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Alla sera di quello stesso giorno, Pan Kmita venne a Vodokty alla testa d'un centinaio d'uomini, che condusse con sè da Upita per mandarli poi a Kyedani, vedendo che non eravi posto per tanta gente in così piccolo paese.
Bastava un'occhiata su quegli uomini, per convincersi che sarebbe stato difficile di trovarne dei peggiori in tutta la Repubblica. Ma Pan Kmita non poteva trovar di meglio. Dopo la disfatta del Capitano generale, il nemico invase tutta la regione. Il rimanente delle truppe regolari della Lituania si ritirò per qualche tempo a Birji e Kyedani, allo scopo di riordinarsi.
I nobili di Smolensko, Vityebsk, Polotsk, Mstislavsk e Minsk, o seguirono l'armata, o si rifugiarono nelle province non ancora occupate. Gli uomini di maggior coraggio si radunarono a Grodno presso il sotto tesoriere Pan Gosyevski; poichè il reale editto intimante la mobilizzazione generale della milizia, additava quella città come centro delle operazioni.
Disgraziatamente, pochi si conformarono all'ordine, e questi pochi, che ascoltarono la voce del dovere, lo fecero sì negligentemente, che nessuno di essi oppose una energica resistenza, se si eccettua Pan Kmita, il quale combatteva per conto proprio, animato più dal suo cavalleresco ardire che non da vero patriottismo. Era agevole comprendere, che nell'assenza delle truppe regolari e della nobiltà, egli prendeva con sè tutti gli uomini che poteva, uomini, per conseguenza, non animati dal sentimento del dovere, e che nulla avevano da perdere.
Ma sotto le ferree mani di Kmita si erano trasformati in terribili soldati. Se Pan Kmita fosse stato prudente quant'era valente, avrebbe potuto valersene per rendere grandi servigi alla Repubblica. Ma egli pure era insubordinato, ed il suo spirito era in continua ebollizione. Del resto, dove poteva avere provvigioni, armi e cavalli, dal momento che, come partigiano, non occupava ufficio di sorta, nè poteva sperare nessun sussidio dal tesoro della Repubblica? Quindi egli prendevasi da sè con la violenza tutto ciò che voleva ora dal nemico, ora dagli amici, senza incontrare opposizione e senza temere punizione di sorta.
Fra continue scorrerie, contese ed invasioni, egli erasi inselvatichito e così avvezzo allo spargimento di sangue, che nulla più gli toccava il cuore, sebbene buono per indole. Aveva una speciale predilezione per la gente spregiudicata e pronta a tutto. Ben presto il suo nome acquistò una sinistra fama e rinomanza. I piccoli corpi d'armata del nemico non si arrischiavano a lasciare la città ed il campo nelle regioni dove soggiornava il temuto partigiano colla sua gente.
Gli abitanti rovinati dalla guerra temevano i suoi uomini non meno dello stesso nemico specialmente quando non si trovavano sotto l'occhio del capitano. Ogni qual volta prendevano il comando i suoi ufficiali, Kokosinski, Uhlik, Kulvyets, Zend, e specialmente Ranitski, il più selvaggio e crudele di tutti quantunque uomo d'alto lignaggio, si avrebbe potuto domandare: — Sono nostri difensori, o sono pirati? — Avveniva talvolta che Kmita punisse i suoi uomini, pel semplice motivo che non si uniformavano al suo capriccioso umore; ma più frequentemente prendeva le loro parti senza alcun riguardo.
Quando quegli uomini si fermarono davanti alla casa di Vodokty, Panna Alessandra, che li vide dalla finestra, fremette di spavento, tanto il loro aspetto li faceva sembrare assassini e ladri.
Olenka si era appena ritirata dalla finestra, quando entrò Pan Andrea, allegro e vivace come al solito, ed avvicinandosi a lei, afferrò le sue mani con inesprimibile ardore.
La fanciulla, che poco prima era così risoluta di riceverlo con freddezza e dignità, si trovò incapace a frenare la gioia che le procurava il suo arrivo.
— Egli mi ama! — pensò fra sè, senza riflettere che per ottenere l'intento di allontanarlo dai suoi indegni compagni doveva mostrarsi seria e sostenuta.
— Mi tardava tanto di vedervi che ero in procinto di bruciare tutta Upita pur di poter correre senz'altro da voi.
— Io pure stavo in pena, temendo che veniste a battaglia. Grazie a Dio, siete ritornato!
— Ma che battaglia! I soldati avevano incominciato a fare man bassa sugli abitanti...
— Ma voi li avete acquietati?
— Un momento, gioia mia, e vi narrerò com'è andata, lasciatemi riposare soltanto un pochino perchè sono sfinito. Ehi! fa caldo qua dentro. È delizioso questo Vodokty; par di essere in paradiso. Chiunque si chiamerebbe felice di sedere qui per tutta la vita, di specchiarsi in codesti vostri begli occhi, e non andar più via. Per altro non sarebbe male se si potesse bere qualcosa di caldo, perchè fuori fa un freddo indiavolato.
— Per l'appunto; ora farò portare del vino caldo con uovo sbattuto, e vi terrò compagnia.
— Darete pure a' miei uomini qualche bariletto di «gorailka» e li farete condurre nelle stalle perchè possano riscaldarsi un po' col fiato delle bestie.
— Non risparmierò nulla poichè sono i vostri soldati. — Così dicendo Alessandra sorrideva, e gli occhi di Kmita sfavillarono di gioia, mentre ella scomparve dalla sala. Kmita si mise a passeggiare in su ed in giù, pensando come mai farebbe a dire alla fanciulla quello che erasi fatto in Upita.
— Non mi resta che dirle la pura verità, — mormorò sottovoce; — e bisogna dirla, soggiunse, rimettendosi a passeggiare con impazienza perchè Olenka ritardava.
Frattanto entrò un ragazzo con un lume, s'inchinò ed uscì in silenzio. Subito dopo la leggiadra donzella apparve, portando sopra un lucente vassoio un piccolo vaso, dal quale usciva il fragrante vapore del vino bollente. Appena Pan Andrea la vide le si slanciò incontro.
— Le vostre mani sono occupate, — egli esclamò. — Voi non mi sfuggirete. — E nel dire così si chinò per baciarla.
— Traditore! scostatevi, o io verso il vino bollente sul vostro capo, — esclamò a sua volta Olenka.
Ma egli non si curò della minaccia e continuò a baciarla.
Finalmente sedette, ottemperando al di lei invito, ed ella gli riempì il bicchiere di vino caldo.
— Ditemi ora come puniste i colpevoli di Upita. — diss'ella.
— Ne sia lode a Dio! Mi sta sommamente a cuore che tutta la gente di questo paese vi stimi come un uomo di carattere fermo e giusto. Come vi comportaste adunque?
Kmita bevette un lungo sorso, poi prese a dire: — Bisogna che io risalga alle origini dei fatti. I cittadini ed il podestà volevano un ordine del Capitano generale per concedere delle vettovaglie. — Voi, o signori, dissero ai soldati, — siete volontari, quindi non avete diritto di levare contribuzioni. Noi non vi accordiamo quartiere, ed in quanto alle vettovaglie, ve le concederemo dietro pagamento.
— Essi erano, veramente, in pieno accordo colla legge; ma i soldati avevan delle sciabole, e, secondo l'antica usanza, chiunque ha una sciabola ha il miglior argomento.
— Noi scriveremo ordini sulla vostra pelle, — risposero i soldati, e tosto si sollevò il tumulto. Il podestà e i terrieri si barricarono nelle strade, e i miei uomini li attaccarono, poi, per ispaventare i cittadini, appiccarono il fuoco a qualche granaio. Alla fine riuscirono ad acquetarne una buona parte.
— In che modo li acquetarono?
— Chiunque si prende una sciabolata sul cranio rimane quieto per sempre.
— Dio mio! questo è assassinio.
— Appunto perciò io mi recai colà. I soldati corsero da me a lagnarsi, dicendosi perseguitati senza motivo. Io feci chiamare il Podestà. Egli indugiò a lungo, ma alla fine comparve con altri tre uomini. E cominciarono: — Perchè i soldati ci assalgono, e mettono fuoco senz'averne avuto ordine? Noi avremmo dato loro da mangiare e da bere, se lo avessero chiesto in bel modo; ma essi volevano ad ogni costo prosciutto, idromele, ghiottonerie, e noi, povera gente, non abbiamo di queste cose per noi stessi. Noi chiederemo di ciò ragione a termini di legge, e voi risponderete dell'operato dei vostri soldati dinanzi ad una Corte di giustizia.
— Iddio vi benedica, se avete reso loro la dovuta soddisfazione! — esclamò Olenha.
— Sì... cioè... — Qui Pan Kmita si contorse come uno studente obbligato a confessare la propria mancanza.
— Mia regina! — disse finalmente in tono supplichevole — gioia mia, non siate in collera con me.
— Ma che faceste adunque? — domandò Olenka respirando a stento.
— Io diedi ordine che si applicassero cento colpi di bastone al Podestà ed altrettanti a ciascuno dei consiglieri, — disse Kmita tutto in un fiato.
Olenka non rispose: posò le mani sulle ginocchia, chinò la testa sul petto e rimase muta.
— Prendetevi la mia testa! — gridò Kmita, — ma non serbatemi rancore! Non ho detto tutto ancora.
— V'è altro? — gemette la donzella.
— Sì; dappoichè, essi mandarono a Ponyevyey a chieder soccorso, giunse un centinaio di stupidi fantaccini con qualche ufficiale. Io feci tosto fuggire quegli uomini; ma ordinai che gli ufficiali fossero arrestati, flagellati, e poi lasciati nudi sulla neve, come già feci con Pan Tumgrat in Orsha.
Panna Billevich rialzò la testa: i suoi occhi severi fiammeggiavano di sdegno, e le sue guancie si fecero di porpora. — Voi non avete nè pudore, nè coscienza, — diss'ella.
Kmita la squadrò attonito, tacque un istante, poi chiese con voce mutata: — Parlate seriamente o pretendete d'impormi?
— Parlo seriamente. Una simile condotta s'addice ad un bandito, non ad un cavaliere. Parlo seriamente, lo ripeto, giacchè la vostra riputazione è parte del mio cuore; poichè è vergognoso per me, che voi siate venuto qui soltanto ora, quando tutti vi considerano e vi segnano a dito come un uomo dedito alla violenza.
— Che importa a me della gente? sono tutti miserabili.
— No, è gente povera ma sul loro nome non vi è macchia. La giustizia non colpirà loro ma voi.
— In nome di Dio, non mi minacciate, poichè voi non mi conoscete ancora.
— Credo che il povero mio avo non vi conoscesse.
Gli occhi di Kmita sfavillarono di sdegno: ma il sangue dei Billevich cominciava a destarsi nella fanciulla.
— Oh! gesticolate finchè volete: digrignate pure i denti, — ella continuò senz'ombra di timidezza, — io non ho paura; sebbene mi trovi qui sola e voi abbiate ai vostri ordini un'intera banda di ladri. La mia innocenza mi difende. Voi credete che io non sappia, che faceste fuoco sui ritratti dei miei antenati a Lyubich; e trascinaste le fanciulle nella sala, commettendo ogni sorta di dissolutezze. Voi non mi conoscete, e supponete che mi sottoporrò umilmente a tutto? No, voglio onestà da voi, e nessun volere del mondo può vietarmi di esigerla. Vi dirò di più che era volontà espressa del mio avolo, che io divenissi la moglie d'un uomo onesto.
Kmita pareva vergognarsi di ciò ch'era avvenuto in Lyubich; poichè, abbassando la testa, egli chiese in tono più calmo:
— Chi vi disse tutto ciò?
— Tutti quanti i nobili del distretto ne parlano.
— Saprò ben io punire quegli orsi, quei villani, quei traditori — rispose Kmita cupamente. — Ma tutto ciò è avvenuto per effetto dell'ubriachezza; perchè i soldati non sanno contenersi. Quanto poi alla faccenda delle ragazze, io non ebbi nulla a che fare con esse.
— Oh, so che quegl'imprudenti malandrini, quegli assassini, vi trascinano a qualunque mal fatto.
— Non sono assassini; sono i miei ufficiali.
— Ed io imposi a cotesti vostri ufficiali di uscire dalla mia casa.
Olenka, così dicendo, spiava l'effetto che facevano le sue parole su Kmita; ma con la massima meraviglia s'accorse che tal notizia non produceva su di lui nessuna impressione: anzi, sembrava riuscirgli quasi gradita.
— Voi... ordinaste loro.... di uscire! — egli esclamò.
— Precisamente.
— Ed essi se ne andarono?
— Sì.
— Com'è vero Iddio voi avete il coraggio di un cavaliere. Questo mi fa gran piacere, perchè è molto pericoloso urtarsi con quella gente. Voi non sapete quel che ciò ha costato a più d'uno. Ma essi tengono tutt'altro contegno dinanzi a Kmita! Voi li vedeste ubbidire come agnelli; ma perchè? Perchè hanno paura di me.
Qui Kmita guardò orgogliosamente Olenka, arricciandosi i baffi. Ma questa instabilità di umore ed inopportuna vanagloria, finirono con l'irritare all'ultimo segno la donzella, la quale disse alteramente e con una certa eccitazione:
— Bisogna che voi scegliate fra me e loro: non c'è altro scampo.
— Io lasciarvi? — chiese Kmita con indicibile stupore.
— Senza dubbio! Se voi non lasciate me, io lascierò voi. Non sposerò mai un uomo su cui pesano le lagrime ed il sangue della gente, un uomo sì vergognosamente segnato a dito, un uomo che tutti chiamano il proscritto, il ladrone, il traditore!
— Traditore! Non mi fate impazzire, se non volete che io faccia qualche cosa di cui dovrei poi pentirmi. Mi colga il fulmine in questo istante, se io sono un traditore! io, che solo tenni fermo quando tutti avevano disertato!
— Voi rimaneste, ma per calpestare il vostro paese e portarvi la desolazione e la rovina. Voi siete un sicario, che non si cura delle leggi di Dio e degli uomini. No! quand'anche il mio cuore dovesse spezzarsi, io non vi sposerò finchè voi sarete un tal uomo!
— Non mi respingete, perchè, se voi non mi accettate volontariamente io vi prenderò, quand'anche ci fossero gli stessi Radzvill, e il Re in persona e tutti i diavoli per impedirmelo.
— Non invocate gli spiriti maligni, — gridò Olenka.
— Che volete da me?
— Siate onesto.
Seguì un lungo silenzio: non si udiva che l'ansare di Pan Andrea. Le ultime parole di Olenka avevano trapassato la corazza che involgeva la coscienza del giovane. Egli si sentì vinto: nè sapeva più che cosa rispondere, nè come difendersi. Cominciò a passeggiare concitatamente. Olenka intanto rimaneva immobile. Si sentivano reciprocamente eccitati, e il silenzio diveniva sempre più insopportabile.
— Addio! — disse Kmita all'improvviso.
— Andate, e voglia Iddio toccarvi il cuore, — rispose Olenka.
— Andrò! Amara fu la bevanda, amaro il pane che mi porgeste.
— E voi credete di avermi trattata con dolcezza? — ella rispose con voce tremante.
— Addio!
— Addio!
Giunto presso la porta Kmita si volse ad un tratto, e slanciandosi verso di lei, le afferrò ambe le mani, esclamando:
— Per le piaghe di Cristo! volete voi che io mi uccida?
Olenka scoppiò in lagrime. Egli la strinse fra le sue braccia, e le disse:
— Non piangete, Olenka. Di che sono io colpevole verso di voi? Io farò tutto quello che volete. Manderò via quegli uomini, andrò a costituirmi in Upita; voglio vivere saggiamente perchè vi amo! Farò tutto; ma non piangete e amatemi ancora!
— Andate per ora — gli rispose Olenka. — Iddio ricondurrà forse la pace fra noi. Io non sono in collera, ma il mio cuore soffre.
La luna era alta in cielo quando Pan Andrea partì da Vodokty muovendo verso Lyubich seguito dai suoi soldati.
Il sergente Soroka s'accostò ad un tratto a Pan Andrea. — Capitano — gli domandò, — dove troveremo alloggio in Lyubich?
— Lasciami in pace! — rispose Kmita.
E continuò ad andare innanzi senza parlare ad alcuno. Era la prima volta in vita sua che faceva i conti con la propria coscienza, e questi conti lo opprimevano, più che una pesante armatura. Egli era venuto in quel paese con una riputazione danneggiata, e che aveva egli fatto per ripararla? Nel primo giorno aveva permesso gli spari e gli altri eccessi in Lyubich, ed i disordini avevano continuato nei giorni successivi. Aveva assalito la guarnigione di Ponyevyej, fatto bastonare gli ufficiali e lasciatili nudi sulla neve. Per questa azione sarebbe punito con la perdita delle proprietà, dell'onore, e forse della vita. Ma perchè non avrebbe potuto continuare a beffarsi delle leggi come prima? Perchè voleva ammogliarsi e stabilirsi a Vodokty, dove la giustizia lo avrebbe raggiunto? D'altronde, quando pure i suoi misfatti potessero passare impuniti, eravi sempre in essi qualche cosa di abbietto e d'indegno di un cavaliere. Quando aveva lasciato Olenka, aveva letto ne' suoi occhi il perdono, ed ella gli era parsa buona come gli angioli del paradiso.
— Santissima Vergine! — egli pensò, — voglio fare tutto ciò ch'ella desidera; rimunererò generosamente i miei camerati, e poi li manderò in capo al mondo, giacchè è un fatto ch'essi mi trascinano al male.
Quindi gli sorse nella mente il pensiero, che rientrando a Lyubich, li avrebbe trovati certamente ubbriachi, e lo invase una tale rabbia, che gli venne una gran voglia di colpire qualcuno con una sciabolata.
— Se lo facessi davvero! — mormorò fra sè. — Essi non mi hanno mai veduto tal quale mi vedranno. — E come preso da un accesso di follìa, incominciò a tormentare il proprio cavallo collo sperone, poi a tirare e rallentare le redini, finchè la bestia s'imbizzarrì. Soroka vedendo ciò, sussurrava all'orecchio dei soldati:
— Il capitano è matto. Dio ci salvi dal cadere nelle sue mani.
Pan Andrea pareva realmente impazzito. Tutt'intorno regnava una gran calma, ma nel cuore del cavaliere infuriava la tempesta. Alla fine un senso di generale spossatezza s'impadronì di lui, poichè, per dir vero, egli aveva passato la notte precedente sbevazzando e folleggiando in Upita: ma abituato a superare qualunque ostacolo, voleva vincere la propria inquietudine con la rapidità della corsa. Quindi, rivoltosi ai soldati, comandò:
— Avanti! — E sferzando il suo cavallo partì come una freccia, ed i soldati lo seguirono. Finalmente ad una svolta della strada apparvero i tetti di Lyubich, e allora la corsa fu rallentata.
La grande porta era aperta e Kmita rimase stupito che nessuno gli venisse incontro. Egli si aspettava di trovare le finestre illuminate e di udire un gran chiasso, ma invece tutto rimaneva silenzioso e buio, eccettuate due finestre della sala da pranzo, dove brillava una luce incerta.
Il sergente Soreka saltò pel primo da cavallo, poi tenne la staffa al capitano.
— Andate a dormire, — disse Kmita; — chi può trovare posto nelle stanze dei servi può restarvi; gli altri si accomoderanno nelle stalle. Conducete i cavalli nella scuderia, e date ad essi del fieno che sta nella capanna.
Kmita smontò a sua volta. La porta d'entrata era aperta e l'anticamera fredda.
— Ohe! V'è qualcuno qui? — gridò Kmita.
Nessuno rispose.
— Ehi! Olà! — ripetè egli più forte.
— Sono ubbriachi fradici! — mormorò Pan Andrea.
E fu preso da tale rabbia che cominciò a digrignare i denti.
Entrò nella sala da pranzo. Sopra una tavola grandissima ardeva una lampada ripiena di grasso, la cui fiamma rossiccia splendeva tristamente. La forza del vento, che si spinse dall'anticamera nella sala, agitava la fiamma in modo, che per un momento Pan Andrea non potè veder nulla. Solamente quando cessò il tremolìo della luce, egli distinse una fila di corpi giacenti lungo le pareti.
— Sì, sono ubbriachi e dormono come tanti ghiri — disse Pan Kmita.
Poi si avvicinò all'uomo che giaceva più vicino, nel quale riconobbe Pan Uhlik, e cominciò a scuoterlo senza riguardo con i piedi.
— Alzati, poltrone, alzati! alzati! — egli gridò.
Ma Pan Uhlik rimase immobile e non diede segno di vita.
Kmita s'accorse che tutti quanti giacevano sul dorso nella stessa posizione, e allora un terribile presentimento invase l'anima sua. Si slanciò verso la tavola, afferrò con mano tremante la lampada, e ne fece cadere la luce sui volti di quegli uomini.
Gli si rizzarono i capelli sul capo a quella spaventevole vista. Uhlik aveva la gola squarciata da una terribile ferita: accanto a lui giaceva Zend, coi denti serrati e gli occhi sporgenti, nei quali la vitrea immobilità palesava il terrore che aveva preceduto la morte. Ranitski aveva gli occhi chiusi, e tutta la faccia coperta di macchie di ogni colore. Kokosinski, quello fra gli ufficiali che era più caro a Kmita e che ne godeva maggiore fiducia e intimità, pareva placidamente addormentato; ma da una parte del collo presentava anch'egli una larga ferita. Veniva poi l'atletico Kuvyets-Hyppocentaurus, la cui sottoveste lacerata lasciava scorgere il petto squarciato in più parti. E finalmente Kmita si trovò dinanzi a Rekuts, e gli parve che le sue palpebre tremassero leggermente al chiarore del lume. Posò a terra la lampada e cominciò a scuoterlo leggermente.
— Rekuts, Rekuts, sono io — diss'egli.
Gli occhi di Rekuts si aprirono per un istante, egli riconobbe l'amico, e gemette: — Yendrus, un prete!
— Chi vi ha ucciso? — gridò Kmita fuori di sè.
— I Butrym — rispose Rekuts con un filo di voce. Poi s'irrigidì e spirò, rimanendo cogli occhi aperti.
Kmita mosse in silenzio verso la tavola, sulla quale ripose la lampada; si lasciò cadere sopra un sedile e si passò a più riprese la mano sul viso, come chi, svegliandosi dal sonno, si chiede se è desto o in preda ad un sogno orribile. Sentì bagnarsi di un sudore freddo la fronte; i capelli gli si rizzarono in capo; e ad un tratto si diede a gridare sì forte che ne tremarono i vetri delle finestre:
— Venite, venite, quanti siete vivi! Venite!
I soldati, udendo quelle grida, accorsero e si precipitarono nel salone. Kmita accennò i corpi esanimi dei suoi compagni, ripetendo con voce rauca:
Intanto accorsero altri soldati, e sempre più alte e distinte si facevano le grida di rabbia e di vendetta. Kmita, che per un momento era rimasto come inebetito, scattò all'improvviso, gridando: — A cavallo!
Non era passata una mezz'ora, che un centinaio d'uomini galoppava a spron battuto sulla larga strada. Pan Andrea cavalcava alla loro testa come un pazzo, a capo scoperto e con la sciabola sguainata in mano, emettendo di tratto in tratto delle grida selvaggie.
La luna splendeva sulla limpida volta del cielo, quando d'improvviso la sua luce venne offuscata dal chiarore di un incendio. Un vero mare di fuoco avvolse il villaggio dei Butrym, e i selvaggi soldati di Kmita, in mezzo al fumo, al fuoco ed alle fiamme, facevano a pezzi la popolazione esterrefatta.
Gli abitanti dei villaggi circonvicini, destatisi di soprassalto, si precipitarono fuori dalle loro case. Gli Smoky, i Gostsyevich, gli Stakyan, i Gashtovts ed i Domashevich, aggruppati sulla strada dinanzi alle loro dimore, guardavano nella direzione del fuoco, dicendo:
— Certo un distaccamento del nemico ha incendiato il villaggio dei Butrym.
— Corriamo in loro soccorso! — gridarono i più coraggiosi, — non lasciamo perire così i nostri fratelli.
I giovani, che erano rimasti a casa per la trebbiatura, invece di andare a Rossyeni; salirono sui loro cavalli. A Krakin e in Upita le campane delle chiese, suonavano a stormo.
A Vodokty, Panna Alessandra fu svegliata da una bussata impetuosa alla porta della sua camera.
— Olenka, alzati! — gridò Panna Kulvyets.
— Entrate, zia; che cosa succede? — chiese la fanciulla.
— Hanno incendiato Volmontovichi. Si sentono degli spari; si battono. Dio ci protegga!
Olenka emise un grido di terrore, balzò giù dal letto, e cominciò a vestirsi. Tutto il suo corpo tremava come agitato da febbre. Ella indovinò tosto qual nemico aveva assalito i disgraziati Butrym.
Dopo un istante tutte le donne della casa si precipitarono nella stanza gridando e singhiozzando. Olenka cadde in ginocchio davanti ad una immagine, le donne seguirono il suo esempio, e tutti insieme presero a recitare le litanie.
Ad un tratto un colpo violento scosse la porta dell'anticamera. Le donne balzarono in piedi, gridando:
Il colpo risuonò con doppia forza. Il giovane Roitek si precipitò nella stanza col viso stravolto, dicendo:
— Panna, un uomo picchia alla porta. Devo aprire?
— È solo?
— Solo.
— Apri!
Il ragazzo uscì e Panna Alessandra si portò nella sala da pranzo, dove Panna Kulvyets e tutte le donne la seguirono.
La donzella aveva appena posato il lume sulla tavola quando entrò Pan Kmita, insanguinato, ansante, con gli occhi fuori delle orbite come quelli di un pazzo.
— Il mio cavallo è caduto sulla strada della foresta, — egli gridò. — M'inseguono.
Panna Alessandra lo fissò negli occhi.
— Avete voi incendiato Volmontovichi? — gli chiese.
— Io... io...
Avrebbe voluto dir di più; ma tutto ad un tratto si udì uno strepito di voci ed un calpestìo di cavalli, che si avvicinavano con indicibile rapidità.
— I demoni vogliono l'anima mia! — gridò Kmita come in un accesso di delirio.
Panna Alessandra si volse verso le donne e disse loro: — Se domandano di lui, risponderete che non è qui. Poi disse a Kmita: — Entrate là! — e gli additò una stanza attigua, nella quale lo spinse quasi a viva forza richiudendo immediatamente la porta dietro di lui.
Frattanto una frotta d'uomini armati riempì il cortile, e in un batter d'occhio i Butrym, i Gostyevich, i Domaschevich, ed altri ancora, si precipitarono dentro la casa. Vedendo la donzella si fermarono.
— Che cos'è successo? Che cosa volete? — domandò ella, rimanendo imperterrita sotto i terribili sguardi dei cavalieri e dinanzi al sinistro scintillare delle sciabole sguainate.
— Kmita ha incendiato Volmontovichi, — gridarono i nobili in coro. — Egli ha trucidato uomini, donne e fanciulli! Vogliamo la sua testa ed il suo sangue.
— Inseguitelo, — disse Alessandra. — Che cosa fate qui? Inseguitelo. Qui non c'è. La casa era chiusa. Cercatelo nelle stalle e nei granai.
— Egli si è nascosto nel bosco, — disse uno dei nobili. — Andiamo, fratelli, inseguiamolo!
— Signora! — disse Yuzva Butryym con voce tuonante, — non nascondete quell'uomo. Egli è maledetto.
— Io pure mi unisco a voi nel maledirlo, — esclamò Olenka
Poco dopo risuonò di nuovo lo strepito delle armi ed il rumore dei passi.
I nobili risalirono a cavallo e partirono. Un piccolo numero si trattenne per esplorare le stalle ed i granai, ma poi anch'essi se ne andarono.
Panna Alessandra stette in ascolto finchè le voci dei cavalieri si perdettero in lontananza. Poi bussò alla porta in cui aveva rinchiuso Kmita, e gli disse: — Uscite.
Pan Andrea uscì col viso stravolto.
— Olenka — disse in tono supplichevole.
— Non voglio udirvi nè conoscervi. Prendete un cavallo e fuggite, — replicò la fanciulla severamente.
— Olenka! — gemette Andrea protendendo le mani.
— Vi è sangue sulle vostre mani, come sulle mani di Caino! — ella gridò balzando indietro come alla vista di un serpente. — Andatevene e non tornate mai più!