IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Nella lettera diretta da Pan Sapyeha a Charnyetski, il Capitano generale lo pregava di rimandargli lo squadrone di Lauda che apparteneva all'esercito della Lituania. Charnyetski avrebbe potuto non accogliere questa preghiera, ma benchè gli dispiacesse di separarsi da Pan Michele e dai suoi prodi camerati, pure non volle trattenerli presso di sè ed impartì loro l'ordine di mettersi in marcia per ritornare sotto il comando del Voivoda di Vilna.
Quando il vecchio Zagloba si trovò dinanzi a Pan Sapyeha non rispose ai suoi festosi saluti, ma lo guardò come un giudice severo, e gli rivolse degli acerbi rimproveri perchè si era lasciato sfuggire il Re di Svezia.
Il Capitano generale lo ascoltò per breve tratto, ma finalmente esclamò:
— Voi dimenticate i servigi da me resi alla patria, per una sconfitta che mi è toccata e che fu tale specialmente per colpa della milizia generale. Dicono che io ho trascurato il mio dovere per banchettare e divertirmi, e non pensano che la Repubblica intera non ha saputo tener fronte agli Svedesi.
Zagloba rimase commosso da queste parole e rispose:
— Tale è la nostra abitudine di gettare sempre il biasimo sul duce. Io non sono di quelli che dicono male dei banchetti perchè anche il divertimento è necessario. Pan Charnyetski è un gran guerriero; ma, secondo me, ha un difetto, cioè che alle sue truppe, non dà per colazione, pranzo e cena, nient'altro che carne svedese.
— Charnyetski, era molto adirato contro di me?
— Oh, non molto. In principio fece il viso arcigno, ma poi disse: — Fu la volontà di Dio, ogni generale può perdere una battaglia.
— Pan Charnyetski è un uomo raro ed io darei il mio sangue per lui! — rispose Sapyeha. — Chiunque altro mi avrebbe sprezzato, tanto per esaltare sè stesso.
— Io non dirò che questo contro di lui: che io sono troppo vecchio per certi servizi ch'egli esige dai soldati.
— Dunque voi siete lieto di ritornare con me?
— Contento e non contento, perchè ho sentito parlare di banchetti ma non trovo nulla da mangiare.
— Siederemo a tavola a momenti. Ma Charnyetski che cosa pensa di fare?
— Egli si metterà in marcia per la Grande Polonia; di là muoverà contro Steinbock, poi si recherà in Prussia sperando di trovare fanteria e cannoni a Danziga.
— I cittadini di Danziga son gente valorosa e offrono uno splendido esempio a tutta la Repubblica. Noi incontreremo Charnyetski a Varsavia, perchè io marcerò a quella volta fermandomi prima a Lublino.
— Dunque gli Svedesi hanno di nuovo assediato Lublino?
— Sì, è venuta una deputazione, e presto comparirà dinanzi a me per chiedermi protezione.
— Vostra Grazia permetta a me di riceverla. Io prometterò loro di aiutarli subito.
— Ve lo permetto volentieri, — replicò il Capitano generale, — e tanto più volontieri, perchè nel frattempo vado a scrivere alcune lettere. Così dicendo se ne andò e poco dopo venne introdotta la deputazione. Zagloba la ricevette con non comune dignità e serietà. Egli promise aiuto, a condizione che fornissero vettovaglie alle truppe, e specialmente bevande d'ogni specie.
I deputati erano lieti, perchè le truppe dovevano marciare verso Lublino la stessa notte, e perciò concessero tutto quanto si chiedeva.
Il Capitano generale si mostrò molto attivo, trattandosi, per lui, di cancellare con qualche militare successo la memoria della disfatta di Sandomir.
L'assedio era incominciato, ma seguiva con lentezza. Durante questo tempo Kmita prendeva lezioni di scherma da Volodyovski e faceva grandi progressi. Pan Michele, sapendo che si trattava di combattere contro Bogoslavio, gli apprese tutti i suoi colpi segreti.
La primavera aveva reso la forza e la salute a Pan Andrea. Le sue ferite si cicatrizzarono, egli cessò di sputar sangue e risorse a nuova vita. Dapprima gli uomini di Lauda lo guardavano fremendo, ma nessuno osò provocarlo, perchè Volodyovski li teneva sotto la sua mano di ferro; e poscia, considerando le sue valorose gesta, finirono per riconciliarsi completamente con lui.
Alla fine la guarnigione svedese di Lublino si arrese, e allora Sapyeha condusse i suoi squadroni verso Varsavia. Per via ebbero notizia che lo stesso Giovanni Casimiro insieme ai Capitani generali e con molte truppe si avanzava ad aiutarli. Vennero pure informati che Charnyetski marciava dalla Grande Polonia verso la capitale.
La guerra, scoppiata nell'intero paese, si concentrava ora presso Varsavia.
Il sole si avvicinava al tramonto, quando lo squadrone di Lauda, che marciava in testa, cominciò a scorgere le torri della capitale. A quella vista si levò un immenso grido di gioia:
Pan Sapyeha che cavalcava alla testa della retroguardia, si avanzò al galoppo udendo quelle grida, ed esclamò con voce tonante:
— Signori! noi giungiamo i primi. Spetterà a noi l'onore di cacciare dalla capitale gli Svedesi.
E sollevando il bastone del comando si slanciò innanzi, gridando con giovanile entusiasmo: — Seguitemi!
Vicino a Praga il Voivoda di Vilna comandò di rallentare la marcia.
Le torri della superba città spiccavano sul fondo azzurro del cielo. I tetti rossi della vecchia Città fiammeggiavano rischiarati dagli ultimi raggi del sole.
In quel momento il rombo dei cannoni sulle mura di Varsavia e il suono prolungato delle trombe annunziò alla guarnigione della capitale l'avvicinarsi del nemico.
Anche Sapyeha fece sparare i moschetti, per infondere coraggio agli abitanti, e in quella stessa notte fece passare ai suoi squadroni la Vistola. Per tal modo gli Svedesi si trovarono circondati ed era tagliata loro ogni comunicazione: ma Sapyeha non poteva far altro che attendere l'arrivo di Charnyetski da una parte, e del Re Giovanni Casimiro dall'altra con i Capitani generali del Regno; vegliando intanto onde non penetrasse nella città nessun rinforzo pel nemico.
Da parte di Charnyetski non giunsero notizie consolanti. Egli diceva di non poter prendere parte all'assedio, essendo i suoi uomini troppo esausti. Non aveva ottenuto fanteria dalla Pomerania, nè aveva potuto avanzare su Danziga: prometteva di tenere tutto al più in iscacco il rimanente delle forze svedesi, che sotto il comando del fratello del Re, di Radzivill e di Douglas, stazionavano a Narev; e che apparentemente si preparavano ad accorrere in aiuto degli assediati.
Gli Svedesi si erano preparati alla difesa con la loro solita abilità. Avevano incendiato Praga prima dell'arrivo di Sapyeha. Avevano cominciato a lanciar bombe nei sobborghi di Cracovia, e di Novy Sviat, e contro la chiesa di San Giorgio, e della Vergine Maria. Le bombe avevano appiccato il fuoco in molti punti avvolgendo la città in una nube di denso fumo. Fuori delle mura vagava la popolazione, senza tetto, senza pane; le donne circondavano il campo di Sapyeha chiedendo con grida e lamenti la carità: i fanciulli morivan di fame tra le braccia delle loro povere madri; i sobborghi erano davvero diventati una valle di lagrime e di miseria.
Sapyeha, non avendo nè fanteria nè cannoni, aspettava l'arrivo del Re. Intanto aiutava i poveri, mandandoli nei luoghi meno danneggiati. Egli rimase non poco turbato, constatando che gli abili ingegneri svedesi avevano convertito Varsavia in una fortezza di prim'ordine.
Per scacciare i tristi pensieri dava ogni giorno delle feste, durante le quali le coppe circolavano tanto allegramente, che talvolta quei prodi guerrieri dimenticavano persino il servizio.
Sapyeha suppliva alla negligenza della notte, raddoppiando la sua attività di giorno. Spediva corrispondenze, ispezionava in persona gli avamposti, esaminava gl'informatori catturati: ma all'apparire della prima stella si abbandonava alla pazza gioia, e non pensava ad altro che a banchettare e divertirsi.
In conseguenza di ciò alcuni ufficiali, dopo aver fatto il loro dovere di giorno, lo trascuravano di notte.
Gli Svedesi non tardarono a trarre profitto da questa circostanza. Due giorni prima dell'arrivo del Re, Sapyeha decise di dare una splendida festa, onde sfogare la gioia che provava pel prossimo arrivo delle truppe, con le quali si sarebbe subito cominciato l'assedio.
A Kmita, a Zagloba, a Pan Giovanni e Stanislao e a Kharlamp, furono mandati ordini speciali che non mancassero assolutamente, perchè il Capitano generale desiderava onorarli particolarmente pei loro grandi servigi.
Pan Andrea era appena montato a cavallo per partire col suo distaccamento onde fare una ricognizione, sicchè l'ufficiale d'ordinanza lo trovò con i Tartari fuori del campo.
— Voi, non potete mostrare irriverenza al Capitano generale, e ricambiare la sua benevolenza con uno sgarbo — gli disse l'ufficiale.
Kmita smontò e si recò a domandar consiglio ai suoi
— Un ordine è un ordine — disse Zagloba — e chi è soldato deve ubbidire.
— Rispondete che verrò, — disse Kmita all'ufficiale di ordinanza.
L'ufficiale se ne andò. I Tartari partirono sotto il comando di Akbah Ulan, e Kmita si vestì di malavoglia, dicendo:
— Oggi vi è una festa in onore di Sua Maestà: domani ve ne sarà una in onore dei Capitani generali, e così via di seguito.
— Lasciate che venga Sua Maestà, e le feste finiranno, — rispose Volodyovski; — essendochè, quantunque il nostro Re ami divertirsi, pure il servizio procederà più diligentemente, poichè ognuno, e più d'ogni altro Pan Sapyeha, deve mostrare il proprio zelo.
Non appena Kmita fu pronto, tutti gli ufficiali montarono a cavallo per recarsi al quartier generale che si trovava precisamente dal lato opposto della città.
Sapyeha ricevette gli ufficiali come al solito a braccia aperte, e siccome era di buon umore si mise subito a scherzare con Zagloba, pel quale aveva una tale debolezza, che, qualunque cosa gli dicesse, non si adirava mai.
Principiò la festa, e mentre appunto l'allegria era al colmo, si udì all'improvviso un grido così forte che i convitati nella sala rimasero come paralizzati.
— Che avviene? — chiese alfine un colonnello.
Mentre faceva questa domanda, si udì tuonare il cannone e sparare i moschetti.
— Una sortita! — gridò Volodyovski, — il nemico si avanza.
— A cavallo! a cavallo! — urlarono cento voci.
Tutti si precipitarono verso la porta; gli ufficiali uscirono nel cortile chiamando i servi e chiedendo i loro cavalli.
Ma nella confusione non era facile che ciascheduno trovasse il suo. Intanto di là dal cortile molte voci spaventate cominciarono a gridare nell'oscurità:
— Il nemico si avanza! il nemico viene!
Tutti corsero a briglia sciolta verso i loro squadroni, arrischiando di rompersi il collo nell'oscurità. L'allarme si sparse per tutto il campo, la confusione era indescrivibile.
La sortita degli Svedesi aveva assalito con grande impeto gli uomini di Kotvich, il quale essendo fortunatamente ammalato, non si era recato al banchetto, e quindi potè opporre una certa resistenza. Ma essendo stato attaccato da forze molto superiori fu costretto a ritirarsi. Oskyerko venne per primo in suo aiuto con i suoi dragoni, però il suo soccorso giovò poco, poichè anch'egli non potè resistere a lungo e dovette parimenti ritirarsi, lasciando il terreno coperto di feriti e di morti.
Intanto gli Svedesi avanzavano come un torrente verso il quartiere del Capitano generale. Dalla città uscivano sempre nuovi reggimenti che muovevano verso il campo.
Volodyovski slanciandosi fuori del quartier generale, incontrava a metà strada il suo squadrone, ch'era sempre pronto, e che marciava verso il luogo da dove giungeva lo strepito del combattimento, guidato da Roh Kovalski, il quale, come Kotvich, non era stato al banchetto semplicemente perchè non era stato invitato. Volodyovski ordinò d'incendiare alcuni granai per illuminare il campo, e si slanciò verso il punto ove ferveva la battaglia. Sulla strada fu raggiunto da Kmita, che conduceva i suoi terribili volontari e quella metà dei Tartari, che non erano partiti con Akbah Ulan, i quali giunsero in tempo per salvare Kovich ed Oskyerko da un assoluto disastro.
Alfine arrivò il Capitano generale con tutte le truppe. La battaglia s'impegnò allora con selvaggio furore su tutta la linea da Mokotov sino alla Vistola.
Ad un tratto apparve sul campo di battaglia Akbah Ulan ed avvicinandosi al Capitano generale:
— Effendi! — gridò — un corpo di cavalleria si avanza da Bibitsi verso la città, scortando molti carri. Essi vogliono entrare in città.
Sapyeha comprese tosto che cosa significava quella sortita nella direzione di Mokotov.
— Corri da Volodyovski! — comandò al Tartaro, — digli che con lo squadrone di Lauda, di Kmita e Vankovich sbarri a coloro la strada. Io manderò subito dei rinforzi.
Akbah Ulan spronò il cavallo e dopo pochi minuti trasmetteva a Volodyovski l'ordine di Pan Sapyeha.
Volodyovski, eseguì immediatamente l'ordine ricevuto.
Kmita con i suoi Tartari e Vankovich col suo squadrone lo seguirono.
Ma arrivarono troppo tardi. Quasi duecento carri erano già entrati in città: un distaccamento di cavalleria che lo scortava era giunto nel raggio della fortezza. La sola retroguardia, composta di circa cento uomini, non era ancora giunta al coperto dell'artiglieria. L'ufficiale che cavalcava in coda li istigava alla corsa.
Appena Kmita vide quegli uomini alla luce dell'incendio, mandò un grido così terribile che i cavalli al suo lato si spaventarono; egli riconobbe la cavalleria di Bogoslavio, quella medesima che era passata sopra di lui e sopra i suoi Tartari a Yanov.
Senza pensar ad altro, si precipitò come un ossesso su di loro, oltrepassò i suoi uomini e piombò come un pazzo in mezzo ai loro ranghi. Fortunatamente i due Kyemlich, Cosimo e Damiano, si erano slanciati innanzi insieme a lui.
Il cannone cominciò a tuonare dalle mura; ma il corpo principale, sacrificando la retroguardia entrò in città. Allora gli uomini di Lauda e le forze di Kmita circondarono la retroguardia come in un cerchio di ferro e cominciarono a massacrarla.
In quel momento si fece sentire la voce squillante di Volodyovski che gridava:
— Fermi! prendeteli vivi.
— Prendeteli vivi! — ripetè Kmita.
Lo strepito delle armi cessò. I Tartari legarono quegli uomini in un batter d'occhio, quindi gli squadroni batterono in ritirata con i prigionieri.
Kmita, giunto davanti ai granai ardenti, guardò attentamente le faccie dei prigionieri per vedere se vi fosse fra essi Bogoslavio.
Ad un tratto sorse una voce frammezzo ai Tartari, che gridò:
— Pan Kmita! Colonnello! Liberate una vecchia conoscenza! Comandate che mi sciolgono le mani. Rimango prigioniero sulla parola.
Hassling era uno Scozzese, già ufficiale nella cavalleria del Voivoda di Vilna, che Kmita aveva conosciuto a Kyedani ed amato molto in quel tempo.
— Lascia libero il prigioniero! — gridò Kmita al Tartaro che lo trascinava con sè — e scendi da cavallo!
Hassling salì gemendo sull'alta sella. Kmita gli prese la mano e gliela strinse come se volesse stritolarla; indi cominciò a domandargli insistentemente:
— Donde venite? Ditemi presto, donde venite? Per amor di Dio, parlate presto!
— Da Taurogi — rispose l'ufficiale,
Kmita lo strinse ancor di più.
— Sì.
— E... che cos'ha fatto il principe con lei?
— Nulla. Non è riuscito.
Stettero un momento in silenzio. Poi Kmita si tolse il berretto, si portò la mano alla fronte e disse:
— Sono stato colpito nella battaglia, perdo sangue, mi sento svenire.