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La primavera di quell'anno si presentava in modo assai strano. Mentre nel Nord della Repubblica la neve si squagliava ed i fiumi scorrevano liberi di ghiaccio, nel Sud, invece, continuava il rigido inverno. Le giornate erano secche e freddissime, i tramonti rosseggianti, le notti stellate e gelide. Se non che la primavera giunse poi improvvisamente in quelle regioni.
Le campagne si convertirono in laghi per lo straripare dei fiumi; i guadi scomparvero, il suolo si tramutò in un pantano e le strade divennero impraticabili. E in tant'acqua e in tanta melma, le legioni proseguivano testardamente la loro marcia verso il Sud.
Ma ora erano ben piccole quelle legioni che andavano incontro al sacrificio e alla distruzione.
I giorni si succedevano ai giorni, e le truppe Svedesi marciavano sempre, estenuate dalla stanchezza e dalla fame. Vennero poi le malattie: molti soldati furono assaliti dalla febbre; altri si lasciavano cadere a terra per la debolezza, preferendo morire subito.
Carlo si fermò alcuni giorni a Yaroslav per riflettere sul da farsi. Durante questo tempo si collocarono i soldati malati (di cui ve n'erano molti) in chiatte, e si mandarono sul fiume a Sandomir, ch'era la più vicina città fortificata tuttora in mani svedesi. Dopo tale operazione, e proprio nel momento in cui giungeva la notizia che Giovanni Casimiro era in marcia da Leopoli, il Re di Svezia determinò di scoprire dove si trovava Giovanni Casimiro. E a questo scopo il colonnello Kanneberg con un migliaio d'uomini di cavalleria passò il San e mosse verso Oriente.
— Voi forse avete in mano i destini della guerra ed i nostri — gli disse il Re, e realmente si potevano aspettare molti vantaggi da quella spedizione.
Furono quindi affidati a Kanneberg i migliori soldati ed i migliori cavalli. La scelta fu fatta con tanta maggior cura in quanto che il colonnello non poteva prender seco nè artiglieria nè fanteria, e quindi bisognava che avesse con sè uomini, i quali con le sciabole potessero tener fronte alla cavalleria polacca in campo aperto.
Il distaccamento partì il 20 marzo. Nell'allontanarsi, i soldati emisero grida di gioia, e dissero ai camerati:
— Vogliamo condurvi Charnyetski stesso, tirandolo per una corda.
I mille uomini si diressero verso Vyelki-Ochi. Quando finalmente vi giunsero non vi incontrarono anima viva. Quella solitudine stupiva Kanneberg.
— Evidentemente ci hanno aspettati qui — disse al maggiore Sweno; — ma Charnyetski deve essere in qualche altro luogo, giacchè non ha preparato imboscate.
— Dobbiamo forse tornare indietro? — domandò Sweno.
— Noi andremo innanzi, magari fino a Leopoli, che non è molto lontano. Io ho bisogno di trovare un informatore, per poter dare al Re sicure informazioni sul luogo dove si trova Casimiro.
— Ma se incontrassimo forze superiori?
— Anche se incontrassimo parecchie migliaia di quegli spavaldi che i Polacchi chiamano la milizia generale, noi non ci lasceremo certo battere da tal sorta di soldati.
— Ma possiamo anche incontrare truppe regolari. Non abbiamo artiglieria, e contro di essi non v'ha di meglio che i cannoni.
— Saremo sempre in tempo a ritirarci ed a recare le informazioni al Re, e disperderemo quelli che tenteranno di chiuderci la strada.
— Io temo per la notte! — replicò Sweno.
— Useremo tutte le precauzioni. Noi abbiamo viveri per due giorni; non abbiamo nessuna premura.
Entrando nel bosco di pini oltre Vyelki-Ochi, Kanneberg mandò innanzi cinquanta uomini col moschetto in mano. Questi guardarono attentamente da ogni lato, esaminarono le macchie, i boschi cedui. Si fermarono spesso ad ascoltare; ma non v'era anima viva nè sulla strada, nè entro la foresta.
Ma un'ora dopo, nel punto dove la strada faceva una curva, due soldati che cavalcavano innanzi videro comparire degli uomini a cavallo alla distanza di circa duecento passi.
I due soldati svedesi trattennero i loro cavalli, gli uomini erano pochi e davanti a loro vi era un piccolo cavaliere che cavalcava un cavallo bianco. Un soldato corse indietro onde avvertire il colonnello.
Il piccolo cavaliere rimase fermo, e voltò la fronte del suo cavallo verso gli Svedesi. Questi videro ad un tratto sbucare una quantità di cavalli da ambi i lati della strada. Tutti presero posto su una linea.
In quel momento si avanzò il maggior Sweno con l'avanguardia e dopo di lui sopraggiunse Kanneberg.
— Io li conosco! — gridò Sweno, appena vide i soldati fermi sulla strada; — quello è lo squadrone che pel primo assalì il principe Valdemaro a Golamb; sono gli uomini di Charnyetski. Dev'esser qui lui stesso.
Queste parole produssero grande impressione; vi seguì un profondo silenzio nei ranghi.
— È un'imboscata, — continuò Sweno. — Colonnello, torniamo indietro.
— Bel consiglio! — rispose il colonnello con fiero cipiglio. — Non valeva la pena di muoverci per retrocedere alla vista di pochi soldati. Avanti! Montate i moschetti! — comandò Kanneberg.
Gli Svedesi eseguirono il comando come un sol uomo.
Ma avanti che i moschetti sparassero, i cavalieri polacchi voltarono i cavalli e si diedero a fuggire in gruppi disordinati.
La divisione mosse innanzi al galoppo; il terreno tremava sotto le zampe ferrate dei cavalli, la foresta echeggiò delle grida degl'inseguitori e degli inseguiti.
Ma ad un tratto avvenne una cosa meravigliosa. La banda polacca, che prima era disordinata, invece di sparpagliarsi sempre più nella fuga cominciò a ordinarsi crescendo di numero.
Sweno, vedendo ciò, raggiunse Kanneberg, gridando:
— Colonnello, quello è un grosso corpo; sono soldati regolari; fingono la ritirata per attirarci in un'imboscata.
Kanneberg sorrise sprezzantemente e ripetè:
— Avanti!
Ma improvvisamente, quando meno se lo aspettavano, i Polacchi fecero front'indietro e si schierarono in un attimo in ordine di battaglia.
— Ci attaccano, — disse Sweno.
Infatti lo squadrone moveva innanzi al trotto. Il piccolo cavaliere dal cavallo bianco gridò qualche cosa ai suoi uomini, e tutti si slanciarono contro gli Svedesi con la rapidità del fulmine.
— Dio con noi! Fuoco! — comandò Kanneberg, alzando la spada.
Tutti i moschetti spararono, ma proprio in quel momento lo squadrone polacco si gettò sopra il nemico con tale impeto che spinse a destra ed a sinistra i primi ranghi svedesi, e penetrò nel distaccamento come un conio nella spaccatura d'un ceppo. Avvenne una tremenda mischia. Gli Svedesi rimasero per un tratto confusi, specialmente perchè al primo impeto erano caduti gran numero di essi, ma si rimisero tosto, e alla loro volta caricarono coraggiosamente il nemico.
La vittoria pareva volgersi in loro favore, quando ad un tratto sbucò dalla foresta un altro squadrone, e con un formidabile grido, si slanciò contro tutta l'ala destra svedese. Questa allora, che era comandata da Sweno, affrontò il nuovo nemico, nel quale gli esperti soldati svedesi riconobbero uno squadrone di ussari. Lo squadrone era comandato da un cavaliere che cavalcava un cavallo grigio pomellato, il quale portava una penna d'airone sul berretto. Egli era perfettamente visibile perchè cavalcava di fianco ai soldati.
— Charnyetski! Charnyetski! — si gridò fra i ranghi svedesi.
Sweno alzò gli occhi al cielo con sguardo disperato, poscia spronò il suo cavallo e mosse innanzi di gran carriera seguito dai suoi uomini.
Charnyetski avanzò parimenti con i suoi ussari, ma mentre questi si erano slanciati innanzi egli si volse e tornò indietro solo.
Allora si vide uscire dalla foresta un terzo squadrone; e dopo il terzo; un quarto. Charnyetski avanzò di nuovo e col suo bastone indicò ad ognuno il punto dove doveva attaccare il nemico.
Alla fine, quando ebbe preso posto il quarto squadrone, egli vi si pose alla testa e con esso si slanciò a sua volta nel combattimento.
Ma gli ussari avevano già forzato l'ala destra a indietreggiare, ed ora finivano di sbaragliarla.
Kanneberg si persuase che era caduto in un'imboscata, e che aveva condotto il proprio distaccamento al macello. Non si trattava ora più della vittoria, ma di salvare almeno il maggior numero d'uomini possibile; perciò diede ordine che si suonasse la ritirata. Gli Svedesi allora si precipitarono indietro per quella medesima strada donde erano venuti, ma gli uomini di Charnyetski li inseguirono accanitamente.
La strada verso Vyelki Ochi era letteralmente coperta di cadaveri svedesi, ma la sanguinosa caccia non era ancora finita. I cavalli estenuati degli Svedesi cominciarono a rallentare la corsa, ed allora la caccia si tramutò in una carneficina spaventevole.
I Polacchi menavano sciabolate senza misericordia, in maniera che nessuno potesse ritornare a portar al Re di Svezia la notizia della disfatta. Volodyovski era all'avanguardia con lo squadrone di Lauda. Era egli quel piccolo cavaliere apparso pel primo con pochi uomini come un'esca per attirare il nemico.
Il valoroso maggiore Sweno raccolse intorno a sè alcuni soldati onde tentare, con sacrificio della propria vita, di frenare la furia dei Polacchi. Essi volsero i loro cavalli onde far fronte agli inseguitori, tenendo in mano i loro stocchi. Volodyovski, vedendo ciò, non esitò un momento, spronò il cavallo e piombò in mezzo a loro. In un batter d'occhio più di dieci stocchi presero di mira il suo petto, ma in quel momento accorsero al suo fianco Pan Giovanni, Pan Stanislao, Yuzva Butrym, Zagloba e Roh Kovalski, i quali sparsero in quel manipolo di valorosi la confusione e la morte. Zagloba, mandando un grido di gioia, lasciò andare un terribile fendente sul capo di Sweno, che cadde battendo la fronte sulla testa del cavallo. A tal vista tutti gli altri Svedesi si diedero alla fuga. Volodyovski, Yuzva Butrym, Pan Giovanni, Pan Stanislao, presero ad inseguirli, e li passarono a fil di spada prima che si fossero allontanati di un centinaio di passi.
Di un migliaio di uomini scelti che si trovavano poche ore prima sotto il comando di Kanneborg, non ne rimanevano più che un centinaio, tutti gli altri erano caduti.
Finalmente si trovarono fuori della foresta. Le torri di Yaroslav si vedevano spiccare chiaramente sul fondo azzurro del cielo. Qui i fuggitivi risorsero alla speranza, sapendo che ad Yaroslav eravi il Re con tutte le sue forze, il quale avrebbe potuto accorrere in loro aiuto. Non rammentavano che subito dopo il loro passaggio erano state tolte le tavole del ponte per collocarvene altre più solide, per il passaggio dei cannoni.
Sia che Charnyetski lo avesse saputo per mezzo di spie o che desiderasse mostrarsi a bella posta al Re di Svezia e fare a pezzi sotto i suoi occhi l'ultimo avanzo di quello sfortunato distaccamento, il fatto si è che, non solo non trattenne l'inseguimento, ma si slanciò innanzi egli stesso collo squadrone di Shemberk.
Le grida dei fuggiaschi e degli inseguitori giunsero all'orecchio delle truppe che si trovavano nel campo svedese. Una moltitudine di soldati ed ufficiali corsero fuori della città per vedere cosa succedeva al di là del fiume.
— È il distaccamento di Kanneberg! — gridarono migliaia di voci — che ritorna decimato.
In quel momento veniva il Re, con Wittemberg, Forgell, Miller ed altri generali.
Il Re si fece pallido come un morto.
— Per le piaghe di Cristo, il ponte non è terminato! — gridò Wittemberg — il nemico farà a pezzi anche l'ultimo di quegli uomini.
Il Re gettò uno sguardo disperato sul fiume e comprese che era impossibile portare aiuto a quei disgraziati.
Intanto i Polacchi, avvicinandosi sempre più alla riva, trucidavano i miseri avanzi della cavalleria di Kanneberg. Tutto l'esercito svedese stava schierato sulla riva opposta del fiume, contemplando come gli spettatori degli antichi circhi di Roma quell'orribile spettacolo, con la disperazione nell'anima. Quei mille uomini che Kanneberg aveva condotti con sè, erano l'orgoglio dell'esercito svedese e si erano coperti di gloria Dio sa in quante battaglie. I terribili cavalieri polacchi scorrazzavano come il turbine che lascia dietro di sè la distruzione e la morte.
Ma fra tutti il piccolo cavaliere era il più terribile; l'esercito svedese lo seguiva con gli occhi compreso d'orrore. Alla fine egli vide Kanneberg, che più di dieci uomini inseguivano. Il piccolo cavaliere gridò a loro che lo lasciassero e attaccò egli stesso lo Svedese.
I soldati che stavano sull'altra riva trattenevano il respiro. Il Re si era spinto innanzi a tutti sulla riva del fiume, e guardava col cuore anelante, invaso ad un tempo da timore e da speranza, perchè Kanneberg era uno spadaccino di prima forza.
— Se mi riesce di uccidere questo diavolo incarnato, — diceva Kanneberg fra sè, — potrò forse salvare la mia vita e coprirmi ancora di gloria. In caso contrario, se anche Dio volesse farmi giungere miracolosamente sull'altra riva, non potrei più guardare uno Svedese negli occhi.
Detto questo fra sè si volse e si slanciò senz'altro come un fulmine sul piccolo cavaliere. Egli aveva l'intenzione d'immergere la spada fino all'elsa nel fianco dell'avversario durante la corsa, ma comprese immediatamente che, quantunque maestro, aveva trovato un uomo più maestro di lui. La sua spada scivolò sul filo della sciabola di Volodyovski, il quale gli menò un terribile colpo, fortunatamente in quel momento i loro cavalli presero la corsa in direzione opposta, altrimenti Kanneberg sarebbe rimasto ucciso sul colpo. Poco dopo cavalcarono di nuovo l'uno verso l'altro ma con minor furia, desiderando combattere a seconda delle regole della scherma. Kanneberg conosceva un colpo infallibile che gli era stato insegnato da un Fiorentino e si teneva quasi sicuro di colpire mortalmente il suo avversario.
Gli si avvicinò adunque con baldanza frenando sempre più il suo cavallo.
— Egli vuol uccidermi con un sol colpo — pensò Pan Michele — ma io userò quel tal mulinello che ho inventato a Lubni.
E senz'altro spronò il cavallo e si avventò su Kanneberg.
Questi, preparato all'attacco, si trasse un poco indietro onde portare il suo famoso colpo, ma nel medesimo istante la sciabola di Volodyovski roteò nell'aria e si abbassò con rapidità fulminea sulla testa di Kanneberg.
La spada cadde dalle mani dell'infelice ed egli spirò tosto, ma prima che cadesse da cavallo, Volodyovski gli si avvicinò e sostenne fra le sue braccia il valoroso colonnello.
Gli Svedesi, spettatori della pugna, emisero un urlo terribile, mentre gli ufficiali polacchi, con Zagloba alla testa, si avanzavano a spron battuto per congratularsi con Voloyovski che tutti guardavano con ammirazione.