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Kovno, e l'intera regione sulla riva destra del Vilna, erano occupate dai Russi in guerra con la Repubblica, perciò Kmita, non potendo recarsi a Podlyasye per la strada maestra che conduceva da Kovno a Grodino ed a Byalystok, prese le strade traversali, e passando presso Vilkovo giunse nella provincia di Trotsk.
Tutto quel tratto di strada, che non era molto lungo, era abbastanza tranquillo, trovandosi il paese sotto la mano di Radzivill.
Città, ed anche villaggi, erano presidiati da distaccamenti venuti dal castello del Capitano generale, o da piccoli plotoni di cavalleria svedese.
Zolotarenko sarebbe stato contento di venire alle mani con gli Svedesi come aveva detto il Capitano generale, ma i suoi alleati non volevano guerra contro di essi, o in ogni caso desideravano di protrarla il più possibile. Del resto Zolotarenko aveva precisi ordini di non attraversare il fiume, e nel caso che Radzivill stesso, in unione cogli Svedesi, movesse verso il fiume, di ritirarsi colla massima sollecitudine.
Per queste circostanze tutta la parte del paese sulla destra del Vilna era tranquilla; ma siccome da una parte i picchetti dei Cosacchi, e dall'altra quelli Svedesi e di Radzivill, si guardavano gli uni e gli altri con diffidenza; un semplice sparo di moschetto avrebbe potuto da un momento all'altro scatenare una guerra terribile.
Pan Andrea incontrava ad ogni momento moltitudini di contadini con le mogli ed i figli, che spingevano innanzi a loro mandre di pecore, di cavalli, e di bestiame. La parte della provincia di Trotsk confinante coll'Elettorato prussiano era ricca e produttiva; per il che vi accorreva la gente, la quale aveva qualcosa da porre in salvo. Il prossimo inverno non isgomentava i fuggitivi, i quali preferivano aspettar giorni migliori fra le foreste, in capanne coperte di neve, anzichè aspettare la morte nei loro villaggi per mano del nemico.
Spesso Kmita si accostava a quei crocchi, o ai fuochi accesi di notte nell'interno delle foreste. Dappertutto dov'egli incontrava gente venuta dalla riva sinistra del Vilna, dalle vicinanze di Kovno o da punti più lontani della provincia, egli udiva terribili racconti delle crudeltà di Zolotarenko e dei suoi alleati, i quali sterminavano le popolazioni senza riguardo nè a età, nè a sesso: incendiavano villaggi e tagliavano gli alberi dei giardini non lasciando in verun luogo se non terra e acqua. Le orde tartare, non avevano mai lasciato dietro di loro tanta desolazione.
Non solo la morte era inflitta agli abitanti, ma prima della morte erano sottoposti alle più ingegnose torture. Molti fuggitivi stendevano le mani a Kmita ed ai suoi uomini implorando pietà e protezione, come se il nemico stesse ancora alle loro spalle. Delle carrozze, appartenenti ai nobili, movevano verso la Prussia, trasportando vecchi, donne e fanciulli. I servi li seguivano nei carri con masserizie, provvigioni, ed altre cose.
Tutta questa gente era in preda ad invincibile panico, ed oltre a ciò tormentati dal dispiacere di dover andarsene in esilio.
Pan Andrea confortava questi sfortunati, dicendo loro che ben presto verrebbero gli Svedesi, che scaccierebbero ben lontano Zolotarenko con i suoi Cosacchi. E quelli, alzando le mani al cielo, esclamavano:
— Dio conceda salute e fortuna al principe Voivoda! Quando verranno gli Svedesi, noi ritorneremo alle nostre terre, alle nostre case bruciate.
E dappertutto il principe era benedetto. Correvano di bocca in bocca notizie, ch'egli da un momento all'altro avrebbe traversato il Vilna alla testa delle sue truppe e degli Svedesi. Inoltre, lodavano la moderazione di quest'ultimi, la loro disciplina ed il buon tratto cogli abitanti. Radzivill era chiamato il Gedeone della Lituania, un Sansone, un salvatore. Questa gente che fuggiva da luoghi fumanti di sangue e di fuoco, guardavano a lui come ad un liberatore.
Quando Kmita ebbe oltrepassato Pilvinski sul Sheshupa, trovò popolazioni che vivevano tranquille nelle loro case. I cittadini lo informarono che, poco meno di due giorni prima, una forte banda d'uomini di Zolotarenko, in numero di circa cinquecento, li avevano assaliti, volendo, secondo il loro costume, trucidare tutti quanti ed appiccare il fuoco alle loro abitazioni. Ma un aiuto inaspettato era sopraggiunto a salvarli.
— Noi ci eravamo già raccomandati a Dio — disse il padrone dell'albergo in cui Pan Andrea aveva preso alloggio — quando i santi ci mandarono alcuni squadroni. Noi pensammo, in sulle prime, che si trattasse di un nuovo nemico, ma invece erano dei nostri. Essi slanciaronsi immediatamente sui malandrini, e dopo un'ora li avevano stesi tutti al suolo, tanto più facilmente in quanto che noi tutti li aiutammo.
— Che sorta di squadroni eran quelli? — domandò Pan Kmita.
— Che Dio li compensi! Essi non dissero chi erano, e noi non osammo chiederlo. Ristorarono i loro cavalli, presero quanto fieno e pane vi era, e se ne andarono.
— Ma donde venivano? dove andarono?
— Venivano da Koslova Ruda, e si diressero verso il Sud. Noi, che volevamo prima fuggire nei boschi, abbandonammo il pensiero, e ci fermammo, perchè il Sotto-Starosta7 ci disse, che, dopo quella lezione, il nemico non sarebbe certo ritornato tanto presto a molestarci.
La notizia di questa battaglia interessò sommamente Kmita, il quale chiese di nuovo:
— E non sapete voi chi comandava quello squadrone?
— Noi non lo sappiamo: ma abbiamo veduto il colonnello, il quale parlò con noi sulla piazza. È giovane, piccolo e magro. Non lo si direbbe quel guerriero che è.
— Volodyovski! — esclamò Kmita.
— Se sia Volodyovski non lo so, ma sieno benedette le sue mani.
Pan Andrea cadde in profonda meditazione. Era evidente ch'egli viaggiava sulla stessa strada dove pochi giorni prima era passato Volodyovski con gli uomini di Lauda. Infatti, ciò era naturale, poichè ambedue erano diretti a Podlyasye. Ma allora Pan Andrea pensò che, se avesse affrettato il cammino, avrebbe potuto imbattersi col piccolo cavaliere ed essere catturato; nel qual caso tutte le lettere di Radzivill cadrebbero in possesso dei confederati. Un tale evento avrebbe distrutto la sua missione o recato Dio sa quale danno alla causa di Radzivill. Perciò Pan Andrea stabilì di fermarsi per un paio di giorni a Pilvinski, onde lo squadrone di Lauda potesse aver tempo di portarsi il più lontano possibile.
Gli uomini ed i cavalli avevano viaggiato quasi in una sola tappa da Kyedani, ed avevano bisogno di riposo.
Il giorno successivo egli s'accorse che aveva agito saviamente, perchè la mattina seguente, appena si era alzato, gli comparve dinanzi l'albergatore, dicendogli:
— Ho notizie da dare a Vostra Grazia.
— Sono buone?
— Nè buone, nè cattive; semplicemente che abbiamo qui degli ospiti. Una numerosissima comitiva è arrivata questa mattina, e si è fermata in casa dello Starosta. Con questa comitiva è giunto un reggimento di fanteria ed un grosso corpo di cavalleria, con un gran numero di carri e di servi! Si credeva che fosse arrivato il Re in persona.
— Qual Re?
L'albergatore rimase imbarazzato a questa domanda.
— È vero che noi abbiamo adesso due Re, — diss'egli, — ma non si tratta nè dell'uno nè dell'altro. È arrivato solamente il principe.
— Quale principe? Il principe Bogoslavio?
— Sì, Vostra Grazia; il cugino del principe Voivoda di Vilna.
Pan Andrea battè le mani in segno di sorpresa, ed esclamò:
— Che fortuna che ci siamo incontrati!
L'albergatore, udendo che il suo ospite era una conoscenza del principe Bogoslavio, fece un profondo inchino ed uscì dalla camera. Kmita cominciò a vestirsi in fretta, e poco dopo si trovava davanti alla casa dello Starosta.
Tutta la città era gremita di truppe. I soldati mettevano in fascio i fucili sulla piazza; molti si aggiravano per le strade, molti stavano fermi davanti alle case. Gli ufficiali parlavano il tedesco o il francese; qui si vedeva un soldato polacco, là un'uniforme francese; i moschettieri e i dragoni indossavano delle divise diverse da quelle degli squadroni stranieri che Pan Kmita avea visto a Kyedani. I soldati eran tutti uomini ben fatti e così eleganti, che, visti nei ranghi, potevano esser presi per ufficiali.
Kmita si fece annunziare per mezzo d'un ufficiale di guardia. Dopo qualche istante l'ufficiale ritornò in fretta, dicendo che il principe era ansioso di vederlo.
L'ufficiale gli fece attraversare l'anticamera fermandosi poi davanti ad una porta, s'inchinò, e disse a Pan Andrea:
Pan Andrea entrò e si arrestò sulla soglia. Il principe stava seduto dinanzi ad uno specchio in un angolo della camera, ed era tanto occupato a guardare la sua faccia imbellettata di rosso e di bianco, che non fece attenzione al sopravvenuto. Due camerieri, inginocchiati davanti a lui, gli allacciavano i fermagli degli alti stivali, mentre egli, pian piano, si aggiustava il ciuffo della sua lussureggiante capigliatura bionda.
Era un uomo ancor giovane, forse sui trentacinque anni, ma non ne dimostrava più di venticinque.
Kmita conosceva il principe, ma lo guardava con crescente curiosità.
Il principe era alto e poderosamente costrutto; se non che, sopra le sue larghe spalle posava una testa così piccola che pareva tolta da un altro busto. La sua faccia era pure singolarmente piccola, quasi fanciullesca, e non eravi alcuna proporzione fra i lineamenti e il maestoso naso aquilino, e gli enormi occhi dallo sguardo i lince. Alla vista di quel naso e di quegli occhi, il resto della faccia, circondato da una selva di lunghi capelli inanellati, scompariva quasi completamente. La sua bocca poi, era una bocca da fanciullo; e su di essa una leggiera lanuggine copriva appena il labbro superiore. La delicatezza della sua pelle, esagerata dalle tinture, lo faceva sembrare una fanciulla. Ma nello stesso tempo l'insolenza, l'orgoglio, ed una estrema fiducia in sè stesso, che spiravano dalla sua fisonomia, non lasciavano dimenticare ch'egli era quel famoso cercatore di contese — chercheur de noises — come lo avevano soprannominato alla Corte francese.
Kmita esaminava con grande interesse la faccia di Bogoslavio, riflessa dallo specchio. Finalmente, quando Pan Andrea ebbe tossito una o due volte, il principe disse, senza volgere la testa:
— Ma chi c'è là? Un messaggero del principe Voivoda?
— Non un messaggero ma un inviato — rispose Pan Andrea.
Allora il principe si volse, e al vedere quel brillante cavaliere, si accorse che non aveva a che fare con un messaggiero qualunque.
— Scusate, cavaliere — disse affabilmente. — La vostra faccia non mi è nuova, sebbene non rammenti il vostro none.
— Il mio nome è Kmita — rispose Pan Andrea. — Sono colonnello dal giorno in cui condussi il mio squadrone al Capitano generale.
— Kmita! — esclamò il principe; — quello stesso Kmita che si rese celebre nell'ultima guerra assalendo Hovanski? Ho udito parlare molto di voi.
Così dicendo il principe si diede ad osservare più attentamente e con una certa compiacenza Pan Andrea, essendochè, da quanto aveva udito dire, intravvedeva in lui un uomo che corrispondeva ai suoi gusti.
— Sedete — gli disse. — Io sono molto contento di conoscervi più intimamente. E che cosa si dice a Kyedani?
— Eccovi una lettera del principe, — rispose Kmita.
I servi uscirono. Il principe ruppe il suggello e cominciò a leggere. Mentre leggeva, apparve sulla sua faccia una espressione di contrarietà e di disgusto. Gettò la lettera dietro lo specchio, e disse:
— Nulla di nuovo. Il principe Voivoda mi consiglia di andare in Prussia, a Tyltsa od a Tanrogi, il che, come vedete, sto già facendo. Ma non comprendo mio cugino. Egli m'informa che l'Elettore si trova a Brandeburgo, e che non può passare attraverso gli Svedesi, e nel medesimo tempo mi rimprovera perchè non comunico con lui. Come posso io regolarmi? Se l'Elettore non può passare attraverso agli Svedesi, come potrebbe farlo il mio messaggero? Io rimasi a Podlyasye, perchè non avevo altro a fare. Vi assicuro, cavaliere, che sono estremamente annoiato. Ho ammazzato tutti gli orsi intorno a Tykotsin; le belle donne di quella regione odorano di pelle di pecora, odore che non posso sopportare. Comprendete voi il francese o il tedesco?
— Comprendo il tedesco, — rispose Kmita.
— Grazie a Dio! Parlerò tedesco, perchè le mie labbra si ribellano a parlare il vostro linguaggio.
S'interruppe per un istante, guardò nello specchio, e poi continuò:
— Sono stato informato che nel paese di Lukovo un nobile, chiamato Skshetuski, possiede una moglie di una bellezza impareggiabile. Lukovo è lontano, ma io mandai a rapirla. Lo credereste, Pan Kmita?... non l'hanno trovata in casa.
— È stata una fortuna — disse Pan Andrea — perchè essa è moglie d'un onorevole cavaliere, uomo celebre, che uscì da Zbaraj con i suoi soldati ed attraversò l'intero esercito di Hmelnitski.
— Peccato! Se lo avessi saputo avrei assediato la moglie a Tykotsin, mentre il marito era assediato a Zbaraj. Credete ch'ella avrebbe resistito così ostinatamente come suo marito?
— Altezza, per un assedio di tal genere non occorre un consiglio di guerra — replicò Pan Kmita bruscamente.
— È vero — disse il principe. — Ritorniamo dunque agli affari. Avete qualche altra lettera?
— Quella che avevo per Vostr'Altezza l'ho consegnata. Ne ho una per il Re di Svezia. Vostra Altezza sa forse dove potrei trovarlo?
— Io non so nulla. So che non è in Tykotsin, perchè s'egli avesse veduto quel paese avrebbe rinunciato a regnare su tutta la Repubblica. Varsavia è ora nelle mani degli Svedesi, ma voi non vi troverete il Re. Dev'essere dinanzi a Cracovia, se non è andato in Prussia. A parer mio, Carlo Gustavo è obbligato a non perdere di vista le città prussiane, giacchè non può lasciarle dietro di sè. Chi si sarebbe aspettato che, mentre l'intera Repubblica abbandona il Re Giovanni Casimiro ed i nobili si uniscono agli Svedesi; mentre le provincie si arrendono l'una dopo l'altra, le città tedesche e protestanti non avrebbero voluto saperne di loro, e si preparerebbero alla resistenza? In principio noi credevamo che le cose dovessero camminare diversamente, cioè, che essi avrebbero aiutato noi e gli Svedesi a dividere quella torta che voi chiamate la vostra Repubblica; ma ora non vogliono muoversi! Fortuna che l'Elettore le tiene d'occhio. Egli ha già offerto loro aiuto contro gli Svedesi; ma le popolazioni di Danziga non si fidano di lui, e dicono che hanno forze bastanti per difendersi.
— Questo lo abbiamo già saputo a Kyedani — disse Kmita.
— Se essi non hanno forze bastanti, in ogni caso hanno buon naso — continuò il principe ridendo. — Ritengo che l'Elettore s'interessi tanto della Repubblica quanto vi penso io o quanto vi pensa il principe Voivoda di Vilna.
— Permettetemi, Altezza, di non condividere la vostra opinione, — disse Kmita bruscamente. — Il principe s'interessa moltissimo della Repubblica, per la quale è pronto a dare l'ultimo suo sospiro e l'ultima goccia del suo sangue.
Il principe Bogoslavio scoppiò in una sonora risata.
— Voi siete giovane, cavaliere, molto giovane! Ma basta! Mio zio, l'Elettore, desidera impadronirsi della Prussia, e solamente per questa ragione offre il proprio aiuto. Una volta ch'egli abbia in sua mano le città prussiane e vi tenga le sue guarnigioni, sarà pronto ad allearsi, non solo cogli Svedesi, ma anche coi Turchi e col diavolo. Che gli Svedesi abbiano una parte della Grande Polonia, e sarà pronto ad aiutarli con tutto il suo potere a prendersi il resto.
— Io odo con istupore le parole di Vostr'Altezza — disse Kmita.
— Ho dovuto rimanere tanto tempo inerte a Podlyasye — rispose il principe — per colpa di mio cugino. Eravamo d'accordo, che, finchè non si fossero risoluti gli affari in Prussia, io non dovevo dichiararmi pubblicamente dalla parte degli Svedesi. E ciò era giusto, perchè così almeno una porta rimane aperta. Ho anzi mandato corrieri segreti a Giovanni Casimiro, ad annunciargli che ero pronto a chiamare la milizia generale a Podlyasye. Il Re, come Re sarebbe forse caduto nella pania; ma la Regina non mi crede, e dev'esser stata prevenuta di ciò. Se non fosse stato per quella donna, io mi troverei oggi alla testa di tutti i nobili di Podlyasye; e, quel ch'è più, a quei confederati, che vanno ora saccheggiando la proprietà del principe Giovanni non sarebbe rimasta altra scelta che servire sotto i miei ordini. Io mi sarei dichiarato partigiano di Giovanni Casimiro; ma, in realtà, col potere in mano, avrei trattato cogli Svedesi. Ma quella donna sa come cresce l'erba e indovina i pensieri più segreti. Ella non è la Regina; ella è il Re. Ha più criterio nel suo dito mignolo, che Giovanni Casimiro in tutta la sua testa.
— Il principe Voivoda — prese a dire Kmita.
— Il principe Voivoda — interruppe Bogoslavio con impazienza — è eternamente tardivo col suo consiglio; egli scrive a me in ogni lettera: «Fate questo, fate quello» quando io l'ho già fatto da tempo. Inoltre perde la testa: poichè sentite cosa mi domanda:
Qui il principe prese la lettera e cominciò a legger forte:
«Siate cauto anche voi cammin facendo; e pensate al modo di sterminare quei birbanti, che si sono ammutinati contro di me e vanno saccheggiando nei dintorni di Podlyasye, prima che essi raggiungano il Re. Essi si preparano a visitare Zabludovo; in quel luogo la birra è forte: quando si saranno ubbriacati fateli trucidare tutti quanti».
Bogoslavio gettò la lettera sulla tavola con fare sprezzante.
— Ascoltate, Pan Kmita — diss'egli. — Voi vedete che io devo andare in Prussia, e nello stesso tempo preparare un macello a Zabludovo. Bisogna che io mi finga un partigiano di Giovanni Casimiro e patriota, e nello stesso tempo devo fare a pezzi quella gente che non vuole tradire il Re e la patria. Vi è senso in tutto ciò? Il principe perde la testa. Ho incontrato, venendo a Pilvinski, un intero squadrone d'insorti che andavano a Podlyasye. Avrei galoppato sui loro petti con piacere, se non fosse altro per divertirmi un poco; ma non essendo ancora un partigiano dichiarato degli Svedesi non posso prendermi un tal gusto. Non posso fare altro che essere gentile verso quegl'insorti, i quali sono gentili con me, pur sospettandomi d'accordo col Capitano generale senza averne una prova reale.
A questo punto il principe si lasciò cadere comodamente in una poltrona, distese le gambe, e si diede a ripetere:
— Non c'è senso comune in questa Repubblica.
Tacque un momento; evidentemente qualche idea gli attraversava la mente, perchè si colpì la fronte e disse:
— Ma voi non dovete andare a Podlyasye?
— Sì, e quindi dal Re e da Pan Lyubomirski.
— Ah! voi avete una lettera per il maresciallo del Regno? Ebbene, indovino di che si tratta. Una volta il maresciallo pensava di unire in matrimonio suo figlio con la figlia di Giovanni. Non parlò forse mio cugino di riprendere le trattative?
— Quest'è appunto la mia missione, — replicò Kmita. — Sono ambedue fanciulli. È una missione delicata, giacchè non conviene parlare al Capitano generale per il primo. Del resto...
Qui il principe rimase pensieroso per un istante, indi soggiunse:
— Nulla avverrà di tutto ciò. La figlia del Capitano generale non è destinata a sposare Eraclio. Mio cugino deve sapere, che la sostanza deve rimanere in possesso dei Radzivill.
Kmita guardò attonito il principe Bogoslavio, che passeggiava con passo concitato per la stanza.
Tutto ad un tratto questi si fermò dinanzi a Pan Andrea, e disse: — Datemi la vostra parola di cavaliere, che risponderete sinceramente alla mia domanda.
— Principe — disse Kmita, — solamente quelli che hanno paura mentiscono ed io non ho paura di nessuno.
— Il principe Voivoda vi ha dato ordine di tenermi segrete le trattative con Lyubomirski?
— Se avessi avuto quest'ordine non avrei fatto menzione di Lyubomirski.
— Esiste un patto fra me e il principe Voivoda, che sua figlia e la sua sostanza sono destinate a me. Quale fedele servitore dei Radzivill, voi dovete saper tutto.
— Vi ringrazio della confidenza: ma Vostr'Altezza è in errore. Io non sono un servitore dei Radzivill.
Bogoslavio spalancò gli occhi: — Che cosa siete voi?
— Io sono colonnello del Capitano generale, e suo parente.
— Parente?
— Sono parente dei Kishki e la madre del principe, Giovanni era una Kishki.
Il principe Bogoslavio contemplò per qualche tempo Kmita, sulla cui faccia apparve un leggero rossore. Ad un tratto gli stese la mano, e disse:
— Scusatemi, cugino; sono ben contento della parentela.
Le ultime parole le aveva pronunciate con una gentilezza ostentata nella quale eravi qualche cosa di penoso per Pan Andrea. La sua faccia arrossì ancor più, ed apriva già la bocca per dare al principe una risposta alquanto risentita, quando la porta si aprì ed apparve Harasimovich.
— Una lettera per voi — gli disse Bogoslavio.
Harasimovich prese la lettera e lesse ad alta voce:
«Pan Harasimovich! È tempo di mostrare la vostra buona volontà di fedel servitore del vostro signore. Quanto più denaro potete radunare a Zabludovo, a Orel, entrate pubbliche, rendite, mandate ogni cosa in Prussia, con cavalli e cannoni, evitando quei traditori che hanno suscitato disordini e rivolte nel mio esercito e vanno saccheggiando i miei possedimenti.
«So che essi muovono verso Zabludovo, probabilmente per raggiungere il Re. È difficile combatterli; ma se li riceverete a Zabludovo, darete loro ben bene da bere, si potrebbe ucciderli di notte tempo, oppure avvelenarli con una birra forte, oppure anche farli trucidare da una banda selvaggia...»
Finita la lettura, il Sotto Starosta guardò il principe Bogoslavio aspettando istruzioni; e il principe disse:
— Vedo che mio cugino fa gran caso dei confederati: soltanto è un peccato che, come al solito, giunga troppo tardi. Ma ora... andatevene con Dio, Harasimovich: non ho bisogno di voi.
Harasimovich s'inchinò ed uscì.
Il principe Bogoslavio si pose di nuovo dinanzi allo specchio, e ricominciò ad esaminare attentamente il suo viso, senza curarsi di Kmita che stava seduto in un angolo con le spalle rivolte verso la finestra.
Ma se avesse dato una sola occhiata a Pan Andrea, si sarebbe accorto che nel giovane inviato avveniva qualche cosa di strano. Il suo viso era pallido; dalla fronte gli stillavano goccie di sudore, e le mani erano convulsamente contratte. Dopo alcun tempo si alzò ad un tratto; ma tosto sedette nuovamente, come uomo che lotta per reprimere uno scoppio di rabbia e di disperazione. Alla fine le sue fattezze si ricomposero; evidentemente, impiegando tutta la sua forza di volontà e tutta l'energia del suo carattere, gli riescì di calmarsi, e di riacquistare tutta la sua presenza di spirito.
— Altezza, — diss'egli, — dalla fiducia che il Capitano generale ripone in me, voi comprenderete ch'egli non mi nasconde nulla. Io appartengo anima e corpo alla sua impresa; con lui e con Vostra Altezza la mia fortuna può fiorire: quindi io vi seguirò ovunque. Sono pronto ad ogni cosa. Ma, sebbene io sia implicato in queste faccende, non comprendo bene ogni cosa, nè la mia debole mente può penetrare in tutti questi segreti.
— Che cosa desiderate sapere, signor cavaliere, o piuttosto, caro cugino?
— Desidero di essere istruito, Altezza; sarebbe una vergogna se non cercassi d'imparare al lato di cosiffatti uomini di Stato. Io non so se Vostra Altezza si compiacerà di rispondermi senza riserva...
— Ciò dipenderà dalla natura delle domande, e dal mio umore, — rispose Bogoslavio, non cessando di guardarsi lo specchio.
Gli occhi di Kmita sfavillarono per un istante, ma continuò con calma:
— Ecco la mia domanda: il principe Voivoda di Vilna difende tutti i suoi atti citando il bene e la salvezza della Repubblica, per modo che la Repubblica è continuamente sulle sue labbra. Compiacetevi di dirmi sinceramente: quest'amore di patria è desso un pretesto, oppure il Capitano generale non ha altro di mira che il benessere della Repubblica?
Bogoslavio gettò una rapida occhiata su Pan Andrea. — Se io dicessi che è un pretesto, continuereste voi a parteggiare per lui? — diss'egli.
Kmita si strinse nelle spalle.
— Oh! certamente. Come ho detto, la mia fortuna è unita a quella di Vostr'Altezza e del Capitano generale. Purchè io raggiunga il mio scopo, il resto poco m'importa.
— Ma perchè mio cugino non ha parlato apertamente con voi?
— Forse per una certa delicatezza: oppure perchè non se ne è presentata l'occasione.
— Avete ingegno pronto, cugino, perchè è proprio vero ch'egli è assai delicato, e mostra malvolentieri la sua vera pelle. Perciò, anche quando parla con me si dimentica, ed incomincia ad adornare il suo discorso coll'amore per la patria. Quando io gli rido in faccia, rientra in sè, e dice: — È vero, è vero!
— Dunque è semplicemente un pretesto? — osservò Kmita.
Il principe tacque per un momento come riflettendo; poi disse:
— Uditemi, Kmita. Se noi Radzivill vivessimo in Ispagna, in Francia o in Svezia, dove il figlio eredita dal padre, e dove il diritto alla dignità regale viene da Dio stesso, allora, lasciando da parte la guerra civile, l'estinzione della dinastia, od altro qualsivoglia straordinario evento, noi dovremmo fermamente servire il Re e la patria, contenti degli alti uffici che ci appartengono per nascita o per favore di fortuna. Ma qui, in questa terra, dove il Re non è protetto dal diritto divino, ma è creato dai nobili, dove ogni cosa risiede nel libero suffragio, noi domandiamo a noi stessi con ragione... Perchè dovrebbe governare un Vaza e non un Radzivill? Non vi sarebbe alcuna obbiezione contro i Vaza, ma chi ci assicura che dopo i Vaza i nobili non avranno il capriccio di porre sul trono del regno e del Gran Principato di Lituania, magari un Pan Harasimovich, o un Pan Myeleshko, o un Pan Pyeglavyevich? Possiamo noi indovinare chi vorranno eleggere? E noi Radzivill, principi dell'Impero germanico, potremmo rassegnarci a baciar la mano di Re Pyeglasyevich? Per tutti i diavoli, cavaliere, gli è tempo di finirla! Molti principi tedeschi, inferiori a noi, hanno i loro principati, governano, ed hanno la precedenza su noi quantunque sarebber piuttosto degni di portare gli strascichi dei nostri mantelli.
Così dicendo, il principe si alzò in piedi vivacemente e si diede a passeggiare per la stanza.
— Ciò che avviene qui con gli Svedesi, non è mai avvenuto in nessun luogo della terra. Un rapace invasore ci assale, e non solamente il paese non gli oppone resistenza, ma abbandona il suo Re e si getta in braccio ad un altro. La storia del mondo intiero non cita un altro esempio consimile! Quale sorta di uomini popola la Repubblica!... Gente senza coscienza, senza ambizione. E un tale paese non deve perire?
Kmita impallidiva sempre più; ma riuscì a frenare l'ira che lo invadeva; il principe, tutto assorto nel suo dire, non gli faceva attenzione.
— Si costuma in questo paese, quando un uomo è agli estremi, di togliergli il guanciale di sotto la testa perchè soffra meno. Io ed il principe Voivoda di Vilna, abbiamo determinato di rendere quest'ultimo servigio alla Repubblica. Ma siccome numerosi sono i pretendenti all'eredità, e noi non vogliamo abbandonarla tutta, vogliamo che almeno una parte (e non una piccola parte) ne venga a noi. Rimanga pure Hmelnitski in Ucrania; si tengano gli Svedesi e l'Elettore la Prussia e la Grande Polonia; e Rakotsy, o chi si trova più vicino, si prenda la Piccola Polonia... La Lituania deve rimanere a noi, e finalmente venire a me con la mano della figlia di mio cugino.
Kmita si levò repentinamente.
— Vi ringrazio, Altezza, — diss'egli. — So tutto ciò che volevo sapere.
— Sì.
Il principe osservò attentamente Kmita, e solo in quel momento notò il suo pallore e la sua eccitazione.
— Che avete, Kmita? — gli chiese; mi sembrate un fantasma.
— La stanchezza mi opprime, mi sento girare il capo. Ritornerò prima di partire per salutarvi.
— Affrettatevi, perchè dopo mezzogiorno parto anch'io.
— Ritornerò fra un'ora al più tardi.
Nel dire così Kmita s'inchinò e uscì. Nell'anticamera i servi si alzarono al suo apparire, ma egli passò come un ubbriaco, senza vedere nessuno. Sulla soglia si prese la testa fra le mani, e ripetè in tono lamentevole:
— Gesù di Nazaret, Re dei Giudei! Gesù, Maria, Giuseppe!
Passò barcollando fra le guardie. Fuor della porta stavano i suoi uomini della scorta, alla cui testa era Soroka.
— Seguitemi — disse Kmita. — E s'avviò verso l'albergo.
Soroka, vecchio soldato di Kmita, cui conosceva a fondo, s'accorse tosto che al colonnello era accaduto un non so che d'insolito.
Kmita correva, scoteva la testa e borbottava parole incoerenti.
Soroka non potè afferrare che poche frasi sconnesse...
— Avvelenatori, mancatori di parola, traditori!...
Poi il giovane cavaliere pronunciava il nome de' suoi vecchi camerati. Kokosinski, Kulvyets, Ranitski, Rekuts, e più volte ripetè il nome di Volodyovski. Soroka ne fu meravigliato e quasi allarmato, ma pensò:
— Certo deve scorrer sangue: non può essere diversamente.
Giunti all'albergo, Kmita si rinchiuse tosto nella sua stanza e non diè segno di vita per circa un'ora. I soldati intanto avevano sellati i cavalli senza averne avuto l'ordine.
Ad un tratto egli apparve sulla soglia della sua camera, e gridò:
— Sono già sellati, — rispose Soroka.
— Bravi! — esclamò il giovane colonnello molto contento che i soldati avessero prevenuto il suo pensiero.
— Due uomini prenderanno i cavalli con i bagagli e muoveranno immediatamente verso Dembova. Attraverseranno al passo la città, ma fuori si metteranno al galoppo, e non si fermeranno che nella foresta.
— Sarete ubbidito.
— Gli altri quattro caricheranno le loro pistole. Sellate due cavalli per me; e tenetene pronto un altro.
— L'ho detto, che vi sarebbe qualche cosa di nuovo, — mormorò Soroka.
Kmita rientrò nella sua camera, e riapparve dopo mezz'ora completamente vestito e pronto per la partenza. I soldati notarono sotto alla sua giubba l'orlo d'una maglia d'acciaio. La spada era appesa in alto perchè si potesse più facilmente impugnare. Il suo viso era abbastanza calmo, ma severo e minaccioso. Gettò uno sguardo sui soldati, ed accertatosi che erano bene armati, montò a cavallo e partì. Soroka gli cavalcava al fianco; altri tre soldati li seguivano conducendo un cavallo a mano. Dopo alcuni istanti si trovaron sulla piazza piena di truppe di Bogoslavio, tra le quali regnava un grande movimento; pareva che avessero ricevuto l'ordine di prepararsi per la partenza. Gli uomini accomodavano le staffe e sellavano i cavalli. La fanteria riprendeva i moschetti. Altri attaccavan cavalli ai carri. Kmita guardava intorno a sè con aria pensierosa.
A un tratto si volse verso Soroka, e gli disse:
— Dalla casa dello Starosta la strada continua oppure occorre ripassare per questa piazza?
— Dove andiamo, colonnello?
— A Dembova.
— Allora possiamo proseguire lasciando la piazza dietro di noi.
— Va bene! — disse Kmita, di nuovo pensieroso.
Attraversata la piazza, presero la strada che conduceva alla casa dello Starosta, situata poco lontano.
— Alt! — gridò Kmita ad un tratto. I soldati si fermarono, e fissarono gli sguardi su di lui. — Siete pronti a morire? — egli chiese loro bruscamente.
— Siamo pronti, — risposero tutti ad una voce.
— Bisogna fare qualche cosa di grande quest'oggi, — soggiunse il giovane cavaliere. — Se riesciamo, il nostro Re vi farà tutti nobili, ve lo garantisco! Se l'impresa non riesce, sarete impalati.
— Perchè non deve riescire? — domandò Soroka, i cui occhi brillavano come quelli d'un lupo.
— Riesciremo! — dissero gli altri... che si chiamavano Biloüs, Zavratynski e Lubyenyts.
— Dobbiamo rapire il principe Bogoslavio, — disse Kmita. Poi tacque, volendo vedere quale impressione faceva il suo ardito disegno sui soldati. Ma essi pure tacquero, e lo guardarono stupefatti.
— Il palo è vicino: il premio è lontano, — disse Kmita.
— Siamo in pochi, — mormorò Zavratynski.
— È più rischioso che contro Hovanski — disse Lubyenyets.
— Le truppe sono tutte sulla piazza del mercato; davanti alla casa vi sono soltanto le sentinelle e in casa una ventina di servi, — soggiunse Pan Andrea, — i quali non sono armati.
— Se voi arrischiate la vostra testa, Pan colonnello, perchè non arrischieremo noi le nostre? — disse Soroka.
— Uditemi, — continuò Kmita. — Se non lo prendiamo coll'astuzia, non lo prenderemo mai più! Io entrerò nella sua stanza, e dopo qualche tempo uscirò col principe. Se il principe monta sul mio cavallo, io monterò sull'altro e partiremo. Quando avremo percorso un cento o centocinquanta passi prendetelo da ambi i lati per le spalle e mettete i cavalli al galoppo serrato.
— Sarete obbedito, — rispose Soroka.
— Se io non esco, — seguitò Kmita — e voi udite uno sparo nella camera, allora tratterrete le sentinelle, appuntando loro le pistole alla gola, e mi terrete pronto il mio cavallo onde io possa salirvi appena mi slancierò fuori dal portone.
— Obbediremo, — rispose Soroka.
Mossero innanzi, e un quarto d'ora dopo si fermarono alla porta della casa dello Starosta, davanti alla quale stavano di guardia sei alabardieri.
Kmita si fece annunciare come la prima volta per mezzo dello stesso ufficiale, che ritornò tosto, dicendogli che poteva entrare.
— Come state, cavaliere? — gli chiese il principe allegramente. — Voi mi lasciaste in modo così brusco che io pensai vi foste scandalizzato per le mie parole, e che non sareste ritornato; quindi non vi aspettavo.
— Non avrei potuto partire senza porgervi i miei omaggi.
— Il principe Voivoda ripone, come vedo, molta fiducia in voi, — riprese a dire il principe Bogoslavio, — perciò ho pensato di affidarvi anch'io delle lettere per alcuni personaggi importanti, e per lo stesso Re di Svezia. Ma perchè siete armato come per una battaglia? — soggiunse interrompendosi.
— Devo passare in mezzo ai confederati, Altezza, che si trovano nei dintorni. A Pilvinski essi sterminarono gli uomini di Zolotarenko. Alla testa di quei squadroni sta un famoso guerriero.
— Chi è?
— Pan Volodyovski. E con lui sono Mirski, Oskyerko, e i due Skshetuski, uno dei quali è il marito di quella donna che Vostr'Altezza voleva rapire. Tutti ribelli al principe Voivoda, ed è un peccato, perchè sono buoni soldati. Vi sono pur troppo degl'insensati nella Repubblica, che non vogliono saperne di far lega coi Cosacchi e con gli Svedesi.
— Non v'è mai penuria di pazzi nel mondo, e meno ancora in questo paese, — replicò il principe. — Ecco le lettere. Disimpegnate bene la vostra missione, cavaliere, ed io ve no sarò grato e non mi lascierò sorpassare dal Capitano generale nel ricompensarvi.
— Se tale è il proposito di Vostr'Altezza, io domando la ricompensa in anticipazione.
— Potete contarvi con certezza. Senza dubbio mio cugino non vi ha fornito troppo abbondantemente di denaro per il viaggio.
— Dio mi guardi dal chieder denaro! Non ne ho chiesto al Capitano generale e non ne prenderò da Vostr'Altezza. Io viaggio a spese mie, e così intendo fare in seguito.
Il principe Bogoslavio guardò con meraviglia il giovane cavaliere, indi gli chiese: — Che cosa desiderate dunque da me?
— Ecco di che si tratta. Partendo da Kyedani, ho preso, senza troppo pensarvi, un cavallo puro sangue, col proposito di presentarmi favorevolmente agli Svedesi. Non esagero, dicendo che non ve n'è uno migliore nelle scuderie di Kyedani Ora sono dispiacente d'averlo preso, temendo che patisca danno nelle stalle degli alberghi, e sulle strade per mancanza di riposo. E siccome le disgrazie sono sempre pronte, potrebbe cadere in mani nemiche, magari in quelle di Volodyovski, il quale è mio accanito nemico. Ho quindi pensato di pregare Vostr'Altezza, di tenerlo e di adoperarlo finchè io non venga a chiedervelo.
— Meglio sarebbe vendermelo.
— Impossibile... sarebbe come vendere un amico. Quel cavallo mi ha salvato almeno almeno un centinaio di volte dai più grandi pericoli; ed ha inoltre questa virtù, che in battaglia morde selvaggiamente il nemico.
— Davvero? — chiese il principe col più vivo interesse. — E dunque un cavallo raro?
— Rarissimo! Se fossi certo di non offendervi, scommetterei cento fiorini d'oro a occhi chiusi, che Vostr'Altezza non ne ha l'eguale nelle sue scuderie.
— Forse scommetterei, se non fosse perchè oggi non è giorno propizio per farne la prova. Tuttavia lo prenderò volentieri: se fosse possibile lo comprerei. Ma dov'è questo meraviglioso cavallo?
— Giù in istrada. Gli uomini della mia scorta lo conducono con loro a mano. È un cavallo, del quale andrebbe superbo anche il Sultano. Non è di questi paesi, ma di Anatolia; e in Anatolia, per quanto io so, non ne esiste uno simile.
— Andiamo a vedere questa meraviglia, — disse il principe.
— Sono ai vostri ordini, Altezza.
Davanti al portone gli uomini di Kmita tenevano per la briglia due cavalli completamente bardati, uno dei quali era davvero un animale stupendo.
— Indovino che è questo — disse Bogoslavio. — È, in realtà, un cavallo bellissimo.
— Provatelo — disse Kmita; — anzi, lo monterò io stesso.
Così dicendo pose il piede nella staffa e salì in sella. Sotto al valente cavaliere il cavallo pareva doppiamente bello. I suoi occhi prominenti acquistarono splendore quando fu messo al trotto; pareva mandasse fuoco dalle narici; mentre il vento ne scompigliava la criniera. Pan Kmita descrisse un circolo, poi cangiò l'andatura, e finalmente cavalcò incontro al principe.
— Che ve ne pare, Altezza? — gli chiese Kmita quando gli fu vicino.
— Ha gli occhi e le gambe d'un daino; il portamento d'un lupo; le narici d'un alce e il petto d'una donna! — disse Bogoslavio. — Capisce i comandi in tedesco?
— Sì; perchè il mio cavallerizzo Zend, che era un Curlandese, gli parlava sempre in tedesco.
— Ed è veloce?
— Il vento non gli sta al paro.
— Il vostro cavallerizzo doveva essere molto bravo. Vedo che il cavallo è mirabilmente ammaestrato.
— Questo animale ha l'intelligenza di un uomo, — osservò Kmita. — Provatelo voi stesso, Altezza.
— Lo proverò! — disse il principe, dopo di aver riflettuto un istante.
Kmita tenne il cavallo mentre Bogoslavio montava in sella. Il principe vi saltò leggermente, e si chinò, accarezzando il collo del superbo destriero.
— Qual direzione prendiamo? — diss'egli.
— Se Vostr'Altezza lo permette muoveremo verso la foresta. La strada è piana e larga e vi si può galoppare a briglia sciolta, mentre andando verso la città si potrebbero incontrare dei carri.
— Andiamo pure verso la foresta, — rispose Bogoslavio.
Nel dire così allentò le redini al cavallo che partì di gran carriera.
— Avanti! — comandò Kmita agli uomini della sua scorta che si slanciarono dietro di lui rapidi come il vento. Una nube di polvere li avvolse, celandoli agli occhi delle guardie e dei servi, i quali si erano aggruppati davanti alla porta e guardavano con curiosità la corsa. I cavalli avevano già percorso quasi mezzo miglio. Kmita si volse, e vedendo dietro di sè soltanto una nuvola di polvere, attraverso la quale non si distingueva più nulla, gridò con voce terribile:
— Prendetelo!
Biloüs ed il gigantesco Zavratynski si scagliarono tosto sul principe e lo afferrarono per le braccia, stringendogliele come in una morsa nei loro pugni d'acciaio. E dando di sprone ai loro cavalli continuarono la corsa sfrenata.
Lo stupore, l'apprensione, il vento che gli soffiava in viso, privarono il principe della parola. Egli fece un primo ed un secondo sforzo per svincolarsi dalla poderosa stretta dei due uomini, ma non vi riescì.
— Che è ciò, malandrini? Non sapete voi chi sono? — gridò alfine con voce strozzata dalla rabbia.
— È inutile la resistenza, Altezza — gli disse Kmita che cavalcava dietro di lui. — Mi costringereste a piantarvi una palla nella testa.
— Traditore! — ruggì il principe.
— E voi che cosa siete? — gli domandò Kmita.
Dopo di che continuarono a galoppare in silenzio.