Henryk Sienkiewicz
Il diluvio

PARTE PRIMA

CAPITOLO XXVII.

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CAPITOLO XXVII.

Soroka trasportava il suo colonnello attraverso alla foresta senza sapere dove, chiedendosi se doveva proseguire o tornare indietro.

Kmita, più che ferito, era stordito dal colpo. Di quando in quando Soroka immergeva un pannilino in un secchio appeso al cavallo, e lavava il viso del ferito; più volte si fermò ad attingere acqua fresca. Ma Kmita non tornava in , e giaceva come morto, sicchè gli altri soldati, non pratici di ferite come Soroka, incominciarono a tremare per la sua vita.

— Egli è vivo, — disse Soroka; — fra tre giorni sarà a cavallo come noi.

Infatti, un'ora dopo, Kmita aprì gli occhi, e disse:

— Da bere!

Soroka appressò alle sue labbra una tazza d'acqua; ma certo egli non poteva aprire la bocca pel dolore, e perciò non bevette. Tuttavia non perdette la coscienza di ; non chiese altro, e parve non ricordarsi di nulla: teneva gli occhi spalancati, e guardava verso il fondo della foresta e poi i suoi uomini, come un uomo trasognato; ma l'acqua fresca, con cui il sergente gli lavava la ferita, gli recava gran sollievo, ed egli sorrideva. Soroka lo consolò.

Domani sarà passato lo stordimento, colonnello, e sarete tosto guarito.

Infatti, prima del tramonto Kmita risensò quasi del tutta, e ad un tratto domandò: — Che rumore è questo?

— Non v'è nessun rumore, — rispose Soroka.

La sera era fredda; ma la febbre incominciava ad agitare Pan Andrea, che ripeteva:

Altezza, la vita o la morte sta fra noi.

Finalmente scese la notte. Soroka pensava ad un rifugio; ma essendo capitati in un punto della foresta dove il terreno cedeva sotto lo zampe dei cavalli, continuarono a cavalcare in cerca d'un luogo elevato ed asciutto.

Camminarono due ore, ma sempre nella stessa condizione. Intanto s'alzò la luna e rischiarò alquanto il cammino. Ad un tratto Soroka smontò e si fece ad osservare attentamente il terreno.

— Qui sono passati dei cavalli, — diss'egli.

— Chi può essere passato se non v'è sentiero? — domando uno dei soldati che portavano Kmita.

— Ma qui vi sono le traccie. E dovevano esser molti Vedete , fra i pini.

— Forse del bestiame...

Impossibile. Non è il tempo dei pascoli; e queste sono traccie di cavalli. Qui vicino ci essere la casa del guardaboschi.

Seguiamo dunque la traccia.

Andiamo pure innanzi.

Soroka rimontò a cavallo, e proseguì il cammino. Le traccie sul terreno erboso si facevano sempre più distinte; anzi, parecchie di esse, al chiaror della luna, apparivano affatto fresche. I cavalli si sprofondavano fin ai ginocchi. I soldati cominciarono a temere che il pantano si facesse ancora più profondo, e di non poterne più uscire; quand'ecco, dopo una mezz'ora, giungere alle loro narici un odore di fumo e di resina.

— Qui vi dev'essere una fabbrica di pece, disse Soroka.

— Già, vedo le scintille del fuoco, — disse un soldato.

Infatti, poco lungi, si scorgeva una striscia di fumo rossiccio, frammista a fiamme. E più innanzi, apparve un casolare, con una tettoia solidamente costrutta con pali di pino. I cavalli cominciarono a nitrire, e di sotto alla tettoia rispose il nitrito di altri cavalli; e nello stesso tempo apparve dinanzi al drappello una strana figura d'uomo, coperto d'una pelle di pecora.

— Sono molti ì cavalli? — domandò quell'uomo.

— È questa una raffineria di pece? — domandò Soroka.

— Chi siete? donde venite? — fece l'altro in tono meravigliato ed inquieto.

— Non temete di nulla! — rispose Soroka — noi non siamo ladri.

Andate per la vostra via; non v'è nulla per voi qui.

Turati la bocca, e guidaci verso la casa. Non vedi, malandrino, che abbiamo con noi un ferito?

— Che sorta di gente siete?

    Fa presto, o risponderemo coi fucili. Cammina, se

     non vuoi che ti facciamo cuocere nella tua stessa pece.

— Io non posso difendermi da solo, ma verranno gli altri. Voi avete voglia di lasciare la vostra pelle qui.

— Verranno a momenti anche i nostri: va innanzi.

Andate voi innanzi. Questo non è affar mio.

— Se ne hai, dacci da mangiare, e dacci acquavite. Noi abbiamo con noi un uomo che paga.

Conversando così, entrarono nel casolare. Sul camino ardeva il fuoco; e da alcune pentole emanava l'odore del bollito. La casa era grande. Soroka vide lungo la parete sei letti coperti con pelli di pecora:

— Questo è il rifugio di qualche banda, — mormorò Soroka rivolto ai camerati. — Tenete pronti i moschetti, e state bene attenti. Tenete d'occhio questo malandrino, che non fugga. I padroni dormiranno fuori questa notte, perchè noi non intendiamo di lasciare l'alloggio.

— I padroni son ritorneranno per oggidisse l'uomo.

— Tanto meglio; così non leticheremo per la stanza, e domani ce ne andremo, — replicò Soroka; — ma ora metti in tavola, perchè noi abbiamo fame, e non risparmiare l'avena ai nostri cavalli.

Soroka ordinò ai soldati di cambiare la guardia a mezzanotte e si gettò sopra un letto al fianco di Kmita.

Tutto era tranquillo nella casa. Non si udiva che il monotono grisolare dei grilli ed il rosicchiare dei topi. Il ferito ogni tanto si svegliava pronunziando, nel delirio della febbre, frasi sconnesse.

Soroka si sollevò sul letto e ascoltò: ma Pan Andrea, dopo qualche lamento, ricadde nel sonno: poi gridò distintamente:

Olenka, Olenka! non serbarmi rancore.

Verso mezzanotte si calmò e dormì profondamente. Anche Soroka incominciava a sonnecchiare, quando un leggero colpo alla porta lo fece trasalire.

Il solerte soldato balzò tosto in piedi e uscì.

— Che c'è? — domandò.

Sergente, l'uomo è fuggito.

— Per cento diavoli! Egli ci condurrà qui i ladri. Chi lo sorvegliava?

Biloüs.

— Io andavo con lui a prendere acqua per i cavalli, disse Biloüs. — Gli ordinai di attingere l'acqua, mentre io tenevo il cavallo.

— E poi? È saltato nel pozzo?

— No, sergente; ma sparì frammezzo ai tronchi degli alberi. Volli inseguirlo, ma stante l'oscurità precipitai in un fosso. Intanto il mariuolo scappò. Lo colga la peste!

Soroka tacque per un istante, poi disse:

— Non dobbiamo dormire stanotte. Bisogna vegliare fino a domani mattina. Da un momento all'altro possono capitare qui i ladri.

E per dare il buon esempio si appostò sulla soglia della porta con un moschetto in mano.

Era una bella notte serena rischiarata da uno splendido lume di luna. I soldati sedettero accanto al sergente ciarlando sottovoce fra loro.

Zitti! — esclamò ad un tratto Soroka; — qualcuno si avvicina.

I soldati tesero le orecchie, e dopo un istante udirono come un passo pesante che faceva scricchiolare i rami secchi sparsi sul terreno.

— Sono cavalli; — bisbigliò Soroka. Ma il passo si allontanò, è subito dopo si udì il minaccioso e rauco grido di un cervo.

— Quest'è un cervo. Chiama la cerva; oppure sta lottando con un altro cervo.

Ricaddero tutti nel silenzio, e cominciarono a sentirsi vincere dal sonno. Gli urli del cervo cessarono, e tutto ripiombò nella più assoluta quiete.

Intanto principiò ad albeggiare. I primi raggi del sole illuminarono i visi stanchi dei soldati, che dormivano saporitamente.

Ad un tratto la porta si aprì, e sulla soglia apparve Kmita, che gridò:

Soroka! vieni!

I soldati balzarono in piedi.

— O buon Dio! Vostra Grazia è in piedi? — esclamò Soroka.

— Ma voi avete dormito come ghiri; sarebbe stato comodo farvi a pezzi.

— Abbiamo vegliato tutta la notte, e non è mezz'ora che ci siamo addormentati, colonnello.

Kmita guardò attorno. — Dove siamo? — chiese.

— Nella foresta, colonnello.

— Lo vedo anch'io. Ma che casa è questa?

— Non lo sappiamo.

Seguimi, — disse Kmita al sergente. Così dicendo, Kmita rientrò nella stanza e Soroka gli tenne dietro.

Senti, — disse Kmita sedendo sul letto. — Mi ha fatto fuoco addosso il principe?

— Sì.

— E che n'è avvenuto di lui?

— È scappato.

A queste parole seguì un minuto di silenzio.

Male! — disse Kmita — molto male! Era meglio stenderlo morto che lasciarlo fuggire.

— Volevamo ben farlo, ma...

— Ma che?

Soroka narrò in succinto quant'era avvenuto. Kmita ascoltava con una calma meravigliosa: ma i suoi occhi cominciarono a schizzare fuoco e fiamme, e finalmente disse:

— Dunque egli ha vinto?... ma lo ritroveremo! E perchè avete lasciato la strada maestra?

Temevo di essere inseguito.

— Infatti, siamo troppo pochi per combattere contro le forze di Bogoslavio. D'altra parte, egli andrà in Prussia, e noi non possiamo raggiungerlo colà; bisogna aspettare...

Soroka si sentì ad un tratto sollevato, notando che Pan Kmita temeva così poco il principe, e si sentì rinascere in cuore il solito coraggio.

Pan Andrea, ch'era rimasto pensieroso, si scosse ad un tratto e chiese ansiosamente:

Dove sono le mie lettere?

— Che lettere?

Le lettere che avevo indosso. Esse erano assicurate alla mia cintura: dov'è la cintura?

— La cintura l'ho tolta io stesso, affinchè Vostra Grazia potesse respirar meglio: eccola.

Soroka gli diede una cintura di cuoio bianco, alla quale era attaccato un sacchetto per mezzo d'una funicella. Kmita slegò il sacchetto e ne tolse in fretta le carte.

— Questi sono i lascia-passare per i comandanti svedesi; ma dove sono le lettere? — domandò con inquietudine.

— Quali lettere? — domandò Soroka.

— Mille fulmini! le lettere del Capitano generale al Re di Svezia, a Pan Lyubomirski, e tutte le altre.

— Se non sono nella cintura non sono altrove. Saranno cadute durante il viaggio.

— A cavallo, a cavallo! cercatelegridò Kmita con voce terribile.

Prima che Soroka avesse lasciato la camera, Pan Andrea cadde sul letto, e strappandosi capelli_

Ahimè, le mie lettere, le mie lettere! — gridò con voce lamentevole.

Soroka partì subito onde eseguire l'ordine del giovane colonnello, e Kmita rimase solo a meditare sulla sua sorte certo non invidiabile.

Infatti, la fuga del principe lo condannava alla inevitabile vendetta dei Radzivill, su lui solo essa piomberebbe, ma anche su tutti coloro ch'egli amava, e specialmente su Olenka, che si trovava in Kyedani alla mercè del terribile magnate. Più egli pensava alla propria posizione, più chiaro vedeva, ch'essa era addirittura spaventevole. Egli diventava adesso un traditore pei Radzivill, come lo era per gli aderenti di Giovanni Casimiro, pei partigiani di Sapyeha e per i confederati; e da tutti, patrioti e stranieri, sarebbe considerato come il più maligno dei nemici. Vigeva ancora la taglia posta sulla sua testa da Hovanski, ed ora tanto Radzivill quanto gli Svedesi l'avrebbero offerta dal canto loro.

Egli aveva rapito Bogoslavio, per gettarlo ai piedi dei confederati e convincerli in modo ineluttabile che aveva spezzato ogni fede ed ogni legame coi Radzivill, e per guadagnare il diritto di combattere al loro fianco per il Re e per la Repubblica. Ma ora gli presterebbero essi fede? Non sospetterebbero piuttosto ch'egli volesse brigare par mistificarli, e intanto guadagnar nuova gente alla causa dei traditori?

Si ricordò quanto sangue dei confederati posava sulla sua coscienza, e rammentò le trincee e le fortificazioni di cui aveva circondato Kyedani, assicurando così il trionfo di Radzivill in Jmud.

— Come posso io presentarmi a loro?... Con Bogoslavio... con le lettere... sarebbe stato possibile; ma così, a mani vuote? Uno spirito maligno era intervenuto e gli aveva fatto perdere quelle lettere.

E gli si rizzavano i capelli in capo, pensando che aveva rovinato stesso e Olenka. Sentiva la voce della coscienza, che gli gridava:

Cieco! Stolto! Questo non ti sarebbe accaduto combattendo per il Re e per la patria; non ti sarebbe accaduto se tu avessi ascoltato Olenka.

Qui il giovane, digrignando i denti e stendendo le braccia verso Jmud, dove Giovanni Radzivill vegliava come un lupo sulla sua preda, gridò più volte in un accesso di rabbia:

Vendetta! vendetta!

Ad un tratto si gettò ginocchioni in mezzo alla camera, e disse:

Giuro a te, o Signore, di umiliare quei traditori, di non riposarmi finchè non li abbia dispersi e distrutti col ferro e col fuoco. Aiutami tu, o Re dell'Universo!

Ma una voce interna sorse a dirgli in quel momento:

Servi prima la patria!... La vendetta poi!


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