 

Fu caro spettacolo l'affratellarsi degli Italiani più chiari in armi, scienze ed arti qui dove Vittorio Alfieri apriva la nuova nostra civiltà, e la svolsero Gioberti, Balbo ed Azeglio, e donde la mente di Cavour ci condusse presso alla meta sospirata.

Più volte vidi rinnovarsi la concordia cittadina intorno agli autorevoli Buoncompagni, Berti e Capriolo, e nelle sale del Peruzzi e del Paleocapa. Ma più spiccatamente ammirai la felice fusione degli Italiani d'ogni provincia in due case di Doragrossa.

Nel fondo di quella via ad occidente presso la piazza dello Statuto abita Pasquale Mancini, il sacerdote di Temide, che allegra l'austerità degli studi col sereno verso di Laura Beatrice, sua consorte e musa.

La casa di lui è santuario di gloriose memorie onorate dall'arte. Nella maggior sala v'ha un bel quadro di paese dello Smargiassi, e su tela è rappresentata la sposa del volontario, corso alle battaglie nazionali. V'ha il busto in marmo di Guglielmo Pepe, scoltura del Butti, e il ritratto di Giuseppe Garibaldi, lavoro della signora Mancini, poetessa e pittrice. Colà più volte ho veduto fra canti e suoni festosamente raccolti in serali adunanze ministri, senatori e deputati, professori ed artisti ed ornate donne di ogni terra italiana. Due bionde figlie del Mancini, che hanno spontaneo il verso, recitavano rime accese di amor patrio, e un'altra, non meno poetica, faceva agevolmente scorrere le dita su le corde dell'arpa, come se intrecciasse gigli e rose tra fila d'oro, e, traendo armoniosi concenti, l'inspirata donzella sembrava colle musiche celebrare nella casa paterna il consorzio della scienza e delle grazie, e la italica fratellanza.

In mezzo alla via di Doragrossa, sopra i due archi che mettono alla Piazza del Municipio, abita il Conte Federico Sclopis, ministro ben degno di essere consultato nei gravi momenti della patria. Vigile propugnatore dei diritti della natale sua città, egli vive accosto al palazzo municipale e di rincontro al sito in cui sorgeva la torre sormontata dal simbolico toro di bronzo. Nelle sere apriva spesso le ospitali sale, in cui era ammirata per coltura e cortesi modi la consorte del conte, Isabella Avogadro, gemma della mia Novara. Stavano a lei dintorno dame, cavalieri, letterati ed artisti; ed ella aveva per tutti parole soavi, assisa in serici guanciali presso un tavolino su cui olezzavano fiori di ogni sorta fra eleganti volumi di opere italiane e francesi.

Ricordo di avere colà incontrato una eloquente donna dell'Arno, che in suo cuore non vede Italia se non a Firenze; e la incontrai presso una duchessa di Roma, che non accorgerassi, diceva, dell'unità italiana, finchè Vittorio Emanuele non salga trionfante in Campidoglio. Alcune volte vi trovai una principessa di Napoli, nobile di aspetto e di modi, e più ancora d'ingegno e di cuore; e spesso tre illustri subalpini, il generale Cavalli, il professore Ricotti e lo scultore Albertoni, tre fidi amici di casa Sclopis, che in quella adunanza rappresentavano le armi e le arti, e la storia che ne registra i maravigliosi trionfi. In una tavola delle adorne pareti due vaghi angioletti di Gaudenzio Ferrari parevano scesi di cielo a benedire la concordia italiana.

Così un Napoletano ed un Piemontese, ambidue celebrati giureconsulti e uomini di Stato, accoglievano a lieto consorzio il fiore degli Italiani.

Ahi, fu turbata la serenità delle feste subalpine!

 

 


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