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Lo scoppio della gigantesca colubrina produsse un terribile effetto su Miller. Egli cominciò a perdere la speranza ed un profondo scoraggiamento s'impadronì di lui. La mattina seguente egli radunò il consiglio, ma col segreto desiderio di udire dagli ufficiali ragioni che lo incoraggiassero a togliere l'assedio.
Ognuno diceva in cuor suo: «Non v'è che un solo consiglio da dare» ma nessuno voleva essere il primo a parlare e tutti aspettavano di udire ciò che direbbe Miller.
Questi interruppe alfine quel penoso silenzio:
— Avete notato, signori, — diss'egli, — che nessuno dei colonnelli polacchi è venuto al consiglio, quantunque io li abbia tutti chiamati? Questo loro contegno dice abbastanza chiaramente che vi è poco da fidarsi di loro. Io non vi nascondo, signori, che tutte le mie speranze erano riposte in quel grosso cannone d'assedio che quell'audace polacco ha fatto scoppiare. La breccia era già aperta, il terrore aveva invaso gli assediati. Un paio di giorni ancora e noi avremmo dato la scalata. Ora essi ripareranno le mura, ed i cannoni che abbiamo non sono migliori dei loro. Più ci penso e più il disastro mi sembra spaventevole, — soggiunse dopo una breve pausa. — Che dirà il Re quando conoscerà questa perdita? — E che cosa dobbiam fare ora? Che la peste cogliesse coloro che mi hanno persuaso di venir qui!
Così dicendo afferrò un bicchiere, e nell'impeto della collera lo scagliò in terra.
Quest'atto sconveniente per un guerriero che occupava sì alto grado, gli alienò tutti gli animi e li inacerbì ancor più. Il generale comprese di aver agito inconsideratamente. Gli riescì a calmarsi, e volgendo sui presenti una lunga occhiata, accompagnata da un sorriso, disse:
— Perdonatemi, signori, ma la mia collera non è fuor di proposito. Credo che qualunque altro uomo al mio posto non saprebbe dominarsi. Basta, io vi ho chiamati per deliberare sul da farsi. Deliberiamo dunque, e quello che la maggioranza deciderà sarà fatto.
— Proponete voi, generale, il soggetto della discussione — disse il principe d'Hesse. — Dobbiamo deliberare sul modo di conquistare la fortezza, oppure discutere se ci convenga meglio ritirarci?
Miller non voleva mettere in campo così nettamente la quistione, e meno ancora voleva risolvere per il primo l'alternativa. Pertanto disse:
— Esponga ciascuno il suo parere.
Ma nessuno degli ufficiali voleva al pari di Miller essere il primo a proporre la ritirata; quindi nella sala regnò ancora per qualche tempo la perplessità ed il silenzio.
— Pan Sadovski, — disse Miller alla fine, con una voce ch'egli procurava invano di rendere affabile; — voi dite quello che pensate con maggior sincerità degli altri, perchè la vostra riputazione vi garantisce da ogni sospetto. Parlate voi.
— Io penso, generale, — rispose il colonnello — che la nostra posizione è disperata.
— Voi dunque siete d'avviso che dobbiamo ritirarci.
— Col permesso di Vostra Grazia, io ero d'avviso che non si dovesse incominciare quest'assedio.
— Il conte Vehyard risponderà di questo malaugurato affare, — replicò il generale.
— I miei consigli non furono ascoltati, — rispose il conte insolentemente. — Il mio parere era di fare impiccare i due inviati; e sono convinto, che se ciò si fosse fatto il terrore stesso ci avrebbe aperto le porte. Ma Pan Sadovski minacciò di volersi dimettere, e i frati se ne andarono allegri e contenti.
— Andate voi, conte Veyhard, nella fortezza, — rispose Sadovski — e fate scoppiare il più grosso cannone degli assediati come Kmita ha fatto scoppiare il nostro, ed io vi garantisco che ciò spargerà più terrore fra loro che non l'assassinio dei due monaci.
Il conte si rivolse direttamente a Miller e disse: — Generale, io penso che noi siamo qui convenuti per discutere, e non per divertirci. Permettetemi dunque di parlare.
— La montagna comincia a rumoreggiare, e tosto vedremo apparire la coda del topo, — osservò Sadovski.
— Tacete, signori! — impose Miller con accento severo. — Parlate, conte, ma pensate che fino a questo momento il vostro consiglio ha prodotto amari frutti.
— Io so positivamente, — prese a dire il conte — che vi è nella fortezza una parte degli assediati la quale desidera da lungo tempo di arrendersi. Noi dobbiamo terrorizzarli maggiormente e dare un assalto ancor più vigoroso dei precedenti, facendo credere che la perdita del grosso cannone non è di alcuna importanza per noi. Ma non è tutto. Noi dobbiamo spargere fra i nostri soldati, specialmente fra quelli polacchi, la voce, che gli uomini occupati nelle mine hanno scoperto un passaggio sotterraneo conducente al convento ed alla chiesa.
— Questo è un buon consiglio, — disse Miller.
— Quando si sarà sparsa questa voce i soldati polacchi persuaderanno i monaci ad arrendersi; poichè quel che preme ad essi ed ai frati, si è che quel nido della superstizione rimanga intatto.
— Per un cattolico non c'è male! — mormorò Sadovski.
— Se egli servisse i Turchi, chiamerebbe Roma un nido di superstizioni, — disse il principe d'Hesse.
Ma il consiglio piacque al generale, il quale, come un naufrago prossimo ad annegarsi, afferrava qualunque tavola di salvezza.
— Proviamo, proviamo! — diss'egli. — Ma Kuklinovski, oppure Zbrojek, accetteranno di recarsi come inviati nel convento?
— Kuklinovski accetterà, — rispose il conte. — Ma sarebbe bene ch'egli credesse realmente all'esistenza del sotterraneo.
In quel momento si fece sentire il nitrito d'un cavallo avanti la porta e dopo un minuto Pan Zbrojek si precipitò nella stanza. Aveva il viso pallido e stravolto, e prima che gli ufficiali domandassero la cagione del suo eccitamento egli gridò:
— Kuklinovski è morto.
— Come? Che cosa dite? Che è successo? — chiese Miller.
— È stato forse assassinato? — domandarono tutti in coro.
— Da Kmita, — rispose Zbrojek.
Balzarono tutti in piedi, esterrefatti, guardando Zbrojek come se lo credessero pazzo.
Zbrojek narrò con poche parole tutto ciò che era accaduto nel granaio. Tutti lo ascoltarono estatici, e quando egli tacque, Pan Sadovski mormorò:
— Nulla di simile è mai successo, è cosa incredibile!
Miller se ne stava muto, colla testa sprofondata nelle mani. Quando alla fine alzò gli occhi e li fissò in volto agli astanti pareva che volesse fulminarli tutti con i suoi sguardi.
— Pan Zbrojek, — disse — Satana in persona, non poteva far questo senza l'assistenza d'un traditore. Kuklinovski aveva dei nemici, e voi appartenevate al numero.
A tali detti Zbrojek si fece più pallido di quello che era; balzò in piedi, si accostò a Miller, e fermandoglisi davanti lo guardò fisso negli occhi.
— Vostra Grazia dubita di me? — diss'egli.
Seguì un momento d'oppressione per tutti. Gli ufficiali presenti non avevano il menomo dubbio che Miller darebbe una risposta affermativa, e che da ciò ne sarebbe nato qualche cosa di terribile.
Ma in quel momento gli sguardi del generale si posarono per caso sulla finestra, ed essendo la stanza a pianterreno egli vide che tutto lo spazio davanti alla casa era occupato da soldati polacchi, e quella vista gli consigliò di moderarsi e di usare prudenza. Fingendo perciò di non accorgersi del contegno provocante di Zbrojek, gli disse con voce che si sforzò a render calma e naturale:
— Narrateci minutamente ciò che è accaduto.
Pan Zbrojek ripetè il racconto già fatto prima, aggiungendovi tutti i particolari, e finì col dire che la scomparsa di Kuklinovski dal campo lo aveva indotto a muovere in cerca di lui con un drappello di soldati del suo reggimento.
Ogni sospetto di cooperazione da parte di Zbrojek svanì nel generale, ma l'avvenimento per sè stesso bastava ad infondergli un senso indefinito di timore.
Intanto il conte Veyhard, picchiandosi la fronte, diceva:
— Per Dio! Quando vidi Kmita mi parve d'averlo conosciuto in qualche luogo. Ricordo perfino il suono della sua voce.
— Che importa a noi se lo avete conosciuto? — gli disse Miller bruscamente. E rivolgendosi agli ufficiali soggiunse: — Signori, venite con me. Voglio vedere con i miei occhi tutto ciò che ci ha narrato Pan Zbrojek.
Tutti, eccitati da grande curiosità, lo seguirono.
Quando giunsero davanti al granaio. Miller e gli ufficiali smontarono da cavallo e vi entrarono. I soldati avevano adagiato Kuklinovski sulla paglia e lo avevano coperto con un tappeto. I cadaveri dei tre soldati giacevano accanto a lui.
Il generale ordinò ad un soldato di scoprire il cadavere. Il soldato alzò un canto del tappeto ed apparve una faccia orrenda, gonfia, cogli occhi fuori dalle orbite. Questa faccia era così terribile, che Miller, quantunque abituato all'orribile vista dei campi di battaglia, rabbrividì e disse al soldato:
— Ricoprilo. Presto! presto!
Tutto ad un tratto il generale si riscosse, ed invaso da una collera furibonda, si volse a Zbrojek, gridando come un ossesso:
— Dov'è quel soldato che vi disse che Kuklinovski era nel granaio? Dev'essere un complice, un traditore.
— Non so se quel soldato sia ancora qui, — rispose Zbrojek. — Tutti gli uomini di Kuklinovski si sono sbandati.
— Andato a cercarlo! — ruggì Miller fuori di sè.
— Andate a cercarlo voi! — gridò Zbrojek con altrettanto furore. Nello stesso tempo tutti gli ufficiali polacchi si strinsero intorno a lui portando la mano sull'impugnatura della sciabola.
Dio sa che cosa sarebbe accaduto, data l'eccitazione degli animi, se in quel momento non si fossero uditi degli spari e il trotto di cavalli che si avvicinavano. Infatti, poco dopo entrò nel granaio un ufficiale di cavalleria svedese.
— Generale! — gridò. — Una sortita dal convento. Gli uomini che lavoravano alle mine sono stati fatti a pezzi! Un reggimento di fanteria si è sbandato.
— Io divento pazzo! — esclamò Miller, portandosi le mani alle tempie. E dopo un istante gridò: — A cavallo! Seguitemi.
E ponendosi alla testa, cavalcò a briglia sciolta verso il convento. Giunti a mezzo miglio di distanza dalla fortezza videro gli assalitori che ritornavano sani e salvi al convento; canti, grida di gioia e risate giungevano all'orecchio di Miller.
Ma in pari tempo i cannoni della fortezza riaprirono il fuoco e le palle cominciarono a cadere fra gli ufficiali.
— Siamo sotto tiro. Ritiriamoci! — disse Sadovski.
Zbrojek afferrò le redini del cavallo di Miller. — Generale, indietro; — diss'egli — qui c'è la morte!
Miller, come istupidito, si lasciò trascinare fuori dal tiro. Giunto a' suoi quartieri vi si rinchiuse, e per tutto il giorno non volle vedere nessuno.
Il conte Veyhard prese il comando con tutta l'energia per dare l'assalto al convento. Per tutto il campo svedese ferveva il movimento. Pareva che uno spirito nuovo fosse entrato negli assedianti. Pochi giorni dopo si sparse pel campo svedese e tra i Polacchi, loro alleati, la notizia, che i minatori avevano trovato un passaggio sotterraneo che metteva al convento, e che oramai dipendeva dalla volontà del generale di farlo saltare in aria.
La gioia invase i soldati, intirizziti dal freddo, affamati, accasciati. Le grida di: — Abbiamo Chenstohova! Farem saltar in aria quella capponaia! — corsero di bocca in bocca.
Il conte era presente da per tutto; egli incoraggiava i soldati, confermava la notizia e li eccitava a stare allegri.
La notizia di mine scavate e pronte ad esplodere giunse anche al convento, sgomentando anche i più coraggiosi. Le donne, piangendo, cominciarono ad implorare il priore sollevando dinanzi ai suoi occhi i loro bambini.
E gli uomini più codardi nella difesa, erano adesso i più arditi nell'incalzare Kordetski perchè si arrendesse, onde non esporre alla distruzione il sacro luogo.
Finalmente la maggior parte dei monaci perdette il coraggio, e tutti, con padre Stradomoski alla testa, si presentarono al priore e lo incitarono a intavolare immediatamente i negoziati per la resa.
Kordetski si portò nel cortile, radunò intorno a sè tutti i frati ed i nobili, e disse:
— Dio ha dato a me il supremo potere su questo santo luogo, ed io dico a voi, carissimi fratelli: Bandite ogni timore dai vostri cuori! Il mio spirito attraversa la terra, e vi dice: Il nemico mente: non vi è polvere sotto la chiesa. Voi, gente di cuor timido, in cui la paura soffoca la fede, non meritate ancora di entrare nel Regno dei Cieli. Iddio vuole preservare questo luogo sacro, onde, come l'arca, possa salire salvo dal diluvio dei disastri e delle sventure. Quindi, nel nome di Dio, vi ripeto: Non vi è polvere sotto la chiesa. E quando io parlo nel santo nome di Dio, chi ardirà contraddirmi? chi oserà dubitare soltanto?
Qui Kordetski tacque e fissò la folla che lo circondava. Eravi tanta fermezza di fede e tanta forza di convinzione nella sua voce, che nessuno osò replicare, ed un senso di conforto e di sollievo entrò tosto nei loro cuori. I monaci, battendosi il petto, andarono in chiesa ed i soldati ritornarono sugli spalti.
Poco dopo si udì il suono della tromba davanti lo porte del convento. Tutti corsero a vedere chi veniva.
Era un trombettiere svedese che recava una lettera. I monaci si raccolsero immediatamente nella sala del consiglio. La lettera era del conte Veyhard, ed annunziava, che se la fortezza non si arrendeva entro ventiquattr'ore l'avrebbe fatta saltare in aria. Ma coloro stessi che prima tremavano per la paura non prestarono fede alla minaccia.
— Rispondiamo al conte che ci faccia pur saltare in aria, — dissero tutti ad una voce.
Ed infatti risposero in questo senso.
Per tal modo anche l'ultimo stratagemma del conte Veyhard non produceva l'effetto sperato. E quando venne il giorno successivo, apparve perfettamente provato quanto vana era stata la paura degli assediati.
L'indomani, un onest'uomo di Chenstohova, Yatsek Byuhanski, portò una lettera dando avviso d'un nuovo assalto e anche notizie circa il ritorno di Giovanni Casimiro dalla Slesia e la insurrezione dell'intera Repubblica contro gli Svedesi.
Venne il Natale. Colla prima stella comparsa in cielo, ogni sorta di lumi grandi e piccoli cominciarono a risplendere tutt'intorno al convento. La notte era rigida, ma serena. I soldati svedesi, intirizziti dal freddo nelle trincee, guardavano quelle mura inaccessibili. e pensavano alle calde capanne della Scandinavia, alle loro mogli, ai loro figliuoli e più d'uno di quei cuori di ferro, mandò un sospiro di tristezza, di nostalgia e di indicibile sconforto. Invece una gioia tranquilla si leggeva su tutti i volti degli assediati, perchè ognuno aveva il lieto presentimento, anzi, quasi la certezza, che le ore del soffrire avrebbero ben tosto avuto termine.
— Un altro assalto avverrà forse domani ma sarà l'ultimo — ripetevano i frati ed i soldati. — Che Dio permetta almeno a coloro ch'Egli ha predestinati a morire, che siano presenti alla Messa, e così si apriranno loro più sicuramente le porte del Cielo; perchè chiunque muore per la fede nel dì della Nascita di Cristo sarà ricevuto nella sua santa gloria.
Essi s'auguravano a vicenda buon successo, lunga vita o la corona in paradiso: e tale era il conforto che provava ogni cuore, che pareva loro che ogni pena fosse già finita.
Sedettero a tavola ma vicino al priore vi era un posto vuoto.
Come furono tutti seduti, Zamoyski disse:
— Vedo, reverendo padre, che secondo l'antica usanza vi sono posti destinati a persone estranee al convento.
— Non per persone estranee, — disse padre Agostino, — ma in memoria di quel giovane che noi amavamo come un figliuolo, e la cui anima ci sta guardando dal cielo, perchè sa che noi lo rammenteremo in eterno.
— In verità, — riprese Zamoyski, — egli è ora più felice di noi. Noi gli dobbiamo imperitura gratitudine.
Kordetski aveva te lagrime agli occhi, e Charnyetski disse:
— Le cronache parlano tanto d'uomini di assai minor merito. Ma se Iddio mi dà vita, e se qualcuno mi domandasse un giorno chi fra noi abbia eguagliato gli antichi eroi, io dirò: Babinich.
— Babinich non era il suo nome, — disse Kordetski.
— Come, non si chiamava Babinich?
— Io conobbi fin da principio il suo vero nome sotto suggello di confessione. Quando ci lasciò per far scoppiare quel cannone, mi disse che potevo palesarlo a tutti se egli periva. Egli è perito. Ora io posso dirvi che si chiama Kmita!
— Quel rinomato Lituano? — gridò Charnyetski stupefatto. — Ora comprendo perchè egli si accinse a quell'opera ardita!
— D'ora innanzi, non solo la Lituania ma tutta la Repubblica lo glorificherà in ben altra maniera, — soggiunse Zamoyski.
— Che ciascuno lo ricordi con onore, e che il suo nome sia celebrato dovunque, — disse Kordetski. — Ed ora Iddio gli conceda eterna pace.
— Eppure io stupisco come mai gli Svedesi non abbian menato vanto della sua morte, — osservò Charnyetski.
— L'esplosione lo avrà ucciso in sul momento, — diss'egli.
— Ebbene, io scommetterei invece ch'egli vive.
— Dio lo volesse! — esclamò il priore, — ma non lo spero.
— Certo è, che se domani porteremo una nuova vittoria lo dovremo a lui. L'Arca di Noè non può sommergersi nel diluvio.
Così conversando, ed intrattenendosi specialmente dell'assalto che si aspettava per l'indomani, passarono la vigilia di Natale.
I frati si recarono in chiesa ed i soldati ritornarono al loro posto sulle mura.
Regnava una calma solenne. Miriadi d'astri fulgidi splendevano nel cielo sereno.
A mezzanotte gli Svedesi udirono i soavi e maestosi suoni dell'organo, ai quali si univano le voci degli uomini e delle donne, e poco dopo il suono di tutte le campane.
I soldati polacchi, sotto il comando di Zbrojek e Kalinski, senza chiedere il permesso, si spinsero fin sotto le mura del convento, e molti di essi s'inginocchiarono sulla neve, pregando e sospirando.
Nel pomeriggio del giorno successivo non si udì di nuovo nient'altro che tuonare i cannoni. Ma fra questi non eravi più quella terribile colubrina che da sola sarebbe bastata per aprire una larga breccia, quale occorreva per dare l'assalto a Yasna Gora.
Verso sera, Miller uscì per vedere l'effetto del bombardamento.
— Quel convento resterà in piedi per tutti i secoli dei secoli! — gridò fuori di sè.
— Amen! — rispose Zbrojek tranquillamente.
A notte si adunò il consiglio al quartier generale. La scena era più triste ancora del solito. Miller ruppe il silenzio.
— Il bombardamento d'oggi non ha avuto nessun risultato, — diss'egli. — La nostra polvere, è esaurita, i nostri soldati sono scoraggiati. Non abbiamo nemmeno più viveri, non possiamo aspettare rinforzi. Io ho ricevuto l'ordine di porre termine sollecitamente all'assedio ottenendo la resa del convento o di ritirarmi in Prussia.
— Che cosa ci resta a fare in tale dilemma? — chiese il principe d'Hesse.
Tutti gli sguardi si fissarono sul conte Veyhard, il quale rispose:
Un sorriso quasi di scherno spuntò sulle labbra di Miller.
— Il conte pretenderebbe insegnar a noi come si fanno risuscitare i morti, — osservò in tono amaro ed ironico.
Il conte Veyhard finse di non aver udito.
— Solo i caduti hanno salvato il loro onore, — disse Sadovski.
A queste parole seguì un cupo silenzio. Pareva che il generale ed i suoi ufficiali si sentissero accasciati dalla vergogna, pensando che erano costretti a ritirarsi dopo un sì lungo assedio, senza aver ottenuto la resa di quel convento che chiamavano sprezzantemente «un pollaio».
Ad un tratto il conte Veyhard prese a dire sottovoce:
— È avvenuto più d'una volta che una fortezza assediata si è riscattata dagli assedianti, i quali in tal modo se ne andarono vittoriosi; perchè, chi paga un riscatto, con ciò stesso si riconosce vinto. Facciamoci pagare un riscatto da quei frati, ed allora nessuno potrà dire che non abbiamo potuto espugnare il convento, ma si dirà che noi stessi non abbiamo voluto prenderlo.
— Acconsentiranno? — domandò il principe d'Hesse.
— Io ci scommetterei la mia testa, — rispose il conte Veyhard; — anzi, più ancora, il mio onore di soldato.
Miller si rivolse a Veyhard e gli disse:
— I più dolorosi momenti della mia vita li devo ai vostri consigli, signor conte; ma per quest'ultimo vi ringrazio, e ve ne sarò sempre riconoscente.
L'indomani, giorno di santo Stefano, tutti quanti gli ufficiali si riunirono per udire la risposta di Kordetski alla proposta del riscatto.
Miller si sforzava di parer lieto, ma sulla sua faccia si leggeva chiaramente una grande inquietudine.
Il principe d'Hesse e Sadovski stavano parlando sommessamente presso la finestra.
— Il consiglio del conte è buono, — disse Sadovski; forse quei monaci acconsentiranno a riscattarsi. Ma mi sento talmente agitato che preferirei dieci assalti a questa aspettativa.
— Quel conte Veyhard non manca di spirito. Potrà salire molto in alto, — osservò il principe.
— Anche sino alla forca, — replicò Sadovski.
Nè l'uno nè l'altro prevedevano in quel momento che un destino peggiore della forca attendeva il conte.
Ad un tratto il rombo del cannone interruppe i loro discorsi.
— Che cos'è questo? La fortezza fa fuoco, — gridò Miller. E balzando in piedi come un ossesso si precipitò fuori della sala. Tutti gli altri lo seguirono.
— O che fanno fuoco fra loro? — disse Miller. — Io non comprendo.
— Ve lo spiegherò io di che si tratta, — replicò Zbrojek. — Oggi è Santo Stefano, il giorno onomastico dei Zamoyski padre e figlio e si sparan salve in loro onore.
— Essi hanno ancora della polvere, — esclamò Miller mestamente. — Ecco un brutto presagio per noi! — soggiunse mentre rientrava nel suo quartiere con i suoi subalterni.
Dopo un'altr'ora di penosa attesa, giunse alfine il trombettiere con la risposta dei frati. Non era una lettera ma un pacchetto legato con una funicella.
Miller, con mano tremante, tagliò la funicella anzichè slegarla. Tutti gli sguardi erano fissi su di lui. Il generale sciolse un involto, poi un secondo, un terzo, con crescente e convulsa fretta, finchè un pacchetto di ostie cadde sulla tavola. Egli impallidì, e quantunque nessuno domandasse che cosa eravi nel pacchetto, disse: — Ostie! Nient'altro.
Tutti rimasero muti ed estatici.
— Conte Veyhard! — gridò finalmente Miller con accento terribile, ma il conte era scomparso.
In quella notte regnò un grande movimento nel campo. Era appena apparso il primo chiarore del nuovo giorno, quando voci di comando risonarono da ogni parte, e si udì un grande frastuono come di una massa d'uomini che si mette in moto.
Verso le cinque del mattino ogni rumore era cessato; ma la neve cadeva tanto fitta che le sentinelle sulle mura del convento non potevano vedere nulla.
Finalmente le campane cominciarono a suonare la prima messa quando nel medesimo istante i soldati di guardia alla porta meridionale udirono lo scalpitìo d'un cavallo.
Un contadino, seguito da una piccola slitta tirata da un magro ronzino, battè ripetutamente alla porta, gridando:
— Chi va là? — domandarono le sentinelle.
— Un vostro vassallo di Dzlov. Ho portato della selvaggina.
— Ma in che modo gli Svedesi vi hanno lasciato passare?
— Che Svedesi?
— Quelli che assediano il convento.
— Non vi sono più Svedesi.
La notizia si sparse in un attimo fra i difensori di Yasna Gora. I soldati corsero alle campane e si fecero a suonare come a stormo. Tutti si precipitarono fuor dalle celle, dalle camere, dalla chiesa. Il cortile si riempì di monaci, di nobili, di soldati, di donne, di fanciulli. Grida frenetiche di gioia echeggiarono in tutto il convento.
Poche ore dopo il declivio e il piano sotto la montagna erano letteralmente coperti di popolo. Le porte del convento furono spalancate, tutte le campane suonavano a festa; l'eco di quell'immenso trionfo risuonò alfine in tutta la Repubblica!
In sul meriggio di quel dì un'immensa moltitudine di popolo si affollava nella chiesa. Padre Kordetski celebrò la messa di ringraziamento, ed alla fine intonò fra il più assoluto silenzio e raccoglimento della folla l'inno di grazie: