Giuseppe Regaldi
La Dora

CAPITOLO QUINTO TORINO

XXXIII. Speranze.

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XXXIII.

 

Speranze.

 

Pace alle querimonie, e s'apra l'animo a liete speranze.

Anche sui sepolcri germogliano le rose, mentre le nazioni per vie di morte giungono alla meta della loro vita.

Il deputato Domenico Berti, ragionando del Piemonte, diceva: «Esso altro non vide in questi ultimi anni davanti a che l'Italia, non sognò che l'Italia. Il suo Governo era l'Italia, l'Italia il suo Re, l'Italia la sua bandiera. Visse di vera vita italiana, e non avrebbe potuto vivere altrimenti. E quindi accadde il singolare fenomeno, che mentre agli occhi dello altre province l'Italia diventava Piemontese, agli occhi del Piemontese il Piemonte diventava l'Italia. Sublime trasfigurazione, per cui gli altri Italiani volgevansi a noi per affetto, e noi ci volgevamo a loro per debito».

Poichè si è lasciato entrare e maturare nelle altre provincie lo strano pensiero che qui l'Italia divenisse piemontese, a rimuovere l'ingiusto sospetto si volle trasferire il seggio del Governo a Firenze.

Nello scorso maggio in riva dell'Arno io lamentava le recenti afflizioni di Torino ed esprimeva dubbi e timori sull'avvenire del Regno d'Italia ragionando con un colto amico di Toscana, che mi confortò nel modo seguente: - «Poeta, mi disse, si tolga il velo alla favola, e in Fetonte rovesciato dal carro di luce nelle acque dell'Eridano presso alla foce della Dora facilmente ravviserai il fondatore della colonia ligure appiè delle Alpi, spodestato e perduto nei disastri d'incaute imprese.

«Poeta, ugual sorte sarebbe toccata al fondatore del Regno italico fra il Po e la Dora. Ma qui sull'Arno, non più savoiardo, non più piemontese, ma italiano, il lealissimo fondatore, nella patria di Dante e Michelangelo, di Galileo e Machiavello trarrà vita nuova e sicura dall'idioma e dalle arti, dalle scienze e dalla politica della nazione intera».

- Un albero secolare, gli risposi, radicato in terreno acconcio opino che corra pericoli gravi se altri vuole trapiantarlo in campo novello. Ma lasciamo le inutili controversie, e facciam voti che sull'Arno la monarchia trovi la fede costante ed operosa dei popoli subalpini.

Firenze acquista la suprema importanza dello Stato, e Torino la perde. Non per questo il Piemonte dovrà disperare, quasi non potesse altrimenti rifarsi dei danni che ora patisce dalle mutate sue condizioni. Il Governo sappia far cessare i rancori sulla Dora e i timori di cessione territoriale nel suolo subalpino, ad alcuni pretesto, ad altri cagione sincera di malcontento.

Rasserenati così i Piemontesi, metteranno a pruova la loro mente e le loro forze nelle industrie, apparecchiati a rinnovare lo spettacolo degl'Italiani del medio evo che furono il principal nerbo dei commerci nei mercati del mondo.

Torino, non più centro di piccolo Stato, diverrà la città manifatturiera di una popolosa nazione, la Manchester d'Italia; e mettendo i suoi prodotti a concorrenza coi migliori delle altre genti, saprà uguagliarli, se pure non superarli. Allora il Piemonte industriale al resto d'Italia non sarà meno utile del Piemonte politico e guerriero; ed avrà la duplice gloria di aver capitanato la indipendenza nazionale nei campi della politica e dell'industria.

Maraviglioso è già stato il Piemonte a benefizio del commercio in tre ardimenti, il traforo del Cenisio trovato e diretto dai tre nostri ingegneri Grandis, Grattoni e Sommeiller, il sussidio dei dieci milioni assicurato al passo del Lucomagno per aprire un varco alla Svizzera ed al cuore della Germania, e il trasferimento della marina militare da Genova alla Spezia; il che oltre l'importanza politica ha quella speciale del commercio, perchè trattasi di lasciare ai traffici l'intero porto genovese.

Altri ardimenti nel campo dell'Industria si aspettano dal Piemonte che dai Comizi agrari seppe far germogliare l'albero della libertà italiana.

Queste speranze ci allietano, ricordando le pubbliche mostre dei prodotti della industria piemontese fatte nel R. Castello del Valentino. Colà vedemmo i prodotti delle ferriere, gli acciai, gli ori, gli argenti, i lavori in tarsia delle nostre officine, le carte e i cuoi variamente conciati, e i tessuti di seta, lana e cotone. «Ed anche l'arte dei tipi, mi diceva Giambattista Dusso, l'intelligente direttore della Tipografia Scolastica, anche questa operosa ministra del pensiero e dispensatrice dell'umano sapere, sino dalla prima Esposizione del Valentino, nel 1829, fu nobilmente rappresentata dalle premiate edizioni dei Chirio e Mina, e poi dalle molteplici e belle edizioni dei Pomba, di Fontana, Botta, Marietti, Franco, Fory e Dalmazzo, Paravia, e Favale, degni seguaci dei nostri Giolito da Trino e Bodoni da Saluzzo».

E l'arte dei tipi su queste povere pagine ripeta, che gioconde speranze ci allietano conoscendo le virtù dei Subalpini, e leggendo le più recenti Relazioni del Sindaco Marchese Rorà fatte al Consiglio comunale di Torino. Questo strenuo patrizio qui commendato nella municipale amministrazione, come nella governativa in Ravenna, vuole mantenere incolume la prosperità dell'augusta Torino con ampliate vie e maestosi edifizi, con istituti di credito e nuovi canali di acque, e con tutti i mezzi efficaci al lavoro ed al commercio; e vuole conservate le gloriose aule del Parlamento, eterna testimonianza del senno italiano.

È dolce dire col Marchese Rorà: «Se noi percorriamo i nostri borghi, le numerose officine che vi si trovano possono persuaderci che l'industria già vi esiste; se parliamo con gli stessi industriali, conosciamo che i loro prodotti non servono solo alla consumazione locale, ma sono già esportati in notevole quantità nelle altre province d'Italia ed in parte all'estero. Io sono convinto che noi possiamo aspirare a veder maggiormente svilupparsi la nostra industria».

Le speranze del Sindaco abbiano prospero evento, e il Piemonte non cesserà di essere il più gagliardo propugnacolo della monarchia e della libertà d'Italia, sicchè all'uopo i suoi operai saranno soldati, e cittadelle le loro officine.

Il trasferimento della metropoli fu accompagnato in Firenze dalle feste del sesto centenario di Dante Alighieri; e le città italiane per mezzo de' loro rappresentanti con ispontanea allegrezza innanzi alla statua del sommo Poeta rinnovarono il patto di concordia, congregati con musiche e vessilli nella memorabile piazza di Santa Croce.

Colà il magnanimo Vittorio Emanuele II fu salutato nella piena luce Re nazionale.

Leale quanto prode, egli, postergando gli affetti domestici a quelli della nazione, pose a rischio e la sua stirpe nei cimenti della guerra e della politica; e a togliere ogni mal sospetto, trasferì da Torino a Firenze quel soglio che sarà un stabilmente piantato sulla vetta Capitolina.

Nella piazza di Santa Croce Ei non apparve sabaudo o piemontese, ma sovranamente italiano. Egli avea lasciato la reggia de' suoi avi, le tombe de' suoi maggiori e i luoghi a lui più cari perchè consacrati da rimembranze gloriose di famiglia; avea lasciato l'augusta Torino, la città che il vide nascere e che fu esempio maraviglioso di fede e di valore verso di lui e della paterna monarchia: «la città, diciamo collo stesso Re, che seppe custodire i destini d'Italia nella rinascente sua fortuna».

Le città italiane accese di tali sensi plaudirono al Monarca guerriero che mise in atto la unità politica tanto augurata dall'Alighieri, e si strinsero fraternamente le destre dove un tempo arsero le discordie municipali.

I nostri poeti furono invitati a celebrare sull'Arno la insolita festa: ed io al cortese invito che l'onorevole Gonfaloniere conte Cambray-Digny m'inviò nella R. Università di Cagliari, stimai debito cittadino recarmi a Firenze e recitare un canto nell'Accademia letteraria ivi tenuta il 17 di maggio.

Con animo riconoscente ricordo in quella congiuntura i plausi di Firenze a me poeta subalpino. E siccome in essi interpretai, più che altro, uno schietto saluto della Toscana al Piemonte, volentieri compio le pagine consacrate alla Dora, ripetendo il cantico intonato sulle rive dell'Arno.

 

 


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