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I viaggiatori seguirono la linea del confine attraversando grandi foreste prive di sentieri ma che il vecchio Kyemlich conosceva bene. Giunti in un certo punto entrarono in Prussia e raggiunsero Leng, o Elko, come Kyemlich chiamava quel paese, e quivi raccolsero notizie dai nobili, che colle loro famiglie e la loro roba erano fuggiti dagli Svedesi per cercar rifugio nei dominî dell'Elettore.
Kmita vendette un paio di cavalli e ne comperò altri; poi proseguì il viaggio sempre lungo il confine sulla strada che da Leng conduceva a Shchuchyn, città posta sulla frontiera della provincia di Mazovia, fra la Prussia e la provincia di Podlyasye.
Pan Andrea non voleva andare a Shchuchyn, avendo saputo che in quella città erano i quartieri dello squadrone dei confederati, comandato da Volodyovski.
Volodyovski doveva essere passato dalla medesima strada battuta da Kmita, ed essersi fermato proprio al confine di Podlyasye, sia per un breve riposo, sia per accamparvisi temporaneamente.
Kmita non voleva incontrarsi col famoso colonnello, giudicando che, non avendo con sè altre prove se non parole, non avrebbe potuto persuadere Volodyovski della propria conversione e della propria sincerità. Perciò diede ordine di girare verso Vansosh, paese situato a dieci miglia da Shchuchyn. In quanto alla lettera, pensò di mandarla a Pan Michele non appena gli si presenterebbe l'occasione propizia.
Ma prima di arrivare a Vansosh, i viaggiatori si fermarono in un albergo posto sul fianco della strada, disponendosi a passarvi la notte. Nell'albergo non vi era nessun altro fuorchè l'oste, un Prussiano.
Ma appena Kmita e i suoi si furono ceduti a cena, si udì rumore di ruote e scalpitìo di cavalli. Kmita uscì e si collocò davanti all'albergo per vedere chi giungeva, essendo curioso di sapere se fosse qualche distaccamento Svedese. Ma invece degli Svedesi vide una carrozza, dietro alla quale venivano due carri circondati da uomini armati. Al primo sguardo si comprendeva che trattavasi di qualche personaggio ragguardevole. La carrozza era tirata da quattro bei cavalli. A cassetta sedeva il cocchiere ed accanto a questi un haiduk8 vestito all'Ungherese. Nell'interno della carrozza sedeva il proprietario avvolto in mantello listato di pelle di lupo e chiuso mediante numerosi bottoni d'oro. I due carri erano carichi di roba e scortati da otto uomini armati di sciabole e di fucili.
Il signore che sedeva nella carrozza dimostrava poco più di vent'anni, ma si capiva che era un personaggio d'alto rango nonostante la sua gioventù. Fermatasi la carrozza, il haiduk saltò a terra per aiutare il suo padrone a scendere; ma questi, scorgendo Kmita fermo sulla soglia, gli fece un cenno con la mano.
— Venite qua, buon uomo — gli disse. Kmita, invece di avvicinarsi, si ritirò nell'interno dell'albergo preso da subita collera. Egli non si era ancora abituato ad essere trattato così alla buona. Ritornò a sedere al suo posto, e cominciò a mangiare. Il nuovo arrivato entrò a sua volta.
— Perchè non è venuto nessuno a ricevermi? — diss'egli.
— L'oste è uscito — rispose Kmita — e noi siamo viaggiatori come Vostra Grazia.
— E che viaggiatori siete?
— Sono un nobile che negozia con cavalli.
— Se vi fermate tutta la notte, può darsi che facciamo qualche affare. Intanto permettete che io mi sieda in vostra compagnia?
— Il nuovo arrivato fece questa domanda con un certo tono come se fosse sicuro che avrebbero acconsentito. Infatti, il giovane mercante di cavalli rispose:
— Con piacere, Vostra Grazia; sebbene non abbiamo nulla di buono da offrirvi.
— Non importa. Non mancano le leccornie fra i miei bagagli — replicò il giovane signore con un certo orgoglio: — ma a me piace anche la salsiccia con i piselli. — Così dicendo sedette sulla panca accanto a Kmita, il quale si scostò per lasciargli un po' di posto.
— Oh, grazie, grazie, non vi scomodate per me, — gli disse il giovane. In viaggio non si fanno cerimonie. Se anche mi urtaste con un gomito, non per questo cadrebbe la corona dal mio capo.
Kmita squadrò quell'individuo pretenzioso, e gli disse:
— Siamo in tempi, signore, in cui le corone cadono dalle teste più alte. Per esempio, il nostro Re Giovanni Casimiro a cui spetterebbero per diritto due corone, non ne ha più nemmeno una, ammenochè sia una corona di spine.
Lo sconosciuto volse una rapida occhiata a Kmita, poi sospirò e disse: — Sono tali tempi che è meglio non parlare di queste cose nemmeno con gli amici intimi. Ma voi avete detto bene. Certo avete servito quei signori polacchi, perchè il vostro parlare dimostra una certa educazione superiore alla vostra condizione.
— Ho appreso qualche cosa qua e là, ma non fui mai servo di nessuno.
— Volete essere il mio servo, portare la mia spada e sorvegliare i miei uomini?
Kmita non potè più contenersi, e scoppiò in una sonora risata.
— Perchè ridete? — domandò lo sconosciuto, aggrottando le ciglia.
— Per la contentezza.
— Chi è quello stolto che v'ha insegnato cotali maniere? Bisogna badare con chi parlate.
— Mi perdoni Vostra Grazia, — rispose Kmita allegramente, — ma io non so veramente con chi parlo.
Il giovane signore si mise le mani ai fianchi e disse con grande sussiego:
— Io sono Pan Jendzian di Vansosh.
Kmita aveva aperto la bocca per dire che si chiamava Babinich, quando Biloüs si precipitò nella stanza, gridando: — Pan Com...
Uno sguardo minaccioso di Kmita gli troncò la parola.
Biloüs tacque, e dopo un istante balbettò tutto confuso:
— Da che parte?
— Da Shchuchyn.
Kmita rimase imbarazzato. Rimettendosi presto, disse:
— State in guardia. Sono molti?
— Circa dieci a cavallo.
— Tenete pronte le pistole. Andate!
Uscito il soldato, Kmita si rivolse a Pan Jendzian di Vansosh, e gli chiese:
— Non saranno Svedesi?
— Dal momento che andate da loro, li dovete incontrare presto o tardi, — rispose Pan Jendzian guardando con istupore il giovane nobile.
— Preferirei gli Svedesi ai ladri che non mancano da nessuna parte. Chi ha dei cavalli deve stare bene all'erta.
— Se è vero che Pan Volodyovski è a Shchuchyn, disse Pan Jendzian, — questo è certamente un drappello dei suoi uomini.
Pan Kmita si alzò nell'udire queste parole, e dopo di essersi aggirato per alcuni minuti nella stanza, sedette nell'angolo il più buio. Intanto lo scalpitìo dei cavalli si udì proprio davanti all'albergo, e poco dopo un certo numero d'uomini entrò nella sala.
Avanti a tutti camminava un uomo dalla statura gigantesca, che aveva una gamba di legno. Kmita lo guardò e si sentì mancare il respiro. Quell'uomo ora Yuzva Butrym detto «senza piede.»
— Dov'è l'oste? — domando fermandosi nel mezzo della sala.
— Non ho biada, fuorchè quella che ho dato a questi uomini.
E così dicendo additò Jendzian ed i negozianti di cavalli.
— Chi siete voialtri? — gli domandò Jendzian.
— E voi chi siete?
— Lo Starosta di Vansosh, — rispose Pan Jendzian con invidiabile sicurezza.
I suoi servi lo chiamavano così, benchè egli fosse soltanto il luogotenente dello Starosta ed egli ne approfittava attribuendosi quel titolo nelle occasioni più importanti.
Yuzva Butrym rimase confuso, vedendo con quale alto personaggio aveva a che fare; si tolse il berretto, e disse:
— M'inchino a voi, potente signore. Qui dentro fa tanto buio che non si possono distinguere bene le persone.
— Che uomini son questi? — ripetè Jendzian, ponendosi le mani ai fianchi.
— Gli uomini di Lauda che appartenevano all'antico squadrone di Billevich, e che ora fanno parte dello squadrone di Pan Volodyovski.
— Per amor di Dio! — Dunque è vero che Pan Volodyovski si trova nella città di Shchuchyn?
— Sì; lui in persona con altri colonnelli venuti da Jmud.
— Sia lodato Iddio! sia lodato Iddio! — esclamò con giubilo lo Starosta. — E quali colonnelli si trovano con Pan Volodyovski?
— Mirski, fu colpito d'apoplessia in viaggio, — rispose Butrym; — Oskyerko, Pan Kowalski, e i due Skshetuski sono con lui. Ma questi — proseguì Butrym, guardando Kmita — è un servo di Vostra Grazia? Mi pare di averlo veduto in qualche luogo.
— No — rispose Jendzian; — questi sono nobili che girano le fiere coi cavalli.
— Dove sono diretti? — domandò Yuzva.
— A Sobota, — rispose il vecchio Kyemlich:
— Dov'è questo Sobota?
Anche Yuzva considerò questa risposta come una burla, e disse:
— Non scherzate quando la gente domanda.
— Ma con qual diritto domandate voi?
— Posso rispondervi, che sono mandato a vedere se non vi sono uomini sospetti nei dintorni. E veramente mi pare che ve ne siano, se non vogliono dichiarare dove vanno.
Kmita, per timore che nascesse una pericolosa contesa, disse, senza muoversi dal suo angolo:
— Non andate in collera, valoroso soldato, Pyantek e Sobota sono realmente due città come le altre, dove hanno luogo fiere a tempi determinati. Se non credete, domandate a Pan Jendzian, che lo deve sapere.
— È verissimo, — disse Jendzian.
— Ma perchè andare colà? Non potete vendere cavalli a Shchuchyn, dove appunto mancano.
— Ognuno va dove crede di far meglio i suoi affari.
— Io non so se convenga meglio a voi, ma non conviene a noi che quei cavalli siano venduti agli Svedesi o alle loro spie.
— Mi sorprende, — prese a dire il luogotenente di Vansosh, — che questa gente parli contro gli Svedesi, mentre pare abbia un certo interesse di andare da loro. — Poi, rivoltosi a Kmita, soggiunse: — E voi non mi avete affatto l'apparenza d'un mercante di cavalli; basterebbe, a farmene dubitare, quell'anello che vi splende in dito, di cui nessun signore si vergognerebbe.
— Se vi piace, compratelo; io l'ho pagato due monete d'oro a Leng.
— Due monete d'oro? Allora è falso ma splendidamente imitato. Mostratemelo.
— Venite a prenderlo, signore.
— Non potete darmelo voi? Sono troppo stanco.
— Si direbbe, buon uomo, che voi volete nascondere la vostra faccia.
Nell'udire queste parole Yuzva s'accostò al camino, prese un tizzone ardente, e, sollevatolo, mosse direttamente verso Kmita.
Kmita si alzò di repente, ed i due stettero a guardarsi fissamente negli occhi. Ad un tratto il tizzone cadde dalle mani di Yuzva, ed egli gridò:
— Gesummaria! costui è Kmita!
— Sono io, sì! — disse Pan Andrea, vedendo ormai inutile ogni mezzo dl celarsi.
— Venite! venite! venite! Prendetelo! — gridò Yuzva ai soldati che erano rimasti in disparte. Volgendosi poi di nuovo verso Pan Andrea, soggiunse: — Sei proprio tu, traditore, tu, Satana in persona! Una volta sfuggisti dalle mie mani, ora non mi sfuggirai certo.
Nel dire così afferrò Pan Andrea per le spalle; Pan Andrea afferrò lui. Nei medesimo tempo i due giovani Kyemlich, Cosimo e Damiano, s'erano alzati dalla panca; Cosimo domandò:
— Battetelo! — rispose il vecchio sfoderando la sua sciabola.
Si spalancarono le porte, e i soldati d'Yuzva rimasti di fuori, si precipitarono nella stanza; ma dietro di loro venivano gli uomini di Kyemlich.
Yuzva, afferrato da Kmita per le spalle, si mise ad agitare in aria un pugnale. Ma Pan Andrea, sebbene non avesse la forza erculea del suo nemico, strinse la gola a Butrym come in una morsa. Gli occhi d'Yuzva schizzavano dalle orbite; egli cercò di colpire Kmita con l'impugnatura del suo pugnale, ma non vi riescì, perchè Kmita lo colpì coll'elsa della sciabola. Le dita di Yuzva lasciarono ad un tratto la spalla di Kmita; egli barcollò e si rovesciò indietro. Per potergli assestare un secondo colpo, Kmita si ritrasse, e colla sciabola colpì Yuzva alla faccia. Yuzva stramazzò come una quercia recisa, battendo il capo in terra.
— Colpite! — gridò Kmita, in cui tosto si risvegliò il solito ardore battagliero.
Ma non aveva d'uopo d'incitare quella gente, perchè la stanza ormai pareva un campo di battaglia. I due giovani Kyemlich menavan formidabili colpi colle loro sciabole, abbattendo un uomo ad ogni colpo.
La resistenza da parte degli uomini di Lauda diveniva sempre più debole, poichè la caduta di Yuzva ed il semplice nome di Kmita, ne aveva abbattuto il coraggio; tuttavia continuavano a combattere con rabbia. Intanto l'oste entrò con una secchia d'acqua e la versò sul focolare. La stanza piombò nell'assoluta oscurità. Le grida cessarono e non si udirono che fiochi lamenti. Apertasi la porta, prima ne uscirono gli uomini di Pan Jendzian, poi gli uomini di Lauda, infine i servi di Kmita.
La zuffa continuò accanita fuori della casa. Gli uomini dello Starosta si erano rifugiati dietro ai carri dove anche gli uomini di Lauda cercarono un rifugio; e la gente di Jendzian, prendendoli per avversari, fecero più volte fuoco su di essi.
— Arrendetevi! — gridava il vecchio Kyemlich, cacciando la punta della sciabola fra i raggi delle ruote e ferendo a caso gli uomini che vi stavano accoccolati.
— Fermi! ci arrendiamo! — risposero molti.
Gli uomini di Vansosh gettarono le loro armi. Dopo ciò i giovani Kyemlich cominciarono a trascinarli pei capelli, e il vecchio gridò:
— Ai carri! prendete quello che vi vien fra le mani! presto, presto! ai carri!
I giovani non si fecero ripetere due volte quel comando, e si precipitarono sui carri di Jendzian per saccheggiarli.
Ma avevano appena posto mano all'opera, quando Kmita, con voce tonante, gridò:
— Fermatevi!
Ed appoggiando il comando con un gesto imperioso, si gettò sui due giovani, colpendoli di piatto con la sciabola insanguinata.
Cosimo e Damiano saltarono tosto da una parte.
— Non possiamo far bottino, colonnello? — domandò il vecchio sommessamente.
— Indietro! gridò Kmita. — Cercatemi lo Starosta.
Dopo un quarto d'ora ritornarono conducendo Jendzian. Questi, al vedere Kmita, s'inchinò profondamente, e disse:
— Col permesso di Vostra Grazia, dirò che io non ho fatto alcun male, non ho assalito nessuno, e il visitare le proprie conoscenze, come io sto facendo, è cosa permessa a tutti.
Kmita, appoggiato sulla sua spada, respirava affannosamente e taceva. Jendzian continuò:
— Io non feci male nè agli Svedesi, nè al principe Radzivill. Andavo da Pan Volodyovski, mia vecchia conoscenza. Non sono stato a Kyedani, e quanto colà è avvenuto è per me cosa affatto ignota. A me preme di cavarmela, con la mia pelle sana e salva e senza perdere quello che Iddio m'ha dato; perchè non l'ho rubato, ma l'ho guadagnato col sudore della mia fronte. Lasciatemi libero, signore.
— Coprite i carri! — gridò d'improvviso Kmita. — Ma vi prenderete i feriti e andrete al diavolo!
— Vi ringrazio umilmente, — disse il luogotenente di Vansosh.
La gente di Jendzian accorse ad attaccare i cavalli. Kmita si volse di nuovo allo Starosta.
— Prendete con voi tutti i feriti ed i morti, e portateli a Pan Volodyovski, e ditegli da parte mia che io non sono suo nemico, ma che potrei essergli miglior amico di quanto egli s'immagina. Mi capite? Ditegli che quella gente mi piombò addosso, ed io fui costretto a difendermi.
— Infatti, così è, — rispose Jendzian.
— Aspettate; direte inoltre a Pan Volodyovski, che tenga unite le truppe, perchè Radzivill, appena riceverà la cavalleria da Pontus de la Gardie, muoverà contro di loro. Forse egli è già sulla strada. Giovanni e Bogoslavio Radzivill macchinano a loro danno coll'Elettore di Brandeburgo, ed è pericoloso per loro di marciare vicino ai confini. Ma sopratutto stiano uniti, se no, periranno. Il Voivoda di Vityebsk intende venire a Podlyasye; gli vadano incontro per aiutarlo, dato il caso che trovasse ostacoli.
— Dirò ogni cosa, come se fossi pagato. Ma se potessi avere un segno da Vostra Grazia, sarebbe sempre meglio; — disse Jendzian.
— Pan Volodyovski concepirebbe subito più grande fiducia sulla sincerità di Vostra Grazia, e direbbe: «Se egli ha mandato un segno, vuol dire che vi è qualche cosa di serio in ciò che dice.
— Eccovi adunque il segno, sebbene ve ne siano molti su quegli uomini che voi conducete a Pan Volodyovski.
Kmita si tolse l'anello; e Jendzian da parte sua lo ritirò premurosamente, dicendo:
Un'ora dopo Jendzian coi suoi carriaggi ed i suoi uomini un po' maltrattati, moveva quietamente verso Shchuchyn, portando seco tre morti ed alcuni feriti, fra i quali Yuzva Butrym colla faccia tagliata e la testa rotta. Cammin facendo, lo Starosta guardò l'anello, la cui pietra scintillava ai chiaror della luna, e pensò a quello strano e terribile uomo, il quale, dopo aver fatto tanto male ai confederati e tanto bene agli Svedesi ed a Radzivill, pretendeva ora salvare i confederati dall'estrema rovina.
— Per altro i suoi consigli sono sinceri, — diceva fra sè. — È sempre meglio restare uniti. Kmita è un uomo strano; serve Radzivill, ama la nostra gente, e va dagli Svedesi: io non ne capisco nulla. — Poco dopo aggiunse: — È un generoso signore; ma è cosa pericolosa il contrariarlo.