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Venne il nuovo anno 1655. Il gennaio era rigido ma asciutto; un inverno dei più crudi aveva coperto la sacra terra di Jmud d'un candido manto. La neve giaceva alta sul terreno, i rami degli alberi della foresta cedevano e si schiantavano sotto il suo peso: di giorno la sua candida bianchezza, irradiata dallo splendore del sole, abbagliava la vista, e la notte al chiarore della luna, scintillava come uno specchio sterminato. Gli animali selvatici si avvicinavano alle dimore degli uomini, ed i poveri passeri venivano a picchiare col loro becco ai vetri delle finestre, coperti di ghiacciuoli e di fiori di neve.
Una sera Panna Alessandra stava seduta nella camera della servitù in compagnia delle sue fantesche. Era un'antica usanza dei Billevich, ogni qual volta non vi erano ospiti nel castello, di passare le serate con la servitù, cantando inni sacri ed edificando le loro menti semplici col buon esempio. Panna Alessandra seguiva quell'usanza tanto più facilmente, in quanto che tra le sue ancelle eravene qualcuna di nobile casato, rimaste orfane povere e perciò costrette a servire. Esse attendevano ad ogni sorta di lavori, anche ai più faticosi, ed erano destinate esclusivamente al servizio della padrona: erano trattate con buone maniere e ricevevano un compenso migliore pii quello delle semplici fantesche. Fra queste eranvi delle rozze contadine, le quali si distinguevano specialmente per il loro linguaggio poichè non conoscevano la lingua polacca.
Panna Alessandra e la sua parente Panna Kulvyets, sedevano in mezzo alla stanza, e le fanciulle intorno a loro sopra delle panche, tutte occupate a filare. In un grande camino ardevano due ceppi di pino. Ogni volta che la fiamma divampava con maggior forza, si vedevano le pareti di legno annerite dal tempo, ed il soffitto assai basso appoggiato sopra travi incrociate. Addossati alle oscure pareti vi erano degli scaffali di quercia, nei quali luccicavano piatti di stagno grandi e piccoli. Presso la porta un uomo di Jmud, dall'aspetto selvaggio, dalla chioma irsuta, girava una macina facendo un gran rumore.
Panna Alessandra continuava a far scorrere tacitamente fra le dita i grani del suo rosario. Le ragazze seguitavano a filare senza aprir bocca.
La luce del focolare illuminava le loro facce giovanili e rubiconde. Esse filavano alacremente, incitate al lavoro dal severo sguardo di Panna Kulvyets. Talvolta si guardavano di sottecchi, e poi volgevano gli occhi verso Panna Alessandra, come attendendo ch'ella dicesse all'uomo di smettere la macinatura ed intonasse l'inno. Ma la donzella non si moveva ed esse continuavano a filare in silenzio.
L'uomo che muoveva la macina sospese ad un tratto il suo lavoro. ed osservandola, ripeteva: — È guasta!
Panna Alessandra sollevò finalmente il capo come eccitata dal silenzio che si era fatto improvvisamente. La vampa del focolare rischiarò il suo volto ed i suoi occhi azzurri ombreggiati da lunghe ciglia nerissime.
Alessandra era una leggiadra donzella, dalla bionda capigliatura, dalla carnagione bianca, dai lineamenti delicati. Aveva la bellezza del giglio. Gli abiti da lutto aggiungevano dignità alla sua persona. Seduta dinanzi al camino, ella appariva come assorta e rapita in un sogno. Senza dubbio ella meditava sul suo destino poichè la sua sorte stava ora per decidersi. Il testamento di suo nonno le imponeva di diventare la sposa di un uomo che non aveva veduto da dieci anni; e siccome ella ne contava ora quasi venti non le rimaneva che una pallida rimembranza del suo fidanzato. Ricordava un ragazzo impetuoso, il quale, allorchè veniva con suo padre a Vodokty, preferiva aggirarsi pei campi con uno schioppo in ispalla piuttosto di conversare con lei. — Dove sarà? Qual sorta d'uomo sarà ora? — Ecco le domande che si alternavano nella mente della vaga donzella. Ella lo conosceva, è vero, per quanto narrava di lui il defunto ciambellano, che quattr'anni prima della sua morte aveva intrapreso il lungo viaggio sino ad Orsha. Stando a ciò che egli diceva, il giovane Kmita era un cavaliere di gran coraggio ma anche di temperamento assai violento.
Nel contratto di matrimonio dei loro discendenti, concluso fra il vecchio Billevich ed il vecchio Kmita, erasi pattuito, che Kmita figlio doveva recarsi tosto a Vodokty per essere accettato dalla fanciulla; ma una gran guerra scoppiò proprio in quel momento, ed il giovane cavaliere, invece di recarsi dalla donzella, era andato a combattere sui campi di Berestechko. Ferito a Berestechko ritornò a casa; quindi egli assistette il padre ammalato, il quale in breve morì; dopo di che scoppiò un'altra guerra, talchè erano trascorsi quattro anni senza che Kmita avesse potuto presentarsi alla sua fidanzata, ed ormai era già passato del tempo dalla morte del vecchio colonnello, senza che si potessero avere ulteriori notizie del giovane cavaliere.
Si comprende adunque, che se Panna Alessandra appariva meditabonda ne aveva serio motivo, e che il suo cuore, dinanzi ad un ignoto più atto forse ad intimorirla che a lusingarla, doveva palpitare di timore e d'ansietà. Ella non sapeva ancora che cosa fosse l'amore, e la sua anima pura doveva essere più che mai disposta e pronta a rimanere colpita. Bastava una scintilla, per suscitare in quel cuore vergine una fiamma tranquilla, ma viva ed inestinguibile come il sacro fuoco di Lituania.
Intanto la fanciulla cominciò a provare una vaga inquietudine, ora dolce ora penosa. Diverse domande si affacciavano senza posa alla sua mente, ma rimanevano sempre senza risposta o, per meglio dire, la risposta doveva giungere da luoghi ben lontani.
Anzitutto ella si chiedeva, se il giovane l'avrebbe sposata per intimo impulso del cuore, rispondendo allo slancio di lei con pari slancio. I contratti di matrimonio dei figliuoli tra famiglia e famiglia, erano in quei tempi un'usanza comunissima. In caso di morte dei genitori, i figliuoli, fidenti nella divina benedizione, osservavano generalmente il contratto. Anche Panna Alessandra non trovava in tale impegno nulla di strano, ma non sempre la soddisfazione accompagna l'osservanza di un obbligo, e di qui l'ansietà che turbava il cuore e la mente della bionda donzella. — Mi amerà egli? — si chiedeva incessantemente, ed una folla di pensieri sorgevano nella sua mente, e l'attorniavano come uno sciame di uccelli svolazzanti intorno ad un albero isolato nell'immensa pianura. — Chi sei tu? Qual sorta d'uomo sei? Sei tu ancora sulla terra, o dormi forse il sonno eterno nella tomba? Sei tu lungi o vicino a me? — Il cuore della fanciulla era simile ad una porta aperta per accogliere l'ospite desiderato. Il suo pensiero correva involontariamente verso lontane regioni, alle foreste, ai campi coperti di neve, avvolti nelle tenebre della notte. — Vieni, o giovane eroe! — ella esclamava fra sè. — Non vi è nulla di più penoso al mondo che una lunga attesa.
In quel momento, come in risposta alle sue domande, giunse da lontano il suono di una campana. La fanciulla rabbrividì, ma riprendendo tosto la sua presenza di spirito, si sovvenne che quasi ogni sera qualcheduno veniva a Vodokty a prendere medicinali pel giovane colonnello.
Panna Kulvyets la confermò in tale idea, dicendo: — Qualcuno viene da Gashtovt in cerca di erbe.
Il suono irregolare della campana si udiva sempre più distintamente, ma ad un tratto cessò. Qualcuno si era fermato davanti alla porta.
— Va a vedere chi è — disse Panna Kulvyets all'uomo che faceva girare la macchina.
L'uomo uscì dal salotto, ma rientrò quasi subito e disse con tutta flemma — Pan Kmita.
— Il verbo è diventato carne! — esclamò Panna Kulvyets ad alta voce.
Le fantesche balzarono in piedi, il lino e le conocchie caddero al suolo.
Si levò anche Panna Alessandra. Il cuore le batteva come un martello, una vampa di fuoco le imporporò le gote, che dopo un istante si coprirono di un pallore cadaverico. Per nascondere la sua emozione, si voltò verso il camino.
Intanto apparve nel vano della porta una figura alta ed imponente, avvolta in una pelliccia e con la testa coperta da un berretto di pelo. È un giovane che si avanza in mezzo alla stanza, e accorgendosi di essere entrato nella sala delle fantesche, egli esclama con voce sonora e senza scoprirsi il capo.
— Dov'è la vostra padrona?
— Sono io la padrona — replica. Panna Billevich con accento abbastanza chiaro e risoluto.
Allora il nuovo arrivato si tolse il berretto, lo gettò sul pavimento, ed inchinandosi profondamente, disse:
Gli occhi di Panna Alessandra si fissarono per un istante in faccia al giovane e tosto si riabbassarono. Ma quel rapido sguardo le bastò per esaminare il nobile cavaliere che le stava dinanzi.
Un ciuffo di capelli del color delle spiche gli sormontava l'alta fronte, la sua carnagione era bruna: gli occhi cerulei, dallo sguardo franco ed ardito, avevano un'espressione di dolcezza ineffabile; i baffi neri facevano contrasto col colore della capigliatura, il volto splendeva di gaiezza e di gioventù.
Appoggiata la mano sinistra all'anca, egli disse:
— Non sono ancora stato a Lyubich, poichè mi tardava di venire a prostrarmi ai piedi della nobile nipote del defunto ciambellano. Voglia Iddio che sia un vento buono quello che mi ha portato qui direttamente dal campo.
— Sapeste della morte del mio avo? — domandò la fanciulla.
— Non subito: ma piansi a calde lagrime, quando appresi dalla gente venuta da questa regione la morte del mio grande benefattore. Egli era un amico sincero, quasi un fratello del mio povero padre. Senza dubbio voi sapete, che quattro anni fa venne da noi ad Orsha e che noi fummo fidanzati. Mi mostrò il vostro ritratto, ed io rivedevo la vostra immagine di giorno, e di notte nel sonno. Avrei voluto recarmi subito da voi, ma la guerra non è una buona mamma: essa unisce gli uomini, non alle belle fanciulle, ma alla morte.
Questo favellare ardito confuse alquanto Panna Alessandra. Per portare il discorso sopra un altro argomento, ella disse:
— Dunque voi non avete ancora veduto Lyubich?
— Per questo c'è tempo, — rispose Pan Andrea. — È qui l'eredità più desiderata che io voglio avere prima di ogni altra. Ma voi guardate il camino, io non ho finora potuto vedere i vostri occhi. Diamine! Voltatevi e guardiamoci in viso.
Nel dire così, l'ardito soldato afferrò la mano di Olenka2 la quale non era preparata a quella mossa. La donzella si confuse sempre più, ed abbassando le palpebre sugli occhi, rimase muta e come oppressa dalla vergogna.
Alla fine Kmita la lasciò libera e si ritrasse.
— Per Dio! Quale bellezza! — egli esclamò. — Voglio far dire cento messe per l'anima del mio benefattore, perchè egli vi ha data a me. A quando gli sponsali?
— C'è tempo; non sono ancor vostra — disse Olenka.
— Ma voi lo sarete, anche se dovessi bruciare questa casa! Quanto è vero Dio non credevo a quel ritratto, pensavo che voi foste adulata. Ora invece mi accorgo, che il pittore mirò in alto ma non seppe riprodurre alla perfezione la vostra beltà. Mille sferzate a tale artista! Ch'egli vada a dipingere le stufe, non a ritrarre bellezze alla cui vista l'occhio rimane abbagliato. È una vera delizia essere il possessore di una tale eredità.
— Il mio defunto nonno mi disse che voi siete alquanto impetuoso.
— Tutti lo sono da noi a Smolensko; noi siamo ben diversi dalla vostra gente d' Jmud. Uno, due! e bisogna fare quello che noi vogliamo.
Olenka sorrise, e disse in tono più confidenziale, alzando gli occhi sul cavaliere
— Così dev'essere infatti perchè in mezzo a voi vivono molti Tartari.
— Sia pure! Ma voi mi appartenete in forza del testamento di vostro nonno ed anche per elezione del vostro cuore!
— Del mio cuore? Questo non lo so ancora.
— Se non fosse così mi ucciderei.
— Voi lo dite ridendo... Ma noi siamo ancora qui nella stanza della servitù. Favorite nella sala da ricevimento. Dopo un lungo cammino spero non rifiuterete una buona cena. Vi prego di seguirmi.
Qui Olenka si rivolse a Panna Kulvyets: — Zia, — le disse, — vieni con noi!
Il giovine cavaliere si volse in fretta.
— Zia? — egli chiese. — Quale zia?
— Dunque è anche la mia — rispose Pan Kmita avvicinandosi a lei per baciarle la mano. — Io ho nella mia compagnia un ufficiale chiamato Kulvyets Hippocentaurus. Non è egli vostro parente?
— È infatti della nostra famiglia — rispose la vecchia zitella con cortesia.
— È un buon diavolo, ma una specie di turbine come me — soggiunse Kmita.
In quel momento apparve un garzoncello con un lume. Essi passarono nell'anticamera, dove Pan Andrea si tolse la sua pelliccia: quindi entrarono nella sala di ricevimento.
Appena furono usciti dalla stanza della servitù, le fantesche principiarono a discorrere tutte insieme facendo ciascuna il suo commento, le sue osservazioni. L'imponente giovane piaceva a tutte, ed esse non gli risparmiarono le lodi.
— Dalla sua persona irradia la luce. Com'egli entrò qui io immaginai che fosse figlio di un re — disse una bella bruna.
— Egli ha gli occhi di lince, con i quali ferisce — disse un'altra.
— Egli ha trattato subito la nostra padrona come una fidanzata, — osservò una terza.
— Si vede bene, che alla nostra padrona piace sommamente. Ed a chi non piacerebbe?
— È vero, è vero. Sarebbe impossibile trovare sulla terra un cavaliere più bello di Pan Kmita; in tutta Kyedani non vi è per certo.
In tal guisa le fantesche continuarono a conversare fra loro nella sala. Intanto fu sollecitamente preparata la tavola per la cena, mentre nella sala da ricevimento Panna Alessandra s'intratteneva a quattr'occhi con Kmita, poichè Panna Kulvyets, la zia, era occupata con i preparativi per la cena.
Pan Andrea non distoglieva un istante lo sguardo da Olenka; i suoi occhi fiammeggiavano e si andavano sempre più animando. Alla fine disse:
— Vi sono uomini, ai quali piace possedere vasti campi; altri amano l'arte della guerra e le battaglie; altri danno la preferenza ai cavalli: ma io non cederei voi per tutti i tesori del mondo. Quant'è vero Dio, più vi guardo, più ardo dal desiderio di sposarvi. I vostri occhi hanno il colore e lo splendore del cielo. In verità, la vostra bellezza m'incanta a tal punto da farmi perdere quasi la parola.
— Non mi pare, dal momento che in mia presenza sapete essere così loquace da farmi stupire.
— A Smolensko usiamo comportarci al cospetto delle donne, con lo stesso ardimento col quale corriamo alle battaglie. Bisognerà che vi abituate, mia regina, perchè io sarò sempre così.
— Dovrete invece dimenticare una tale usanza perchè a me non piace.
— Cederò ai vostri voleri. Per voi, mia regina, sono pronto ad apprendere altre maniere. Mi conosco: sono un semplice soldato che ha vissuto più sui campi di battaglia che nelle sale dei castelli.
— Questo non nuoce — replicò Olenka. — Anche mio nonno era un soldato: ma vi ringrazio in tutti i modi della vostra buona volontà.
Nel dire così i suoi occhi si fissarono con dolcezza su Pan Andrea, il cui cuore fu commosso ed intenerito dal suo sguardo.
— Voi mi condurrete con un filo — egli soggiunse.
— Ah! voi non siete di coloro che si conducono con un filo. Ciò è troppo difficile con gli uomini incostanti.
— Che dite mai? — esclamò il giovane. — Non furono poche le verghe, che i padri spezzarono sulla mia schiena nel convento, per insegnarmi la fermezza alla costanza, e per farmi ritenere le massime salutari che dovevano guidarmi nel cammino della vita!
— E quale di queste massime rammentate ora maggiormente?
— Questa: Quando si ama, cadere in ginocchio dinanzi alla donna amata.
Ed unendo l'atto alle parole, Kmita, cadde ai piedi della donzella. Questa dette in un grido ed indietreggiò di alcuni passi.
— Per amor di Dio! — esclamò — Non vi hanno insegnato certo queste cose in convento. Alzatevi, o andrò seriamente in collera. Mia zia sta per giungere.
Rimanendo in ginocchio dinanzi a lei, Kmita sollevò il capo e la guardò negli occhi.
— Che venga magari uno squadrone di zie — diss'egli — se ciò fa loro piacere.
— Ma alzatevi adunque!
— Eccomi!
— Sedete.
— Son seduto.
— Voi siete un traditore, un Giuda.
— Non è vero, perchè quando io bacio, bacio con sincerità. Siatene convinta.
— Voi siete un serpente.
Panna Alessandra pronunciò queste parole sorridendo, ed un'aureola di giovanile ilarità apparve sulla sua fronte. Le sue narici fremevano come quelle di un puledro di nobile razza.
— Quali occhi! Quale splendido viso! — esclamò Kmita contemplandola. — Salvatemi voi, o Santi del Paradiso, perchè io non potrò più lasciarla!
— Non v'è necessità di invocare i santi. Voi siete stato tanti anni senza pensare a me ed a questa casa. Sedete una buona volta e rimanete tranquillo.
— Non pensavo a voi perchè avevo veduto soltanto il vostro ritratto. Quando lo vidi io dissi: — Carina, carina tanto! Ma di ragazze belline non ne mancano al mondo ed io ho tutto il tempo di recarmi da lei. Mio padre mi eccitava, ma la mia risposta era sempre la stessa. — C'è tempo! — Non fui mai contrario alla disposizione testamentaria di mio padre, Iddio m'è testimonio: ma io dovevo prima fare conoscenza con le armi e battermi in guerra. Comprendo in questo momento quanto mai fui insensato. Avrei potuto ammogliarmi prima, e poscia andare alla guerra. Quali delizie m'avrebbero aspettato qui al mio ritorno! Sia ringraziato Dio che non permise che io fossi fatto a pezzi sul campo di battaglia. Permettete almeno che vi baci la mano.
— Allora non ve lo chiederò più. Noi di Orsha diciamo: Chiedi, ma se non ti danno ciò che desideri prendi da te. — Così dicendo Pan Andrea afferrò la mano della fanciulla e prese a baciarla, nè ella oppose soverchia resistenza, per timore di esporsi a peggior pericolo. In quel momento entrò Panna Kulvyets. Al vedere quanto avveniva, spalancò gli occhi come esterrefatta. Cotanta intrinsichezza non le garbava, ma ella non osava protestare. Annunciò senz'altro che la cena era pronta.
I due giovani passarono nella sala da pranzo, tenendosi per mano come se fossero parenti. La mensa era carica di ogni sorta di vivande, e specialmente di carni affumicate e di bottiglie di vino stravecchio.
La donzella aveva già cenato; sicchè Kmita sedette solo a tavola, e cominciò a mangiare con la stessa animazione con la quale aveva prima conversato.
Olenka lo guardava di sottocchi, soddisfatta nel vederlo mangiare e bere con sì buon appetito. Quando egli ebbe saziato in parte la fame, la fanciulla riprese la parola, e gli domandò
— Dunque voi non giungeste qui direttamente da Orsha?
— Non saprei dirvi precisamente donde vengo. Fui un giorno in un paese, un giorno in un altro. Mi aggiravo qua e là come un lupo intorno alle pecore, prendendo al nemico tutto ciò che potevo prendere.
— E come avete osato affrontare un nemico così potente, dinanzi al quale lo stesso Capitano generale dovette arrendersi?
— Come ho osato? Io sono sempre pronto a tutto; tale è il mio temperamento.
— Lo diceva anche mio nonno che eravate fatto così. Fortuna volle che non foste ucciso!
— Mi hanno messo nella bambagia come un uccello nel nido, — replicò il giovane ridendo. — Ma io sbucai fuori e li battei quando meno se lo aspettavano, e perciò vi è una taglia, sulla mia testa. Quest'oca è eccellente.
— In nome del Padre e del Figliuolo! — gridò Olenka, con la più sincera meraviglia, guardando con ammirazione quel giovane che parlava della taglia che vi era sulla sua testa, e subito dopo vantava la bontà dell'oca. — Avevate molta truppa sotto il vostro comando? — ella soggiunse.
— Certo! Avevo i miei poveri dragoni; uomini eccellenti, ma in un mese furono tutti fatti a pezzi. Poi mi posi alla testa di volontari, che radunai dove potei senza che nessuno vi si opponesse. Buoni ragazzi, valorosi in battaglia, ma furfanti matricolati. Quelli che non sono già periti, diventeranno prima o poi pasto per i corvi.
Pan Andrea rise, vuotò la sua coppa di vino e soggiunse: — Mai vidi simili malandrini. Che il carnefice li illumini! Ufficiali, tutti nobili delle nostri parti, appartenenti a buone famiglie, gente per bene, ma non ve n'è uno che non sia colpito da una sentenza di bando.
— Dunque siete venuto con tutto lo squadrone?
— Certo. Il Principe Voivoda mi assegnò dei quartieri d'inverno a Ponyevyej.
— Mangerei veleno per amor vostro. Ho lasciato una parte dei miei volontari a Ponyevyej, una parte a Upita, ed ho invitato i più degni ufficiali a Lyubich quali ospiti.
— Ma dove vi trovarono gli uomini di Lauda?
— Sulla via dei quartieri d'inverno di Ponyevyej.
— Furono essi i primi a parlarvi della morte di mio nonno e del suo testamento?
— Sì. Li avete mandati voi da me?
— No davvero. Ero troppo immersa nel mio dolore.
— Io voleva ricompensarli della loro fatica, ma essi mi risposero arrogantemente che la nobiltà d'Orsha accetterà forse delle mancie, ma la gente di Lauda non mai. Avrebbero meritato delle frustate per la loro arroganza. Pretendere di essere i nostri uguali!
— È una nobiltà decaduta, ma antica e rinomata. Il mio caro nonno li amava molto e si recava in guerra con loro.
— Ch'io muoia ammazzato se lo sapevo! Tuttavia confesso, che questa nobiltà miserabile non mi va a genio. Ognuno al suo posto. Un contadino per me è un contadino ed un nobile io me lo figuro altrimenti.
— Mio nonno soleva dire che l'uomo si distingue pel sangue e per l'onore, non per la ricchezza, e costoro sono uomini d'onore, altrimenti mio nonno non mi avrebbe posto sotto la loro tutela.
Pan Andrea spalancò gli occhi con sorpresa.
— Vostro nonno vi ha posto sotto la custodia di tutta la misera nobiltà di Lauda? — diss'egli.
— Non ischerzo, Pan Andrea, e se voi non li respingerete nè li tratterete con alterigia, oltre al procurarvi la loro affezione vi cattiverete il mio cuore.
— Rispetto la volontà dei defunti — rispose Pan Andrea in tono meno orgoglioso. — Ma ritengo che il ciambellano vi abbia posto sotto la tutela di questi nobili soltanto sino al mio arrivo. Ora nessuno sarà il vostro tutore all'infuori di me. Contrasterei questo diritto anche ai Radzivill.
Panna Alessandra si fece mesta, e rispose dopo un breve silenzio
— Fate male a lasciarvi trascinare dall'orgoglio. Gli uomini Lauda sono gente buona e pacifica, e semprechè ci mettiate un po' di buona volontà, tutto andrà per il meglio e non vi accorgerete nemmeno della tutela che esercitano su di me.
Kmita stette muto per un istante, indi agitò la mano con un certo fare noncurante, e disse
— È vero che le nozze faranno cessare tutto ciò. Non c'è motivo di contesa. Purchè non mi irritino, chè io non sono individuo da tollerare violenze. In quanto al matrimonio, più presto si farà e meglio sarà.
— Il nonno stesso m'impose di non attendere più di sei mesi.
— Fino allora vivrò come un dannato. Ma sia pur così, e voi mia bella regina non rammaricatevi del mio contegno. È colpa mia se, quando sono preso dall'ira, farei a pezzi un individuo, per ricucirlo poi di nuovo insieme quando la collera è passata?
— Il pensiero di vivere con un uomo simile è terrorizzante — rispose Olenka alquanto rasserenata.
— Or bene, bevo alla vostra salute! Buon vino questo. La sciabola ed il vino sono le basi della mia esistenza. Che parlate di terrore? Con i vostri occhi mi soggiogherete sempre ed io giacerò schiavo ai vostri piedi. Certo le mie maniere sono rustiche, ma non le appresi vivendo in mezzo alle dame, bensì fra i soldati e vicino ai cannoni. Persino le nostre donne portano gli stivaloni e sanno maneggiare la sciabola. Ma in guerra sappiamo pugnare e non scherziamo; alla Dieta sappiamo parlare, e quando la parola non basta diamo mano alla sciabola. Siamo fatti così. Il defunto ciambellano mi conosceva e perciò mi scelse per vostro sposo.
— Io ho sempre rispettato la volontà di mio nonno — rispose la fanciulla abbassando gli occhi.
— Permettete che vi baci ancora una volta la mano. Voi possedete tutto il mio cuore e preoccupato come sono di voi, non so se riuscirò a trovare la tenuta di Lyubich.
— Non ce n'è bisogno. Sono avvezzo a girare di notte. Ho un servo di Ponyevyej che deve conoscere la strada. Ed ivi Kokosinki ed i suoi camerati mi aspettano. Kokosinki fu bandito senza ragione perchè incendiò la casa di Pan Orpishewski, rapì una fanciulla ed uccise alcuni servi. È una bravo camerata. Ed ora datemi ancora la vostra mano e separiamoci.
L'orologio che si trovava nell'ampio salone, principiò appunto allora a suonare lentamente la mezzanotte.
— Per l'amor del cielo! È tempo, è tempo che io me ne vada — esclamò Kmita. Entrambi si mossero incamminandosi verso l'anticamera. La slitta attendeva già dinanzi al portico. Kmita si avvolse nel suo mantello e si accomiatò, non senza raccomandare alla sua fidanzata di tornarsene presto ai suoi appartamenti, per evitare un'infreddatura.
— Buona notte, mia cara regina! — esclamò. State certa che non chiuderò occhio pensando alla vostra beltà. Buona notte, amatissima, buona notte!
— Dio sia con voi!
Olenka si ritirò e Pan Kmita si avviò verso il portico. Strada facendo, attraverso l'uscio semichiuso della stanza delle serventi, gli venne fatto di scorgere degli occhietti curiosi che avevano vegliato sino allora per vedere ancora una volta il giovanotto. Egli gettò loro galantemente dei baci con le mani ed uscì.
Il rumore dei suoi passi andava sempre più affievolendosi, e finalmente si perdette in lontananza.
A Vodokty si fece un gran silenzio e Panna Alessandra ne provò un'impressione dolorosa. Tese l'orecchio sperando di sentire ancora il rumore della slitta, ma questa si trovava già nella foresta presso Volmontovichi perciò non udì nulla. Una grave melanconia la invase e le parve di non essere mai stata tanto isolata nel mondo!
Tenendo il lume in mano ritornò nella sua stanza. Si inginocchiò, volle recitare il Paternostro, ma ad ogni istante, il pensiero ricalcitrante la strappava alla devozione, presentandole la visione della slitta e del giovane che essa portava. Rivedeva la superba fronte incorniciata dalla bionda chioma, i suoi occhi azzurri, la bella bocca, che quando rideva mostrava una fila di denti bianchi come quelli d'un cagnolino. Questa rispettabile donzella non poteva ormai più dissimularsi il trasporto che provava per quel cavaliere impetuoso e prode. Egli la spaventava un pochino con i suoi modi, ma nel medesimo tempo la sua fierezza, la giocondità e franchezza del suo carattere la soggiogavano interamente.
— Non è un cacciatore di donne, — pensava fra sè — ma un uomo nel vero senso della parola. È un soldato della specie che più piaceva al nonno mio.
Meditando così, si sentì presa da un certo senso di indefinita felicità, non scevra d'inquietudine; ma era una inquietudine che le riusciva cara. Mentre già stava svestendosi, udì improvvisamente scricchiolare la porta, ed ecco entrare Panna Kulvyets con una candela in mano.
— Hai vegliato ben tardi — diss'ella — non ho voluto sturbare il vostro primo colloquio. Quel giovane mi ha fatto l'impressione d'un cortese cavaliere. Ma a te come piace?
Panna Alessandra non rispose, ma si avvicinò a sua zia a piedi nudi, e le gettò le braccia al collo, esclamando con voce vibrante di passione:
— Ho capito — brontolò la vecchia zitellona sollevando gli sguardi ed il lume verso il cielo.