Giuseppe Regaldi
La Dora

CAPITOLO QUINTO TORINO

XXXIV. NEL SESTO CENTENARIO DI DANTE ALIGHIERI CELEBRATO IN FIRENZE

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XXXIV.

 

NEL

SESTO CENTENARIO

DI DANTE ALIGHIERI

CELEBRATO IN FIRENZE

 

Io lo vidi: il Cantor de' tre regni

Levò il capo dal lugubre piano,

Ove al Goto guerriero sovrano

Reggia e tomba il suo popolo aprì;

E dall'erma pineta odorosa

Sovra l'ale di cento cherubi

Per cammin di tempeste e di nubi

Il conteso Appennino salì.

Io lo vidi: librato ne' cieli

Affacciossi alla terra pentita,

Che tra i fiori gli diede la vita,

Ma, noverca, dal seno il cacciò.

Affacciossi con volto sereno,

Volentieri a colei perdonando,

Che l'ingiusta condanna del bando

Con superstiti onori ammendò.

Al vederlo, di Fiesole i côlli

Del più splendido april s'ammantarno;

E la gemina riva dell'Arno

Di Casella i concenti mandò.

Esultarono l'ossa nel Tempio

Della Croce, e risorsero i vati

Di Säulle e d'Arnaldo, svegliati

Da Colui che il lor verso animò.

Del Pöeta le ceneri sante

Tien gelosa Ravenna, ma sale

E vïaggia lo spirto immortale

Fra le stelle di libero ciel.

Ei su l'Arno ritorna, chiamato

Dal desìo del suo Veltro promesso,

E consacra con mistico amplesso

Dell'Italia il monarca fedel.

Come, o Dante, mutarsi tu vedi

L'egra Italia, che serva ploravi

Di tiranni bordello e di schiavi,

Di stranieri ludibrio fatal!

Nella roba di piglio e nel sangue

Più non danno le arpie de' castelli;

Giostra rea non è più di fratelli

La tua scissa contrada natal.

Ora Italia rinacque, baciando

Del tuo sacro volume le carte;

Pria si fece concorde nell'arte

Coll'unanime culto per te;

Poi coll'armi di Micca e Ferruccio,

Disfidando l'avversa fortuna,

Seppe farsi in te libera ed una,

Nelle leggi concorde e nel Re.

Ora Italia trïonfa secura

Nella del tuo divo pensiero,

E già torna al suo pristino impero

Dalla notte di barbare età.

Coll'eloquio di Tullio e Marone

Dal Tarpeo dominò l'universo,

Coll'eloquio che informa il tuo verso

All'antico splendor tornerà.

Da vetusto ed informe linguaggio,

Fra le plebi obblïato di Roma,

Germogliò con leggiadro idïoma

La parola del nostro avvenir;

Crebbe al sole d'illustri memorie

Da Toscani cantata e da Sardi,

E si accese di spirti gagliardi

Nelle prove del patrio martir.

Ebbe alfin questa degna parola

Delle muse la gloria suprema,

Dal civile tuo sacro pöema

Suggellato d'eterna virtù;

Ed espresse fra gli odî fraterni

La bontà dell'ingegno latino,

Viva sì ne' tuoi carmi, o Divino,

Che per tempo scemata non fu.

La bontà degli etruschi ardimenti,

Che l'incendio agitò de' tuoi carmi,

Nella possa irrompeva dell'armi

Onde valse il Tedesco a domar;

Penetrò nell'insubre congegno

Che gli elettrici messi governa,

Del Cenisio negli antri s'interna

E di Sue ricongiunge i due mar.

Salve, nunzio dei veri superni,

Affratella in magnanimi intenti

Del latino legnaggio le genti

Disgregate in lontane città.

Col tuo verbo risuscita i giorni

Ch'ebber vita dall'italo sangue;

E l'umano consorzio che langue

Rinnovato sul Tebro sarà.

 

Torino, addì 25 dicembre 1865.


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