Giuseppe Regaldi
La Dora

CAPITOLO SECONDO SUSA E SUOI DINTORNI

III.

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III.

 

Ma ecco le ampie arcate dei magazzini dello scalo trasformate in eleganti sale, ornate di arazzi, di verzure e di bandiere tricolori; ecco imbandito uno splendido simposio, a cui siedono i ministri, le autorità e le persone più ragguardevoli del paese e della provincia, deputati e senatori, e gli scrittori de' giornali torinesi; e i fratelli Carlo e Giorgio Henfrey, che impresero a disegnare e condurre con solerzia ed amore la via ferrata, ed ora, colà, quasi in propria casa ospitalmente la festeggiano; e perchè al convito non manchi il sorriso delle grazie, vi ammiri le colte e leggiadre consorti degli ospiti gentili, rose pellegrine d'Albione, rimbellite sotto il cielo d'Italia.

Fra squisite vivande e vini generosi il signor Carlo Henfrey dice brevi ed acconce parole: indi sorge a parlare l'egregio intendente barone Tholosano, e in nome dei cittadini ringrazia l'eletta comitiva accorsa ad onorare nella via ferrata un'era novella di prosperità alla provincia di Susa.

L'arco di Cesare Ottaviano - la disfatta Brunetta - e la strada ferrata, sono i tre monumenti di cui prende a discorrere e nota con savio accorgimento:

«Se il primo di questi monumenti ci ricorda le glorie della conquista romana, il secondo ci fa amaramente risovvenire della gallica riscossa nel passato secolo; e comechè siano gloriosi i nomi di Ottaviano Augusto e di Napoleone I, non potranno col rimbombo della loro fama far tacere i lamenti e le imprecazioni dei popoli percossi e delle desolate provincie: inevitabili conseguenze di ogni guerresca impresa, che non conduca a vera libertà.

«Il terzo monumento ricorderà pure un nome augusto; ma questo sonerà benedetto fra le genti per mantenute franchigie, per agevolate comunicazioni e prosperati commerci.

«Ruderi e rovine ci rimangono delle passate conquiste: arditi porti, appianate vette e traforati monti testimonieranno ai posteri come dirittamente venisse acclamato padre civile delle sue genti Colui, sotto i cui augusti auspìzi, con liberali instituzioni compievansi opere così utili e stupende».

E chiude il suo discorso intonando un brindisi a re Vittorio Emanuele II, brindisi che per le allegre mense viene iterato vivamente, ed allo scrittore di queste pagine inspira versi improvvisi. A trasse l'attenzione l'arguto poeta delle Alpi Cozie, Norberto Rosa, il quale, con quella ironia, che gli era familiare, come scandolezzandosi dei diabolici trovati del secolo, e pigliando argomento dal bue, che infitto negli spiedi a sollazzo e ristoro del popolo cuocevasi su la piazza delle armi, così chiudeva le sue bernesche rime:

 

Oh Re Vittorio!

Rifà il cammino,

I baffi tàgliati,

Metti il codino;

Rimanda all'Erebo

Donde è venuto

Il terzo incomodo

Dello Statuto!

Sì, Re Vittorio,

T'affida a me,

In mezzo secolo

Io farò, che

Fra noi ritornino

Quelle età sante,

Allor che il popolo

Schiavo e ignorante,

Di questo bufalo

Che cuoce arrosto

Messo un eretico

Avrebbe al posto!

 

 


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