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Non fu poca la sorpresa di Kmita e de' suoi compagni nel riconoscere, la mattina dopo, negli abitanti del casolare il vecchio Kyemlich e i suoi figli Cosimo e Damiano che, depredati e feriti dagli uomini di Zoloterehko, eransi colà ridotti a vivere di rapina. Kyemlich e i suoi avevano servito sotto gli ordini di Kmita quando per conto proprio aveva mosso guerra nella cosidetta Russia Bianca contro Hovanski, ed avevano imparato a stimarlo e ad averne nel tempo stesso un timore indescrivibile. Perciò furono ben lieti di associarsi di nuovo alle sue vicende, e Kyemlich cominciò a medicare la ferita del giovane.
Ma intanto occorreva agire, e per mettere subito in pratica i suoi proponimenti, Kmita, procuratisi, come fu possibile, i mezzi per scrivere, indirizzò una fiera lettera di protesta e di rinunzia a Radzivill e un'altra a Volodyovski concepita in questi termini:
«Il sottoscritto avverte voi e gli altri colonnelli di stare in guardia. Ho veduto delle lettere dirette dal Capitano generale al principe Bogoslavio ed a Pan Harasimovich, nelle quali ordinava di avvelenarvi, oppure di farvi trucidare nei vostri quartieri. Harasimovich è assente, essendo andato col principe Dogoslavio a Tyltsa in Prussia; ma l'ordine può essere stato impartito ad altri. Io so pure con certezza, che il Capitano generale intende marciar tosto contro di voi; aspetta soltanto la cavalleria che deve mandargli il generale de la Gardie... quindici mila uomini. Sarà bene inviare uomini fidati al Voivoda di Vityebsk, onde venga in tutta fretta e si metta alla testa dei confederati quale comandante in capo. Chi vi dà questi consigli è un amico; credetegli.
«Il Capitano generale ha poca cavalleria, solo un piccolo numero di dragoni, e gli uomini di Kmita, sui quali non può contare. Lo stesso Kmita è assente; il principe gli ha dato un altro incarico. Pare che non se ne fidi troppo. Kmita non è il traditore che si dice; egli è soltanto un povero illuso. Vi raccomando a Dio.
Babinich era il nome di un villaggio vicino a Orsha, che da tempi remoti apparteneva ai Kmita.
Pan Andrea non volle apporre la propria firma alla lettera, giudicando che il suo nome poteva destare diffidenza.
Terminata la lettera, alla quale aggiunse in calce alcune poche parole in propria difesa, egli provò un grande sollievo, pensando che con essa egli rendeva un grande servigio, non solamente a Volodyovski ed ai suoi amici, ma a tutti i colonnelli che non avevano voluto disertare la patria per Radzivill.
Se non che ora, che Olenka poteva ritenersi salva dalla vendetta di Radzivill, come i confederati lo sarebbero da un attacco improvviso e dalle sue infami insidie, Pan Andrea si domandò che cosa avrebbe fatto da parte sua.
Egli aveva rotto ogni legame coi traditori e bruciato dietro di sè le sue navi. Ora desiderava servire il proprio paese, e consacrargli le proprio forze, la propria vita: ma come doveva far ciò? come incominciare?
Pensò un'altra volta di unirsi ai confederati; ma poi, se essi, non volessero riceverlo, o peggio, lo avessero discacciato?
— Vorrei piuttosto che mi uccidessero! — esclamò Pan Andrea, ed al solo pensiero arrossì per la vergogna. La sua posizione gli sembrava realmente disperata.
— Se facessi quel che ho fatto contro Hovanski? — chiese a sè stesso — Io raccoglierò delle truppe ed assalirò gli Svedesi; non sarà cosa nuova per me.
Quet'idea gl'infiammò subito il cervello, e già stava per precipitarsi fuori della stanza onde comandare a Kyemlich ed ai suoi uomini di prepararsi immediatamente per la partenza. Ma prima che avesse raggiunta la porta, si sentì come trattenuto da una forza arcana. Si ritrasse dalla soglia e rimase immobile, con gli occhi fissi dinanzi a sè.
La coscienza gli diceva che non era quello il mezzo per riparare i suoi torti, ed egli fu preso da una specie d'affanno, perchè comprese che la coscienza aveva ragione.
— Che cosa farò? Chi mi aiuta? chi m'ispira? chi mi salva? — esclamò ad alta voce E quasi involontariamente cadde in ginocchio e rivolse a Dio una preghiera dal fondo del cuore.
Dopo di che appoggiò la testa sul letto e stette in silenzio come aspettando l'effetto della sua ardente invocazione.
Ad un tratto si udirono dei passi di fuori, poi due uomini che discorrevano.
— Che ne pensate, sergente? Dove andremo partendo da qui?
— Lo so io? — ripose Soroka. — In qualche luogo... forse lontano... dal Re, che geme sotto la mano degli Svedesi.
— È vero che tutti lo hanno abbandonato?
— Ma Dio non lo ha abbandonato.
Di repente Kmita balzò in piedi, ma il suo viso era adesso sereno e calmo: andò direttamente alla porta, e apertala, disse al soldato:
— Sellate i cavalli! è tempo di metterci in cammino.