Henryk Sienkiewicz
Il diluvio

PARTE SECONDA

CAPITOLO XXXI.

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CAPITOLO XXXI.

Il primo Luglio, fra Povanski e il paese chiamato in seguito Marymont, si celebrò una gran Messa di campo, a cui assistettero diecimila uomini. Il Re fece voto, che in caso di vittoria avrebbe eretto una chiesa dedicata alla Vergine. I dignitari, i Capitani generali, i cavalieri fecero pure dei voti; e perfino i semplici soldati, ciascuno secondo i propri mezzi; perchè quello doveva essere l'assalto finale e decisivo.

Tutte le truppe erano pronte a precipitarsi nelle breccie aperte dai cannoni di grosso calibro, specialmente da quelli di Zamoyski. Non si aspettava che la risposta definitiva di Wittemberg alla lettera che il gran cancelliere Korytsinski gli aveva spedita. Quando verso mezzogiorno l'ufficiale ritornò con un rifiuto, allora il sinistro clangore delle trombe risuonò tutt'intorno alla città e principiò l'assalto generale.

L'esercito del Regno, guidato dai suoi capi, si slanciò verso le mura come un furioso torrente, ma vennero accolti con una pioggia di palle. Gli uomini avanzarono nonostante senza curarsi delle numerose vittime che la morte mieteva intorno a loro. Ciascuno assaliva furiosamente ciò che gli era più vicino. La fanteria svedese fu alfine sbaragliata e distrutta, ed allora cominciò quel famoso assalto al palazzo Kazanovski ed alla chiesa dei Bernardini che doveva decidere in gran parte l'esito della giornata.

In quel punto comandava Zagloba; imperocchè egli erasi ingannato il giorno innanzi pensando che il Re lo avesse chiamato per trattenerlo presso di .

Migliaia d'uomini armati di falci, di picconi, di ascie, si scagliarono contro la porta del palazzo tentando invano di atterrarla.

La difesa era non meno ostinata dell'attacco. Dai più alti piani delle case piovevano le palle e la pece infiammata. Ad un tratto Zagloba gridò con voce così potente che dominò l'infernale tumulto: — Ponete una scatola di polvere sotto la porta!

Quest'ordine fu eseguito immediatamente. Zagloba comandò che si praticasse un'apertura di tali dimensioni che la scatola sola vi potesse passare. Quando vi fu collocata, Zagloba stesso diede fuoco alla miccia, poi comandò:

Scostatevi! stringetevi contro il muro.

Tutti quelli che si trovavano vicino corsero verso i due lati. Ad un tratto un terribile scoppio scosse l'aria, e dense nubi di fumo s'inalzarono al cielo. Zagloba con i suoi uomini si slanciò innanzi. L'esplosione non aveva mandato a pezzi la porta, ma aveva scosso i cardini e strappato alcune fortissime tavole, già in parte infrante.

Pali appuntati, ascie, falci, cominciarono a lavorare con inaudita violenza; si udì uno schianto e metà della porta precipitò lasciando libero il passo; il palazzo era preso.

Nell'interno del medesimo s'impegnò una terribile zuffa ad armi bianche. Il sangue scorreva a rivi; tutti gli Svedesi furono fatti a pezzi senza misericordia.

Il palazzo era in mano ai Polacchi, ma la chiesa dei Bernardini resisteva ancora, e gli Svedesi che la difendevano non accennavano ad arrendersi.

Zagloba fece collocare dei piccoli cannoni alle finestre del palazzo che prospettavano la chiesa ed aprì un fuoco micidiale.

Gli Svedesi furono presi da grande spavento quando i muri della chiesa cominciarono d'un tratto a tremare. Le macerie cadevano su di loro da tutte le parti. Un nembo di polvere si alzò nella casa di Dio, e mescolandosi al fumo minacciò di soffocare quella gente spossata.

Issate la bandiera bianca! — gridarono disperatamente alcune centinaia di voci.

Erskine, che comandava dentro, innalzò egli stesso la bandiera. In quel momento gli assedianti forzarono l'entrata, e nel tempio consacrato al Signore avvenne un massacro orribile.

Fermatevi! — comandò il Voivoda di Podlyasye, ma i soldati non l'udirono e si avanzarono furibondi.

In quell'istante una bandiera bianca apparve pure sulla Porta Cracovia.

Charnyetski, dopo aver forzato il passo attraverso una breccia, si era slanciato come un uragano nell'interno della fortezza. Wittemberg vide che ogni ulteriore resistenza era inutile. Gli Svedesi avrebbero potuto difendersi ancora alle case della Vecchia Città e della Nuova Città; ma gli abitanti avevano già preso le armi, e la difesa sarebbe terminata per gli Svedesi con una carneficina inutile.

I trombettieri quindi cominciarono a suonare ed a spiegare bandiere bianche. Vedendo ciò i comandanti polacchi arrestarono l'azione. Il generale Lövenhaupt, seguito da molti colonnelli, uscì dalla porta della Città Nuova e si presentò al Re.

Giovanni Casimiro aveva ora in mano la città; ansioso di porre un termine allo spargimento di sangue da ambo le parti, egli dettò a Wittemberg le condizioni della resa.

La città doveva arrendersi con tutto il bottino che conteneva. Ogni Svedese poteva prender seco solamente quello che s'era portato dalla Svezia. La guarnigione doveva uscire dalla città con l'onore delle armi conducendo via i feriti e gli ammalati.

Ai Polacchi, che rimanevano ancora al servizio svedese, fu concessa amnistia, nella persuasione che non tutti servivano di propria volontà. Bogoslavio Radzivill soltanto ne era escluso.

Le condizioni furono tosto firmate. Tutte le campane delle chiese annunziarono alla città ed al mondo che la capitale era passata un'altra volta nelle mani del suo legittimo Re.

Giovanni Casimiro assistette l'indomani insieme al suo Stato Maggiore ed all'esercito, all'uscita degli Svedesi dalla città. Quando comparve il vecchio maresciallo Wittemberg si sollevò ad un tratto un grande tumulto e tutta la milizia generale, circa ventimila uomini, sguainarono le sciabole le cui lame scintillarono al sole, e da quella enorme massa si elevò un urlo terribile:

Morte a Wittemberg!

— Che significa ciò? — chiese il Re impallidendo. Nessuno rispose. Ma Volodyovski, che stava vicino a Sapyeha, esclamò:

— Quest'è opera di Pan Zagloba.

Volodyovski aveva indovinato. Non appena le condizioni della resa furono pubblicate e pervennero all'orecchio di Zagloba, il vecchio nobile fu preso da tal rabbia, che per alcun tempo rimase muto. Tornato in , il primo suo atto fu di presentarsi tra le file della milizia generale a sollevare gli animi dei nobili che ascoltarono le sue parole.

Wittemberg comprese che cosa succedeva. Divenne pallido come un morto; un sudor freddo gli colava dalla fronte e, oh meraviglia! quel maresciallo che fino allora non aveva fatto che minacciare il mondo intero, quel conquistatore di tante armate, quell'espugnatore di tante città, quel vecchio soldato, era adesso così terribilmente spaventato da quell'urlante massa, che perdette ogni presenza di spirito.

Intanto la turba aizzata si avanzava minacciosa, e forse non solo Wittemberg, ma tutti i generali sarebbero stati barbaramente trucidati, se in quel momento Volodyovski con i suoi uomini non si fosse precipitato innanzi per difenderli.

Voynillovich corse anch'egli in aiuto di Volodyovski; dopo di lui venne Vilchovski con un reggimento del Re, e tutti uniti, difendendosi incessantemente, condussero il maresciallo e tutto lo Stato Maggiore alla presenza di Giovanni Casimiro.

Invece di cessare il tumulto crebbe. Parve anzi, dopo qualche tempo, che la moltitudine volesse tentare di impadronirsi dei generali svedesi benchè questi si trovassero dinanzi al Re.

Wittemberg si riebbe; ma la paura, non lo lasciò punto. Egli scese da cavallo e si prostrò ai piedi di Giovanni Casimiro, gridando:

Maestà, i patti sono firmati. Salvatemi! salvatemi! Abbiate pietà di noi! Non ci lasciate uccidere!

In presenza di tale avvilimento il Re distolse con avversione lo sguardo, e disse:

Maresciallo, calmatevi.

Se non che anch'egli era pallidissimo e spaventato, non sapendo che cosa fare. Guardò Charnyetski, ma Charnyetski non faceva che tormentarsi la barba, tanta era la sua collera per la disubbidienza della milizia generale. Allora il cancelliere Koytsinski si fece avanti e disse:

Maestà, noi dobbiamo mantenere i patti.

— Certamente — rispose il Re — ma che cosa dobbiamo fare per sottrarli a questi forsennati?

— Se noi li mandiamo in Prussia, cinquantamila uomini li seguiranno e li faranno a pezzi prima che arrivino a Pultusk, a meno che noi li facciamo scortare da tutto l'esercito regolare, cosa che non possiamo fare. Udite, Maestà, come urla la milizia contro Wittemberg? È necessario anzitutto salvaguardare la sua persona, e quindi mandarli via quando il tumulto sarà sedato.

— Ma dove dobbiamo lasciarli nel frattempo? Noi non possiamo tenerli qui, perchè qui scoppierebbe una guerra civiledisse il Voivoda di Rus.

Qui intervenne in buon punto Pan Zamoyski, e, protendendo le labbra, disse colla sua enfasi abituale:

Maestà, io li condurrò a Zamost; staranno colà finchè sia ritornata la calma. Difenderò Wittemberg dai nobili. Che si provino a toccarlo!

— Ma come difendere il maresciallo per istrada? — domandò il cancelliere.

— Non ho io fanteria e cannoni? Venga qualcheduno a toglierlo a Zamoyski.

Il Re acconsentì ed il cancelliere mandò parecchi ufficiali a dichiarare ai nobili che Wittemberg non partirebbe, ma sarebbe stato mandato a Zamost. Il tumulto, veramente, non si calmò subito; ma la notizia valse a mitigarlo alquanto. Prima di notte l'attenzione era diretta altrove. Le truppe cominciarono ad entrare in città, e la vista della ricuperata capitale colmò i cuori di giubilo.

Il Re era parimenti contentissimo, sebbene il pensiero di non poter osservare le condizioni stipulate e l'ultima disubbedienza della milizia generale lo turbassero non poco.

— L'uomo che ha cagionato questo disordine meriterebbe di essere trascinato a coda di cavallo senza verun riguardo ai servigi resi, — diss'egli.

Furono dati i più severi ordini che si cercasse Zagloba, perchè non era un segreto per nessuno che la ribellione era stata suscitata da lui; ma Zagloba era scomparso.

Ma una settimana dopo, mentre il cuore del monarca traboccava di gioia, egli disse alla fine del pranzo:

Annunciate a Pan Zagloba che non ha bisogno di celarsi più a lungo, perchè noi gli abbiamo perdonato. Chiunque volesse in questa Repubblica fare giustizia senza misericordia, sarebbe costretto di avere un'ascia nel petto, invece di un cuore.

Nel dire così, il Re pensava più a Babinich che non a Zagloba; e aveva in mente Babinich, perchè il giovane si era prostrato il giorno prima a' suoi piedi, supplicandolo che non gli vietasse d'andare in Lituania, dove voleva dare impulso alla guerra e attaccare gli Svedesi come aveva attaccato Hovanski, ed egli gli aveva accordato ciò che chiedeva.

Kmita, senza indugio, prese la via della Lituania. Suba Gazi, vinto da un vistoso compenso in denaro, gli cedette cinquecento Tartari; altri mille e cinquecento uomini scelti marciarono con lui; quindi una forza con la quale poteva affrontare il nemico. E il cuore del giovane cavaliere sobbalzava dalla contentezza, e dal desiderio di battaglie e di gesta militari. La speranza della gloria gli sorrideva; gli pareva già di udire tutta la Lituania ripetere il suo nome con meraviglia ed orgoglio. Ma specialmente udiva ripeterlo da una bocca adorata.


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