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Pan Andrea si agitava nel suo alloggio come un leopardo ferito. L'infernale vendetta di Bogoslavio lo rendeva pressochè pazzo.
Ma a dispetto della rabbia che lo rodeva, egli considerò che il migliore anzi l'unico mezzo per sventare la calunnia e l'infamia dell'accusa, era precisamente il servizio del Re; perchè con questo avrebbe mostrato al mondo, che non solo egli non aveva mai concepito il pensiero di levare la mano contro la sacra persona di Giovanni Casimiro, ma che non si sarebbe potuto trovare fra tutti i nobili di Lituania e Polonia una persona più leale di lui.
Kmita giurò a sè stesso di vendicarsi atrocemente di Bogoslavio, eppure non sapeva ancora che il principe non si era accontentato di coprire il suo nome d'infamia.
Intanto il Re, che aveva concepito una grande simpatia pel giovane eroe, gli mandò quello stesso giorno Pan Lugovski, con l'ordine di accompagnarlo ad Opol, dove in una generale assemblea dei senatori dovevasi discutere il ritorno del Re nella Repubblica. Oltre a ciò eranvi altre cose importanti da trattare. Lyubomirski, Maresciallo del Regno, aveva mandato una nuova lettera, in cui annunciava che tutto era pronto nella Repubblica per una guerra generale. Di più si era sparsa la voce di una lega di nobili e soldati formatasi per la difesa del Re e del paese, la quale fu conosciuta in seguito sotto il nome di Confederazione di Tishovtsi.
Tutti gli spiriti furono grandemente rianimati da tale notizia, e immediatamente si formò un consiglio segreto, al quale, ad istanza del Re, fu ammesso anche Kmita, in riguardo delle notizie che aveva portate da Chenstohova.
Cominciarono a discutere se il ritorno doveva effettuarsi tosto, o se fosse meglio differirlo, ma prevalse il primo partito.
Giovanni Casimiro e la sua scorta cavalcarono alla volta di Ratibor, fermandosi unicamente per ristorare i cavalli. Nessuno ravvisò il Re, nessuno prestò molta attenzione al drappello, essendo tutta la gente occupata dal recente passaggio dei dragoni, fra i quali tutti credevano si trovasse il Re di Polonia.
La giornata era fosca e la neve cadeva sì fitta che era impossibile vedere la strada a pochi passi di distanza. Ma il Re era allegro e pieno di coraggio, poichè al momento della sua partenza era avvenuto un fatto, che tutti consideravano come un favorevole auspicio, e che gli storici contemporanei non trascurarono d'inserire nelle cronache di quei tempi.
Proprio nel momento in cui Giovanni Casimiro usciva da Glogov, un uccelletto tutto bianco si diede a svolazzare inforno a lui, innalzandosi talvolta, e talvolta abbassandosi sino a sfiorare la testa del Re, e battendo le ali come in segno di festa: tutti rammentarono che un uccello simile, ma nero, era apparso sopra il capo di Giovanni Casimiro allorchè si ritirava da Varsavia dinanzi agli Svedesi, e, questo essendo bianco, ne arguirono che la fortuna sarebbe ora propizia e si ripromisero il più felice successo.
Fino dal principio del viaggio apparve quanto fosse stato saggio il consiglio di Kmita.
Dappertutto in Moravia si parlava del Re di Polonia. Alcuni asserivano d'aver visto con i loro propri occhi che era in armatura, con la spada in mano e la corona in capo. Si esagerava in modo favoloso il numero dei soldati della sua scorta, affermandosi che erano diecimila uomini.
— Certamente, — dicevano, — gli Svedesi si opporranno al suo passaggio, ma che cosa potranno contro tali forze?
— Ebbene, — disse il Re a Tyzenhauz, — non aveva ragione Babinich?
— Non siamo ancora a Lyubovlya, — replicò il giovane.
Babinich era molto soddisfatto di sè stesso e del viaggio. Generalmente egli cavalcava innanzi coi tre Kyemlich perlustrando la strada; talvolta cavalcava cogli altri intrattenendo il Re col racconto dei diversi episodi dell'assedio di Chenstohova, dei quali egli non si stancava mai di sentir parlare.
Un giorno Giovanni Casimiro chiese improvvisamente a Pan Andrea:
— In quale combattimento riportaste questa cicatrice attraverso il labbro?
— Fui colpito da un tale che mi scaricò una pistola in faccia, — rispose il giovane.
— Un nemico, o uno dei nostri?
— Uno dei nostri; ma un traditore del quale saprò vendicarmi. Ma finchè ciò non sia avvenuto non è conveniente che io ne parli.
— Avete tanta animosità contro colui?
— Non ho animosità, o Sire, perchè io ho nella testa una cicatrice più profonda, in seguito ad un colpo di sciabola che quasi mi tolse di vita: ma siccome l'ebbi da un uomo onorato non serbo rancore contro di lui.
Kmita si tolse il berretto, e mostrò al Re un solco profondo, i cui bianchi margini erano perfettamente visibili.
— Io non mi vergogno di questa ferita, — disse, — perchè mi è venuta da un tale maestro che l'uguale non si trova nella Repubblica.
— Pan Volodyovski.
— Lo conosco. Egli ha fatto meraviglie a Zbaraj! — esclamò il Re. — M'incontrai con lui alle nozze di Pan Skshetuski, e vi era un terzo cavaliere che tutta l'armata glorificava, un nobile grasso e tanto gioviale, che ci faceva scoppiare dalle risa.
— Sapete dove si trovano ora e che cosa fanno?
— Volodyovski combatte con Pan Sapyeha. Ho visto io stesso, quando, dopo il tradimento del principe Radzivill, gli gettò il bastone del comando ai piedi.
Tyzenhauz, un comandante, il quale, benchè giovane, godeva riputazione di soldato prode ed esperto, aveva ascoltato la conversazione e domandò ad un tratto:
— Allora voi eravate con Radzivill a Kyedani?
Kmita si confuse alquanto, ma la sua confusione durò un attimo. Indi rispose:
— Sì.
— E che cosa facevate in casa del principe?
— Ero suo ospite, — rispose Kmita impazientito, — e mangiavo il suo pane, sebbene fossi disgustato dal suo tradimento.
— E perchè non andaste cogli altri colonnelli da Pan Sapyeha?
— Perchè avevo fatto voto d'andare a Chenstohova.
Tyzenhauz tentennò il capo in modo dubbioso: il che attirò l'attenzione del Re, il quale fissò Kmita con sguardo interrogativo. Questi, perduta la pazienza, si volse a Tyzenhauz, dicendo:
— Mio nobile signore, perchè io non domando a voi dove siete stato e che cosa avete fatto?
— Domandatemi, — rispose l'altro; — io non ho nulla da nascondere.
— Nemmeno io sono dinanzi ad una Corte di giustizia. E se dovessi mai trovarmici, voi non siete il mio giudice. Lasciatemi dunque in pace prima che io perda la pazienza.
— Sire, questo nobile mi piace sempre meno, — mormorò Tyzenhauz all'orecchio del Re.
— E a me piace sempre più e più — rispose il Re sporgendo innanzi le labbra.
— Io ho udito oggi uno de' suoi uomini chiamarlo colonnello; egli non fece che guardarlo minacciosamente, e l'uomo rimase confuso.
— Io pure penso talvolta ch'egli si avvolge in un certo mistero, — rispose il Re, — ma questo è affar suo.
— Oh, Sire! — esclamò Tyzenhauz con forza, — non è affar suo, ma è affar nostro e della Repubblica. Perchè s'egli fosse un traditore che macchinasse la morte o la cattura di Vostra Maestà, in tal caso colla vostra persona periranno tutti coloro che in questo momento han preso le armi; e perirà l'intera Repubblica, che Voi solo potete salvare.
— Lo interrogherò io stesso domani.
— Dio voglia che io sia un falso profeta, ma nei suoi occhi io non leggo nulla di buono, — soggiunse Tyzenhauz.
La mattina seguente, al momento di rimettersi in cammino, il Re fece cenno a Kmita che gli si avvicinasse.
— Dove foste voi colonnello? — gli domandò bruscamente.
Kmita si pose tosto in guardia contro sè stesso. Avrebbe voluto gettarsi ai piedi di Giovanni Casimiro e dirgli tutta la verità, ma pensò all'impressione che avrebbe prodotto il suo nome dopo la lettera del principe Bogoslavio Radzivill. Determino perciò di serbare il silenzio. Ma sentiva in pari tempo un'inesplicabile disgusto del sotterfugio, e non volendo ingannare il Re con false storie, egli disse dopo un istante:
— Sire, verrà il momento in cui io aprirò tutta l'anima mia a Vostra Maestà, ma prima voglio che i fatti rendano testimonianza delle mie sincere intenzioni, della mia lealtà e dell'affetto che nutro per la Maestà Vostra.
Così dicendo gli occhi di Pan Andrea s'inumidirono; e tanta sincerità si dipinse sul suo viso che ogni dubbio si dileguò dall'animo del Re.
— Io vi credo, — disse Giovanni Casimiro, — perchè il tradimento non ha tali accenti sinceri.
Ma Tyzenhauz non si limitò ad insinuare il sospetto nel Re, ma tanto fece che tutti gli altri cominciarono a guardare Kmita di traverso. Ogni suo movimento era osservato, ogni parola ponderata. Kmita, accorgendosene, sentivasi molto a disagio fra quegli uomini.
Il Re stesso non teneva più con Pan Andrea il gioviale contegno di prima. Perciò il giovane eroe divenne triste e una profonda amarezza s'impossessò dal suo cuore.
Finalmente il Re e la sua piccola scorta giunsero in vista dei Carpazi, le cui alte cime, nonchè i pendii, erano coperti di neve.
Inoltrarono verso quei monti maestosi e vi si internarono. Giunti in un certo punto il Re disse con accento commosso:
— Il confine non dov'esser lontano.
Poco dopo incontrarono un carro tirato da un cavallo, nel quale vi era un contadino.
Tyzenhauz lo fermò e gli disse:
— Buon uomo, siamo in Polonia?
— Quel ruscello segna il confino dell'Impero, — rispose il contadino, che frustò il cavallo e proseguì la sua strada.
Tyzenhauz galoppò verso il Re.
— Sire! — gridò con emozione, — Vostra Maestà sta per porre il piede nel Regno; quel fiumicello segna il confine dell'Impero.
Il Re non disse nulla ma fece segno che gli si tenesse il cavallo; smontò, e, postosi in ginocchio, alzò gli occhi e le mani al cielo.
A tal vista tutti smontarono e seguirono il suo esempio. Lo tenebre principiavano a distendersi sulla terra quando la scorta si rimise in cammino.
Dopo la preghiera i dignitari ed i cavalieri cavalcarono in silenzio. Cadde alfine la notte; ma verso occidente il cielo si faceva sempre più rosseggiante.
— Andiamo verso quella luce, — disse il Re. — È qualche cosa di strano...
Allora Kmita galoppò innanzi e disse:
— Maestà, quello è un incendio! Tutti si fermarono.
— Come, come! — esclamò il Re. — A me sembra la luce del tramonto.
— È un incendio, un incendio; io non mi sbaglio! — gridò Kmita.
Alla fine non fu più possibile dubitare, giacchè si videro innalzarsi delle nubi rossiccie, ora risplendenti ed ora oscure.
— Si direbbe che Jivyets brucia! — gridò il Re. — Forse il nemico lo sta saccheggiando.
Non aveva terminato di pronunciare le ultime parole, quando giunse al loro orecchio un rumore confuso di voci ed il calpestìo di cavalli. Nell'oscurità si vide muoversi una quantità di ombre nere.
— Chi va là? — gridò Tyzanhauz.
— Chi siete? — egli soggiunse.
— Patrioti! — risposero molte voci. — Noi fuggiamo da Jivyets, gli Svedesi l'hanno posta a ferro e fuoco.
— Fermatevi, in nome di Dio! Che cosa dite? Da dove son venuti?
— Essi stavano aspettando il nostro Re. Sono in grandissimo numero. Che la Santa Vergine protegga il Re!
— Ecco quel che succede a mettersi in marcia con poca gente! — gridò rivolgendosi a Kmita. — Foste morto voi che avete dato questo consiglio!
Giovanni Casimiro domandò ai fuggitivi:
— Ma dov'è il Re?
— Il Re ha preso la via dei monti con una numerosa scorta. Due giorni fa è passato da Jivyets; gli Svedesi lo inseguirono, e si batterono in qualche luogo vicino a Suha. Noi non sappiamo se l'abbiano preso o no, ma oggi essi son ritornati a Jivyets, dove hanno appiccato il fuoco e passato molta gente a fil di spada,
— Grazie delle vostre informazioni. Andate con Dio! — disse Giovanni Casimiro.
I fuggitivi si allontanarono.
— Ecco che cosa ci sarebbe capitato se noi fossimo partiti coi dragoni! — esclamò Kmita.
— Maestà, — disse il padre Gembitski, — il nemico è dinanzi a noi. Che cosa faremo?
Tutti circondarono il monarca come per coprirlo delle proprie persone. Il Re non distoglieva lo sguardo da quel fuoco e taceva. Nessuno osava aprir bocca; era troppo difficile prendere una decisione.
— Quando io uscivo dal Regno, risplendeva pure la luce di un incendio, — disse al fine Giovanni Casimiro, — ed ora che vi rientro splende un altro fuoco.
— Che cosa faremo? — chiese di nuovo il padre Gembitski.
La voce di Tyzenhauz sorse tosto piena d'amarezza e di insulto.
— Colui che non ha esitato ad esporre la persona del Re al pericolo — diss'egli — dica ora che cosa dobbiamo fare.
In questo momento Kmita si slanciò innanzi ed alzatosi sulle staffe, gridò ai suoi uomini che cavalcavano dietro di lui:
— Seguitemi!
Quindi spinse il suo cavallo al galoppo, seguito dai Kyemlich.
Tyzenhauz mandò un grido di disperazione.
— Una cospirazione! — esclamò fuori di sè. — Questi traditori ci daranno in mano al nemico. Maestà, salvatevi mentre siete in tempo, perchè il nemico ci avrà presto chiuso il passo!
— Ritorniamo indietro! — gridarono i dignitari ad una voce.
Giovanni Casimiro s'impazientì, i suoi occhi lampeggiavano; d'improvviso trasse la spada, e gridò:
— Dio mi guardi dal lasciar il mio paese una seconda volta.
E diè di sprone al cavallo per muovere innanzi, ma il nunzio che si trovava fra la scorta gli afferrò le redini.
— Maestà, — gli disse seriamente, — voi non siete libero di esporre la vostra persona.
— Io non voglio ritornare in Slesia, — rispose Giovanni Casimiro.
— Sire, ascoltate le preghiere de' vostri sudditi — soggiunse il castellano di Sandomir. — Se non volete ritornare nel territorio dell'Imperatore, allontaniamoci almeno da qui, e torniamo indietro per questa gola, prima che il cammino ci sia intercettato. Attenderemo presso il confine, ed in caso di un attacco da parte del nemico ci rimarrà sempre lo scampo della fuga.
— Sia pure, — disse il Re. — Io non rifiuto i buoni consigli, ma non voglio emigrare una seconda volta. Del resto, ritengo che voi vi allarmiate per nulla. Dal momento che gli Svedesi ci cercavano fra gli squadroni, come lo hanno confermato quei fuggiaschi, è chiaro che non ci credono altrove e che non v'è ombra di tradimento o di cospirazione. Calmatevi, signori, Babinich è andato coi suoi uomini per aver notizie e sarà tosto di ritorno.
Passò un quarto d'ora, mezz'ora, un'ora, e Babinich non era ancora ritornato.
La luce dell'incendio diminuiva a poco a poco, il che indicava che il fuoco andava estinguendosi. Ad un tratto risuonò nel profondo silenzio il calpestìo di alcuni cavalli.
— È Pan Babinich che ritorna! — esclamò il Re.
Nel medesimo tempo Tyzenhauz gridò:
— Noi! non fate fuoco! — rispose la voce di Kmita.
Egli si avanzò verso il drappello, e distinguendo la persona del Re, perchè il cielo si era alquanto rasserenato, gridò:
— Non vi sono Svedesi a Jivyets?
— Essi sono andati a Vadovitsi. Quella era una banda di mercenari tedeschi. Vostra Maestà troverà alloggio per la notte a Jivyets, perchè il paese è bruciato soltanto in parte.
Ma il sospettoso Tyzenhauz, in quello stesso momento parlava col castellano di Voinik, e gli diceva:
— O costui è un gran guerriero e legittimo come l'oro, o un traditore emerito. Chi ci assicura che gli Svedesi non siano nascosti a Jivyets, e che il Re andando innanzi non cada in una trappola?
— È meglio convincersene — rispose il castellano di Voinik.
Tyzenhauz, rivoltosi al Re, disse forte: — Sire, permetta Vostra Maestà che io vada innanzi fino a Jivyets per convincermi che quello che dice questo cavaliere è vero.
— Sia pure! Permettete che vadano, o Sire.
— Andate, — disse il Re; — ma noi vi seguiremo perchè fa freddo.
Tyzenhauz si slanciò a tutta corsa, e la scorta del Re si mosse pian piano nella stessa direzione.
Avanzarono per qualche tempo in silenzio. Finalmente si udì lo scalpitìo d'un cavallo e Tyzenhauz comparve.
— Maestà, — diss'egli, — la strada è libera e gli alloggi sono pronti.
— Ma non l'ho detto io — esclamò Giovanni Casimiro, — che non era il caso di allarmarsi!
E tutti mossero innanzi al trotto, allegri o giocondi, e un'ora dopo il Re dormiva di un placido sonno nel suo territorio.
In quella sera Tyzenhau s'accostò a Kmita: — Perdonatemi, gli disse, — trasportato dall'amore per il Re ho gettato la diffidenza sopra di voi. Voi siete un prode soldato. Perdonatemi e datemi un bacio, onde non andiamo a dormire in collera.
Kmita esitò un istante. Indi disse:
— Sia pure! — ed i due giovani si gettarono nelle braccia l'uno dell'altro.