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Al mattino seguente Giovanni Casimiro e la sua scorta continuarono il cammino verso Vadovitsi e di là verso Suha. Bisognava indi passare per Kjechoni e Yordanovo, volgendo verso Novy Targ; e se i dintorni di Chorthtyn fossero stati liberi dagli Svedesi avrebbero continuato il cammino verso quel paese, altrimenti dovevano dirigersi verso l'Ungheria, e da quella parte volgere verso Lyubovlya. Il Re sperava che il maresciallo del Regno, il quale disponeva di forze considerevoli, avrebbe provveduto alla sicurezza delle strade e avrebbe mandato delle truppe incontro al suo Sovrano. Unico impedimento sarebbe stato questo, che il maresciallo non avesse conosciuto la strada presa dal Re: ma fra i montanari non mancavano uomini fedeli e pronti ad informarlo.
Quegli uomini semi-selvaggi erano affezionatissimi al loro Sovrano, e se Giovanni Casimiro avesse fatto sapere loro dove si trovava, si sarebbe visto in poco tempo scortato da migliaia di quei montanari, rozzi, ma sinceri. Ma egli pensò che in tal modo la notizia si sarebbe divulgata dappertutto, e che gli Svedesi avrebbero potuto mandare numerose truppe ad incontrarlo.
Ma dappertutto si trovavan guide fedeli, alle quali bastava dire che conducevano vescovi e magnati i quali volevano sfuggire dalle mani degli Svedesi.
Il Re era sempre di buon umore; egli infondeva col proprio esempio il coraggio agli altri, ed affermava che viaggiando fra quei monti sarebbero arrivati a Lyubovlya sani e salvi.
Dopo un faticoso cammino giunsero alfine a Novy Targ. Pareva che ogni pericolo fosse passato: ma i montanari dichiararono che i distaccamenti svedesi si aggiravano presso Chorthyn e nei dintorni.
Volsero quindi da Novy Targ alquanto verso sud-ovest. In sul principio la strada attraversava regioni aperte e spaziose, ma internandosi fra i monti cominciava a diventare pericolosa.
I montanari, abituati ai precipizii, consideravano spesso come buone certe strade che davano il capogiro agli uomini che non vi erano avvezzi. Entrarono alla fine in un burrone, lungo e così angusto che a stento potevano passarvi tre uomini in fila.
Il Re e la sua scorta si riposarono alquanto prima di uscire da quello stretto passaggio.
— Silenzio! — disse ad un tratto il montanaro che faceva loro da guida. E balzando verso la roccia vi applicò l'orecchio.
Tutti fissarono gli sguardi su quell'uomo. La sua faccia si sconvolse, ed egli disse:
— Si avanzano delle truppe dal lato dove la strada fa una curva. Per l'amor di Dio! Se fossero Svedesi?
— Forse sono le truppe del Maresciallo, — osservò il Re.
Immediatamente Kmita salì a cavallo e disse: — Andrò a vedere.
I Kyemlich lo seguirono tosto come cani fedeli, ma si erano appena mossi, che in fondo al burrone dove la strada faceva gomito, alla distanza di circa sessanta passi, videro una nera massa formata da uomini e cavalli. Kmita gettò un'occhiata su quei cavalieri e tremò di spavento.
Gli Svedesi s'avanzavano.
Erano tanto vicini che la ritirata diveniva impossibile, specialmente perchè la scorta del Re aveva i cavalli stanchi. Non rimaneva che affrontarli, perire, o cader prigioni. L'intrepido monarca comprese in un lampo; quindi posò mano all'impugnatura della spada.
— Coprite il Re e ritiratevi! — gridò Kmita.
Tyzenhauz con venti uomini si slanciò in avanti in un batter d'occhio; ma Kmita, invece di seguirli, galoppò incontro agli Svedesi con la rapidità del lampo.
Egli vestiva la divisa svedese, quella stessa che avevasi posta all'uscire dal convento. Vedendo un uomo a cavallo, galoppare verso di loro così vestito, gli Svedesi pensarono di essersi incontrati con un drappello dei loro e non si mossero.
Il capitano solo si avanzò e chiese in lingua svedese: — Chi siete?
Kmita spinse il cavallo vicino a quello del capitano, e, senza profferir parola, scaricò la sua pistola nell'orecchio dell'ufficiale.
Sorse un grido di terrore dal petto degli Svedesi: ma più terribile echeggiò la voce di Pan Andrea, che gridò:
— Addosso!
I due giovani Kyemlich, come due orsi si gettarono dietro a lui sui soldati.
Parve in sul principio agli Svedesi, che tre giganti fossero piombati su di loro.
I cavalli cominciarono a mordere ed a tirar calci. I soldati che venivan dietro erano impotenti a venire in aiuto a quelli delle prime file, i quali perivano sotto i colpi dei tre giganti.
Intanto era sorta una confusione attorno alla persona del Re. Il nunzio, come a Jivyets, afferrava le redini del suo cavallo, e dall'altra parte il vescovo di Cracovia lo tirava indietro a tutta forza: ma il Re non cessava di speronarlo, tanto che l'animale s'impennò terribilmente.
L'ostinazione di Giovanni Casimiro, una volta che aveva preso una determinazione, non cedeva a nulla, a nessuno. Egli spronò il cavallo ancora più forte, e invece di retrocedere si spinse innanzi, gridando:
— Io voglio morire sul suolo della mia patria! Lasciatemi!
Kmita e i Kyemlich poterono tener fermo per lungo tempo: ma a poco a poco le loro forze cominciarono ad esaurirsi. Più volte gli stocchi degli Svedesi avevano colpito Kmita, e il suo sangue cominciò a grondare. Già i suoi occhi erano velati come da una nebbia. Il respiro si arrestava nel suo petto. Egli sentì avvicinarsi la morte.
Gli Svedesi, colti da vergogna al pensare che quattro uomini potessero tener loro fronte per sì lungo tempo, si precipitarono innanzi con furia.
Il cavallo di Kmita cadde trascinando il cavaliere nella caduta.
I Kyemlich combatterono ancora per pochi istanti, ma ben presto caddero anch'essi. Allora gli Svedesi mossero come un turbine verso la scorta del Re.
Tyzenhauz coi suoi uomini si slanciò contro il nemico, ma che cosa poteva fare quel manipolo d'uomini contro un distaccamento di oltre trecento dragoni?
Non eravi più dubbio oramai che per il Re e per la sua scorta era suonata l'ora fatale della morte.
Il Re si slanciò innanzi, ma ad un tratto si arrestò come se avesse messo radici nel suolo.
Avveniva qualche cosa di straordinario. Pareva agli spettatori come se le stesse montagne venissero in aiuto del legittimo Sovrano.
La terra tremò, e come se quegli alti pini che crescevano sugli orli del burrone desiderassero prender parte alla battaglia, tronchi d'alberi, valanghe di neve e massi di roccia, cominciarono a cadere con terribile fracasso sui ranghi degli Svedesi ammucchiati nell'angusto spazio.
Nello stesso tempo orribili grida, che nulla avevano d'umano, si udivano da ambo i lati del burrone.
— I montanari! i montanari! — gridavano gli uomini della scorta del Re, mentre gli Svedesi perivano schiacciati, emettendo nello strazio dell'agonia urli e gemiti spaventevoli.
Una moltitudine di teste dalle lunghe capigliature, erano apparse in alto sull'orlo delle rocce, e poco dopo centinaia di strane figure cominciarono a scendere giù per le balze scoscese come tanti camosci. Con le loro ascie si gettarono sul nemico come tanti leoni.
Il Re tentò di impedire quel macello, ma invano. Un quarto d'ora dopo non eravi più un solo Svedese vivente nel burrone.
Il nunzio guardava con istupore quella gente selvaggia, coperta in parte da pelli di pecora, che alla vista dei vescovi si scoprirono il capo e s'inginocchiarono dinanzi ad essi nella neve.
— Sapete chi avete soccorso? Questi è il vostro Re, il vostro signore; è lui che avete salvato, — disse loro il vescovo di Cracovia.
A queste parole i montanari, resi pazzi dalla gioia, si fecero ad attorniare Giovanni Casimiro. E piangendo gli baciavano i piedi e persino le staffe.
Il Re, trovandosi in mezzo a gente così fedele, si sentì inumidire gli occhi di lagrime. Poi alzò la voce e disse:
— O Dio! che mi hai salvato per mano di questa gente semplice; io giuro di esserne il padre da questo momento sino alla mia morte.
— Amen! — risposero i vescovi.
Per qualche tempo regnò un silenzio profondo; quindi avvenne un nuovo scoppio di gioia.
Il Re strinsesi ad un tratto il capo fra le mani, e gridò:
— Trovatemi Babinich. Certo egli è perito, ma noi dobbiamo almeno seppellirlo e non lasciarlo divorare dai corvi. E dire che era considerato come un traditore, lui, che pel primo versò il suo sangue per noi!
I soldati ed i montanari si slanciarono sul luogo dove aveva avuto luogo la mischia, e rimossero dal mucchio dei cavalli o degli uomini morti il corpo di Pan Andrea. La sua faccia era pallida e coperta di sangue, i suoi occhi erano chiusi: l'armatura era tutta ammaccata ma lo aveva salvato, impedendo che fosse schiacciato, e il soldato che lo sollevava da terra credette di udire un fioco lamento.
— Togliamogli l'armatura, — dissero gli altri.
Furono tagliate in fretta le cinghie. Kmita respirò più liberamente.
— Respira! respira! È vivo! — ripeterono molte voci.
Ma egli rimase parecchio tempo immobile; alla fine aprì gli occhi. Allora uno dei soldati, recata una fiaschetta d'acquavite, ne lasciò cadere alcune goccie fra le labbra del ferito; altri lo sollevarono per le ascelle.
Il Re, nell'udire che era vivo, emise un grido di gioia. I soldati portarono dinanzi a lui Pan Andrea. I suoi occhi, apertisi da pochi istanti, riconobbero il Re; un sorriso gli irradiò il volto e lo sue labbra mormorarono sommessamente:
— Il mio Re è salvo!
— Babinich, Babinich! come potrò ricompensarvi? — esclamò il Re.
— Io non sono Babinich, sono Kmita! — mormorò il cavaliere.
Dette queste parole svenne, e giacque come un cadavere tra le braccia dei soldati.