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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Galoppavano con tale rapidità, che gli alberi parevano fuggire all'indietro spaventati. Di quando in quando, Bogoslavio si piegava innanzi sulla sella per fare un nuovo sforzo inutile; le sue braccia scricchiolavano fra le dita d'acciaio dei due soldati, mentre Pan Andrea lo prendeva di mira con la sua pistola, minacciandolo di fargli saltare le cervella.
Alla fine furono costretti a rallentare la corsa, perchè nè uomini, nè bestie, avevan più fiato. Del resto Pilvinski era ormai tanto lontano, che cessava ogni pericolo d'inseguimento. Cavalcarono quindi per qualche tempo al passo ed in silenzio.
Il principe tacque a lungo; certo procurava di calmarsi prima di parlare. Ad un tratto disse:
— Vostr'Altezza lo saprà alla fino del viaggio; — rispose Kmita.
Bogoslavio tacque di nuovo, ma dopo alcuni istanti, disse:
— Cavaliere, comandate a questi mascalzoni che mi lascino, perchè mi rompono le braccia. Se voi comandate loro di lasciarmi saranno solamente impiccati, altrimenti saranno condannati al palo.
— Essi sono nobili, non mascalzoni — rispose Kmita, — e, quanto alla punizione che Vostr'Altezza minaccia, non si sa chi la morte colpirà per primo.
— Sapete voi su chi avete portato le mani? — domandò il principe rivolgendosi ai soldati.
— Lo sappiamo, — essi risposero.
— Per mille diavoli! — esclamò Bogoslavio scattando. — Volete voi comandare a questa gente di lasciarmi andare, o no?
— Altezza, io ordinerò loro di legarvi le braccia dietro la schiena, così starete quieto.
— Impossibile! Voi mi disloghereste le braccia.
— Io potrei fidarmi d'un altro, che mi desse la sua parola di non tentare di fuggire, ma voi siete troppo abituato a mancare alla vostra, perciò non posso dare ordine di lasciarvi.
— Io vi darò un'altra parola — rispose il principe digrignando i denti. — Non solamente fuggirò alla prima occasione, ma vi farò trascinare a coda di cavallo appena cadrete nelle mie mani.
— Sarà fatto quel che Dio vuole! — disse Kmita. — Io preferisco una minaccia sincera ad una falsa promessa. Lasciategli le braccia, ma tenete il cavallo per la briglia. Altezza, vi avverto, che non ho che da toccare il cane della mia pistola per mandarvi una palla in corpo, e non sbaglierò, perchè io non sbaglio mai il mio punto di mira. State tranquillo, non cercate di fuggire.
— Io non mi curo nè di voi nè della vostra pistola.
Detto ciò, il principe si stirò le braccia per vincerne il torpore. I soldati afferrarono la briglia del suo cavallo.
Poco dopo Bogoslavio disse:
— Finiamola, Kmita. Se voi mi liberate subito, non mi vendicherò. Datemi solo la vostra parola d'onore che non parlerete con nessuno del mio rapimento e ordinerete agli uomini di tacere.
— Impossibile! — replicò Kmita.
— Volete una taglia?
— Oh no!
— Perchè dunque mi rapiste? Io non posso comprenderlo.
— Ci vorrebbe troppo tempo per spiegarvelo. Ve lo dirò in seguito.
— Che di meglio possiamo fare sulla strada se non parlare? Riconoscete, cavaliere, che mi avete rapito in un momento di collera e di disperazione, ed ora non sapete che farne di me.
— Quest'è affar mio, — rispose Kmita; — e vedrete fra poco se io non so cosa farne di voi.
Sul volto di Bogoslavio si dipinse la più viva impazienza.
— Non siete molto comunicativo, ma rispondete almeno sinceramente alla mia domanda: Venivate voi da me a Podlyasye, col proposito prestabilito di assalire la mia persona, oppure l'avete concepito negli ultimi momenti?
— Su ciò posso rispondervi sinceramente, perchè le mie labbra, infatti, ardono di spiegarvi il perchè io lasciai la vostra causa: e finchè vivrò non vi farò ritorno. Il principe Voivoda di Vilna mi ingannò, e prima m'indusse a giurare sul crocifisso che non lo avrei lasciato fino alla morte.
— Mantenete bene il vostro giuramento.
— Infatti! — gridò Kmita violentemente. — Se io ho perduto la mia anima, se sarò dannato, è per colpa dei Radzivill. Ma io mi sono messo nelle mani di Dio, e vorrei piuttosto perdere l'anima, vorrei bruciare in eterno, piuttosto che continuare a peccare con coscienza e volontà... cioè piuttosto che servire più a lungo un uomo con la certezza di servire un traditore che macchina avvelenamenti ed altre infamie.
— Voi non v'intendete di politica, cavaliere — disse Bogoslavio interrompendolo.
— Che lo colpisca il fulmine! Lasciate fare tali cose ai banditi, ai briganti, ma non ad un nobile, cui Dio obbliga a fare la guerra con la sciabola non coi veleni.
— Queste lettere adunque vi meravigliarono al punto, che voi determinaste di lasciare i Radzivill.
— Non furono soltanto le lettere. Avrei potuto gettarle sul fuoco, — replicò Pan Andrea. — Ma ad un tratto mi nacque un sospetto. Ma non intenderanno forse, oltre che i soldati, d'avvelenare anche la patria?... Decisi allora di dissimulare e di strapparvi abilmente di bocca la verità. Siete voi Altezza, che mi avete tolto la benda dagli occhi.
— Io? ..
— Sì! Dio mi ha aiutato, ed io, uomo semplice, ho ingannato un uomo politico. Vostr'Altezza, ritenendo che io fossi un fiore di malandrino, mi ha confessato tutto con brutale franchezza. I capelli mi si rizzarono in capo, ma vi ascoltai sino alla fine. Dunque voi trattate con Hmelnitski, con gli Svedesi, con l'Elettore, con Rakoski, col diavolo in persona per la distruzione della Repubblica? Tale è la vostra gratitudine per tutti i benefici ch'essa ha accumulato su di voi? uffici, onori, dignità, ricchezze, autorità, potere, e i possedimenti che i Re stranieri v'invidiano? Dov'è la vostra coscienza, la vostra fede, la vostra onestà? Qual mostro vi ha messo al mondo?
— Cavaliere, — interruppe Bogoslavio cinicamente, — voi mi tenete nelle vostre mani; potete anche uccidermi; ma vi prego di non annoiarmi.
Dopo di ciò tacquero entrambi.
Per altro, chiaramente appariva dalle parole di Kmita, che il soldato aveva saputo strappare al diplomatico la pura verità, e che il principe era colpevole di una madornale imprudenza. Ciò pungeva amaramente l'orgoglio di Bogoslavio, il quale, senza curarsi di nascondere il proprio dispetto, disse ad un tratto:
— Non ascrivete tutto ciò a vostro merito, Pan Kmita. Io parlai apertamente, pensando che il principe Voivoda conoscesse meglio la gente, e mi avesse mandato un uomo degno di fiducia.
— Il principe vi ha mandato infatti un uomo degno di fiducia, — rispose Kmita, — ma voi lo avete perduto. D'ora innanzi non vi serviranno più che i birbanti.
— Se il metodo che avete impiegato per prendermi non fu da birbante, voglio essere impiccato.
— Fu uno stratagemma! Io ho appreso a valermene in una dura scuola. Volete conoscere la mia idea Altezza? Ebbene, io dissi a me stesso: — Non andrò dal nostro buon Re a mani vuote.
— E voi credete che Giovanni Casimiro oserà torcermi un capello?
— Questa è una domanda da rivolgere ai giudici, non a me.
Tutto ad un tratto Kmita trattenne il cavallo: — La lettera del principe Voivoda.. avete quella lettera con voi?
— Se l'avessi, non ve la darei. La lettera è rimasta a Pilvinski.
— Perquisitelo — gridò Kmita.
I soldati afferrarono di nuovo il principe, e Soroka frugò nelle sue tasche. Dopo un istante trovò la lettera.
— Ecco qui un documento contro di voi e l'opera vostra — disse Pan Andrea prendendo la lettera. — Il Re di Polonia saprà quello che voi macchinate; ed anche il Re di Svezia conoscerà da parte sua, che, mentre voi lo servite, il principe Voivoda si riserba la libertà di ritirarsi, se gli Svedesi pongono un piede in fallo. Tutti i vostri tradimenti, tutte le vostre macchinazioni, si renderanno palesi. Voi siete grande e potente: tuttavia son sicuro, che la Repubblica non sarà troppo angusta per voi, quando ambedue i Re si prepareranno a ricompensare degnamente i vostri tradimenti.
Gli occhi del principe lampeggiarono d'una sinistra luce; ma presto si padroneggiò, e disse:
— Cavaliere! Fra noi è questione di vita o di morte! Voi potete farci molto male, ma io vi ripeto, che nessuno ha osato finora fare in questo paese quello che faceste voi. Guai a voi ed ai vostri!
— Io ho una sciabola per difendermi, ed ho qualche cosa per compensarmi.
— Avete me come ostaggio — disse il principe.
A dispetto dell'ira egli rimaneva tranquillo. Comprendeva, che in niun caso era minacciata la sua vita... La sua persona era troppo necessaria a Kmita.
Ripresero il trotto, e dopo aver cavalcato un'altr'ora, videro due uomini a cavallo, che conducevano per la briglia due cavalli carichi di bagagli. Erano gli uomini che Kmita aveva mandato innanzi da Pilvinski. Essi si avvicinarono a Kmita e gli dissero: — Pan colonnello, i cavalli sono molto stanchi perchè non abbiamo ancora riposato.
— Presto riposeremo, — egli rispose.
— Vi è un fabbricato alla svolta della strada; sarà forse un albergo.
— Dite al sergente che corra ad avvertire l'oste. Albergo o no, dobbiamo fermarci.
Soroka andò innanzi, e gli altri lo seguirono cavalcando al passo. Kmita stava ad un lato del principe, e Lubyenyetsk dall'altro. Bogoslavio si era completamente calmato. Appariva stanco ed abbattuto per la posizione in cui si trovava, e chinando un po' la testa sul petto, chiuse gli occhi. Tuttavia, di quando in quando, guardava Kmita di sottecchi, o Lubyenyets, il quale teneva le redini del cavallo, studiandone tutti i movimenti, per vedere quale dei due sarebbe stato più facile di atterrare per liberarsi.
S'avvicinarono intanto al fabbricato situato sul limitare della foresta. Non era un albergo ma una fucina di maniscalco, dove i passanti si fermavano per far ferrare i cavalli e riparare i carri. Soroka aveva legato il suo cavallo ad un'inferriata e parlava col fabbro, un Tartaro, davanti alla fucina, e con i suoi due lavoranti.
— Non faremo un pasto molto abbondante, — osservò il principe; — qui non c'è nulla.
— Abbiamo con noi da mangiare e da bere, — rispose Kmita.
— Meglio così! Bisognerà pure rifocillarsi.
Si fermarono. Kmita si pose la pistola alla cintura, saltò a terra, e, dato il suo cavallo a Soroka, afferrò di nuovo le redini del cavallo del principe, che Lubyenyets dall'altro lato, non aveva abbandonate.
— Smontate, Altezza! — disse Kmita.
— Io voglio mangiare e bere senza smontare, — disse il principe ritraendosi.
— Vi prego di scendere, — soggiunse Kmita minacciosamente.
— Che il diavolo vi porti! — gridò il principe con voce terribile; e strappando con la rapidità del fulmine la pistola dalla cintura di Kmita, gliela scaricò in faccia.
— Gesummaria! — gridò Kmita.
Il cavallo del principe, punto a sangue con gli speroni, s'impennò. Il principe si volse con l'agilità d'una scimmia verso Lubyenyets, e con tutta la forza del suo poderoso braccio lo colpì con l'impugnatura della pistola fra gli occhi.
Lubyenyets mandò un terribile urlo e cadde da cavallo.
Prima che gli altri avessero potuto capire che cos'era accaduto, prima che il grido di spavento morisse sulle loro labbra, Bogoslavio li disperse come avrebbe fatto la tempesta, e si slanciò come il vento verso Pilvinski.
— Fermatelo! ammazzatelo! — gridavano voci selvaggia.
Tre soldati, che ancora stavano a cavallo, si precipitarono dietro il fuggitivo: ma Soroka afferrò un moschetto appeso al muro, e mirò al principe o al cavallo.
Il cavallo si stendeva come un daino, e si allontanava con la rapidità di una freccia. Il colpo partì. Soroka balzò fuori della fucina per veder meglio; si fece schermo agli occhi colla mano; guardò e disse alla fine.
— Ho sbagliato.
In quel momento Bogoslavio spariva dietro la curva e con lui gl'inseguitori.
Il fabbro corse a cavar acqua, e Soroka s'inginocchiò accanto a Pan Andrea, il quale giaceva immoto. La faccia di Kmita era coperta dalla polvere della scarica e da macchie di sangue; gli occhi erano chiusi, il ciglio e la tempia sinistra erano anneriti. Il sergente cominciò dapprima a tasteggiare leggermente colle dita la testa del colonnello.
Ma il giovane non dava segno di vita, e il sangue gli colava abbondantemente dalla faccia. I lavoranti del fabbro portarono un'altra secchia d'acqua e della tela. Soroka, con delicatezza, si fece a lavare la faccia di Kmita.
Finalmente la ferita apparve sotto il sangue e la macchia nera. La palla era passata per la guancia sinistra ed aveva asportato l'estremità dell'orecchio. Soroka esaminò l'osso per vedere se fosse frantumato.
Si convinse tosto che l'osso era sano, e trasse un gran sospiro di sollievo. Kmita, sotto l'influenza dell'acqua fredda e del dolore, cominciò a risentirsi ed a dar segno di vita.
— Egli vive!... Non è niente! — gridò Soroka con gioia; e una lagrima scorse lentamente per la faccia abbronzata del sergente.
Intanto, alla svolta della strada, apparve Biloüs, uno dei tre soldati che avevano inseguito il principe.
Il soldato scosse la testa: — Nulla!
— E gli altri?
— Gli altri non ritorneranno.
Il sergente balzò in piedi e disse:
— Che è accaduto?
— Sergente, quel principe è un mago! Zavratynski lo aveva raggiunto per primo, avendo il miglior cavallo. Bogolavio, sotto i nostri occhi, gli strappò di mano la sciabola, e lo passò da parte a parte. Vitkovski veniva dopo e si slanciò alla sua volta; ma Radzivill gli fu addosso in un lampo e lo stese al suolo. Non mandò un grido. Io non aspettai la mia volta. Sergente, il principe ritornerà certamente.
— Qui non spira aria buona per noi, — disse Soroka. — A cavallo!
Tosto apprestarono una barella per Kmita. Due soldati, al comando di Soroka, si appostarono sulla strada, temendo il ritorno di Bogoslavio.
Ma il principe, convinto che Kmita non viveva più, se ne ritornava verso Pilvinski. In sull'imbrunire incontrò un distaccamento di uomini a cavallo mandati da Patterson, cui il ritardo del principe aveva messo in pensiero. L'ufficiale, visto il principe, galoppò verso di lui.
— Altezza, voi non ci avevate detto... Noi temevamo che...
— Niente, niente! — interruppe il principe. — Provavo questo cavallo in compagnia del cavaliere, dal quale l'ho comperato.
E dopo un po' di pausa soggiunse: — L'ho pagato bene.