Giuseppe Regaldi
La Dora

CAPITOLO QUINTO TORINO

XXIV. Il 22 settembre del 1864.

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XXIV.

 

Il 22 settembre del 1864.

 

Sparsa in Torino la infausta notizia della Convenzione, gli animi de' cittadini si commossero, e per le vie e nelle piazze si manifestò l'indignazione popolare. Ma i cittadini che tumultuarono, non erano ostili alla causa nazionale, anzi ne erano provati caldeggiatori.

Molti, gridando Roma o Torino, lamentavano nel trasferimento a Firenze lacero il decreto della nazione, con cui si acclamò Roma per futura sede del Regno d'Italia.

Non pochi temevano che avesse a correre pericoli la Monarchia spostandosi dal suolo nativo, e con lei la unità italiana assicurata nella R. Stirpe di Savoia.

mancarono di quelli che, ammaestrati dalle cessioni di Savoia e Nizza, temevano nel patto colla Francia si nascondesse qualche disonesta cessione di terra subalpina; onde ripetevano col Bolognese Eustachio Manfredi:

 

«Vidi l'Italia col crin sparso, incolto,

Colà dove la Dora in Po declina,

Che sedea mesta, e avea negli occhi accolto

Quasi un orror di servitù vicina».

 

Que' malcontenti non erano tali da dare scosse allo Stato più fiere di quelle che cagionava la Convenzione del 15 settembre. Erano gridatori inermi e nulla più, come vien provato dalla relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta dettata dal non piemontese Sandonnino, e dalla relazione del deputato Ara in nome del Municipio. Non si aveano dunque a trattare come briganti armati nei burroni delle Calabrie, o come nemici schierati a battaglia sul Mincio.

Sarebbe bastato a quietarli il pacificatore Mazzarini, che nell'atto della zuffa fece sospendere l'azione guerresca agli eserciti di Francia e di Spagna contendenti in Casale; o meglio l'oratore Alfonso Lamartine, che colla potente parola salvò Parigi dalla guerra civile. Invece si ricorse ai mezzi con cui furono domati i Giannizzeri, ribelli alla legge musulmana.

L'egregio sindaco marchese Rorà e il Municipio espressero al Governo il cordoglio della indignata Città per l'effusione del sangue fraterno in Piazza Castello nella sera del 21 settembre: ma non valsero i loro consigli ad impedire che nuovo sangue d'Italiani fosse sparso nella notte seguente.

Inorridisco al ricordare gli allievi Carabinieri quando dalla porta della Questura in Piazza S. Carlo coi moschetti fischianti irruppero sull'affollato popolo inerme!

Oh! chi non ammirò quella vasta e magnifica piazza, dove sorge la statua equestre di Emanuele Filiberto e un monumento alla carità cristiana nel tempio a S. Carlo Borromeo?

Quella piazza ricorda i cavallereschi tornei in onore del Re, e le pacifiche e festevoli adunanze del popolo. Colà io mi deliziai fra i balli e i concenti dell'Accademia Filarmonica, e nelle sale del palazzo Natta abitate dal conte Corinaldi mi beai alle musiche ed alle eleganti raunanze cui traevano in gran copia preclari esuli di Venezia, confortandosi nel trovarvi una imagine della famosa loro piazza di S. Marco. In quella piazza spesso mi fu dolce salutare il palazzo già abitato dal Sofocle Astigiano e quello del marchese Felice Santommaso, che mi accolse giovine poeta nella cara e venerata compagnia di Pellico, Paravia e Cibrario; e le case ospitali del conte Farcito e del conte Pernati, e la religiosa libreria Marietti, e il maestoso Caffè, in cui più volte conversai coll'arguto Baratta, il nuovo Marziale.

Queste serene rimembranze impallidiscono innanzi alla cruenta notte del 22 settembre 1864.

Il fischio del piombo micidiale assordò orrendamente quel luogo memorando, e la piazza fu ingombra di vittime.

Nella concitata mia mente ho veduto Emanuele Filiberto rizzarsi sul destriero, e levando la spada cercare intorno a gl'invasori stranieri per combatterli. Ahi! vedendo i segni della pugna civile, egli fremente sclamava:

- Chi sono gli sciagurati che cagionarono gli orrori del macello cittadino?

- Non sono Piemontesi: risposero cupamente fioche voci di moribondi.

- Ma pur sono Italiani: gridarono mille voci piene di giusto sdegno.

Poi fu silenzio e solitudine. Soltanto si udiva il rantolo della morte tra il fumo della moschetteria che intenebrò l'aria; e i bronzei candelabri a gaz che illuminano la piazza parvero tede funerali poste a rischiarare un campo di morte.

Il appresso i Torinesi sbalorditi s'interrogavano per le vie e ripetevansi l'un l'altro:

 

«I fratelli hanno ucciso i fratelli,

Questa orrenda novella vi do».

 

Il Re corrucciato immantinente mutò ministero!

Ma quali rimedi troverà il Governo, perchè l'offeso Piemonte cessi dalle querimonie?

Le acque della Dora e del Po non cancelleranno facilmente nella Piazza di S. Carlo le macchie del sangue cittadino. Ogniqualvolta vi passo io le riveggo farsi più rosse, e risento il puzzo dei cadaveri che non può temperarsi dall'olezzo de' nostri roseti, dai profumi d'Arabia.

O Conte Camillo Cavour, se tu ancor vivevi, no, tanto orrore non avrebbe offuscato la storia della tua Torino e d'Italia tutta!

Ho bisogno di sfogarmi nelle lagrime, e vengo a piangere in Sàntena sul tuo sepolcro in compagnia dell'illustre uomo di Stato, Filippo Cordova, che, non piemontese, lamentò pure la Convenzione del 15 settembre.

 

 


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