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Il Piemontesismo.
Poichè a guisa di sponsalizie furono celebrate con desinari, musiche e danze le annessioni delle redente provincie italiane al Piemonte, cominciarono i domestici rancori.
Fu proclamato troppo il benefizio de' Subalpini al resto d'Italia, perchè i beneficati per solito sentono più il peso che l'affetto della gratitudine. Inoltre, vinta la tirannide tedesca e la borbonica, sembrò ad alcuni nuovo giogo sobbarcarsi alle nostre leggi, e soverchio il numero degli ufficiali piemontesi mandati a reggere le provincie annesse.
«Nè ciò dee far maraviglia (uso le parole non sospette di Marco Minghetti), poichè il Piemonte avendo avuto per dieci anni una costituzione libera, le sue leggi erano improntate di spiriti liberali e progressivi; ed inoltre essendo stato autore e guida del rinnovamento, le sue leggi dovevano avere una preminenza inevitabile, quand'anche nelle parti, che risguardassero l'amministrazione, potessero essere meno acconcie. Così era nella natura delle cose che per applicarle s'invitassero uomini da lunga pezza assuefatti a libertà, e di tempra maschia e severa, siccome sono gli abitatori del Piemonte».
A poco a poco si andò dilatando la malattia delle menti detta Piemontesismo, chimerico cholèra-morbus della politica italiana.
I nuovi venuti immaginarono il Piemontesismo, più di coloro che esuli, stanziando fra noi da lungo tempo, si erano omai addomesticati alle usanze nostre.
Gli Italiani del mezzogiorno trovarono incresciose le nebbie e le nevi di Torino, e sospiravano i soli, gli aranci e la perenne primavera di Napoli e di Palermo. I Toscani e i cittadini della Emilia trovarono troppo compassata e gelida la realtà del nostro vivere, e preferendo la ideale voluttà delle arti, invocavano le loggie dell'Orgagna e le torri di Giotto, i prodigi di Michelangelo e di Raffaello, e le glorie della scuola bolognese.
Di poi si andò accagionando il Piemontesismo di tutti i malanni del mondo. Se freddo era il verno, caldo l'estate, se ne accusava il mal clima del Piemonte. Lo accusavano delle malattie e delle cure, che, mortali anch'essi, soffrivano talvolta gli onorevoli Deputati, e taluni maledicevano alla cucina de' Subalpini quando mai nel mattino non trovassero ben acconciati i maccheroni ben cotte le costolette nel caffè del Cambio, ove per solito adunavansi per disporre lo stomaco alla eloquenza parlamentare.
Fu dichiarata Torino benemerita per il suo passato, ma non più comportabile il Piemontesismo, che dal fondo della Penisola costringeva molti a salire sin qui per toccare il seggio del Governo e attingere alla sorgente della vita pubblica.
In tale stato di cose indarno ripetevasi che in Torino non il Piemonte governava, ma l'Italia coi Deputati ed i Ministri delle diverse provincie. Non giovava più rammentare che durò due secoli in Pavia il Regno Longobardo, divenuto quasi nazionale, senza trasferire il suo seggio in sito più centrale, come a Benevento, e senza i telegrafi, le strade di ferro e gli altri benefizi della civiltà presente. Era inutile ricordare che il Regno d'Italia appiè dell'Alpi fu fondato dai marchesi di Ivrea, il cui sangue scorre nelle vene del Monarca, che potè adempiere il voto di tanti secoli e di tanti martiri; e che pieno di pericoli era divellere il seggio della monarchia dal granito alpigiano, in cui antico è l'omaggio ai Reali di Savoia.
Si compia l'opera dell'unità italiana dove si è con tanto senno preparata e condotta a buon segno. Con le contese ed i gravi dispendi del trasferimento non si turbi, nè s'indebolisca lo Stato già fiacco per le miserie del pubblico erario. Non s'incorra negli errori dell'Impero latino, che decadde dalla pristina grandezza, spostando il seggio dal Tebro al Bosforo, sicchè, non cessando i travagli del trasferimento, l'Italia imperiale fu
«...simigliante a quella inferma
Che non può trovar posa in su le piume,
Ma con dar volta suo dolore scherma».
Fortifichiamoci rinvigorendo il trono sabaudo, principio di nostra salute, nella valle del Po, in cui più volte colle armi si decisero le nostre sorti, se pur non vogliasi un'Italia senza il Piemonte, com'era ai tempi delle battaglie di Annibale sul Trasimeno e a Canne, accennate nella militare concione dell'oratore e generale Cialdini, e come, forse opportunamente ai suoi fini, la descrive Napoleone III narrando la vita di Giulio Cesare.
Non gradivano tali ragioni, nè poi gli argomenti de' senatori Sclopis, Ricotti, Cadorna e Revel, e dei deputati Berti, Crispi, Chiaves e Coppino, e di altri uomini assennati.
Il Ministero Minghetti-Peruzzi, valendosi del Pepoli a messaggio ed interprete, nel silenzio diplomatico ordì colla Francia la Convenzione del 15 settembre, che traeva seco il trasferimento della metropoli a Firenze.
Il Ministero tutto preparò, meno gli accorgimenti bastevoli ad impedire tumulti nefasti e lo spargimento di sangue cittadino.