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Gli Svedesi spadroneggiavano già da lungo tempo a Varsavia. Wittemberg, il governatore della città e comandante della guarnigione, trovavasi ora a Cracovia; e per lui aveva assunto il governo Radzeyovski. Non meno di due mila soldati erano nella città, cinta di forti mura. Il castello e la città non erano distrutti; perchè Pan Vessel, Starosta di Makovo, l'aveva ceduta senza combattere, ed egli colla guarnigione era frettolosamente scomparso, temendo una vendetta personale di Radzeyovski.
Ma quando Pan Kmita ebbe esaminato davvicino e attentamente la città, notò su molte case le traccie di mani devastatrici. Erano le case di quei cittadini, che erano fuggiti non volendo sopportare il governo straniero, oppure che avevano opposto resistenza quando gli Svedesi ne varcavano le mura.
Dei palazzi signorili erano intatti soltanto quelli i cui proprietari si erano dati anima e corpo agli Svedesi. Ma gli edifici del clero erano gravemente danneggiati; il palazzo di Denhof era mezzo demolito; quello della cancellerìa, chiamato anche il palazzo di Ossolinski nella via dei Riformati, era saccheggiato da capo a fondo. I mercenari Tedeschi stavano affacciati alle finestre; e quei costosi mobili che l'ultimo cancelliere aveva trasportati dall'Italia con tanto dispendio; quei cuoi fiorentini; quelle tappezzerie olandesi; quei bei stipi intarsiati di madreperla, e ritratti, e bronzi, e statue di marmo, e orologi di Venezia e di Danzica, quei magnifici specchi, giacevano ancora in disordine nel cortile, oppure erano già imballati e aspettavano di essere caricati sulle chiatte e trasportati sulla Vistula in Svezia.
La città non aveva più l'aspetto di una città polacca. Nelle strade si udivano quasi unicamente linguaggi stranieri: in tutti i punti s'incontravano soldati svedesi, tedeschi, francesi, inglesi e mercenari scozzesi.
Anche Armeni e zingari erano accorsi in gran numero da tutte le parti del paese.
In mezzo a questa straordinaria varietà di gente forastiera si trovava a stento qualcheduno degli abitanti della città; perchè, per la loro salvezza, erano quasi tutti obbligati a rinserrarsi nelle loro case mostrandosi ben di rado.
Le domeniche e gli altri giorni festivi, quando le campane suonavano la messa, la gente usciva a frotte dalle case e la città riprendeva il suo primitivo aspetto, sebbene le truppe forestiere formavano come una siepe di fronte alle chiese, per guardare le donne e tirarle per le vesti mentre camminavano ad occhi bassi, seguendole e canticchiando talvolta rozze canzoni, mentre appunto i preti cantavano la messa nelle chiese.
Tutto ciò colpiva gli occhi attoniti di Pan Kmita come una fantasmagorìa; egli non volle rimanere a lungo a Varsavia, perchè, non conoscendo nessuno, non aveva nessuno con cui sfogare l'animo suo. Egli parlava, è vero, con qualche nobile, per raccoglier notizie; ma tratteneva a stento lo sdegno vedendo ch'erano tutti fanatici aderenti degli Svedesi.
Di là da Varsavia poi, il paese era in moto come un vespaio. Tutte le strade, le città e borgate erano occupate dagli Svedesi, da servi di grandi signori, e da signori e nobili al servizio degli Svedesi.
E pazienza ancora; ma pur troppo i traditori erano peggiori del nemico. Gli antichi rancori, le offese dimenticate, tornavano a galla; ad un amico degli Svedesi tutto era permesso ed ogni delitto passava impunito. Peggiori, poi, erano i dissidenti, ed inoltre si formavano bande armate di disgraziati, di disperati e di malandrini.
E queste bande, appoggiate da predatori svedesi e tedeschi, piombavano sui contadini e sui nobili. Nessuno pensava a difendere gli oppressi e la Repubblica; nessuno sognava neppure di scuotere il giogo, nessuno nutriva la menoma speranza di riscossa.
Ora avvenne che una banda di predatori svedesi e tedeschi presso Sohachev, assediarono Pan Lushchevsk, Starosta del luogo, in Strugi, sua tenuta privata. Egli, come soldato, si difese vigorosamente, quantunque vecchio. Kmita giungeva appunto in quel paese, e siccome la sua pazienza era esausta, accorse a Strugi. Permise ai Kyemlich, per altro, di far come volevano, e si precipitò sugl'invasori con tal vigore, che si sparpagliarono; li inseguì, e parecchi malandrini furono fatti prigionieri. Lo Starosta, a cui l'aiuto era sceso come dal cielo, ricevette tosto il suo liberatore con ringraziamenti ed onori. Pan Andrea, vedendo dinanzi a sè un personaggio, un uomo politico, e inoltre uomo di età avanzata, gli confessò il suo odio contro gli Svedesi, e domandò allo Starosta, che ne pensasse del futuro avvenire della Repubblica, sperando ch'egli versasse con le sue parole qualche balsamo nell'anima sua.
Ma lo Starosta vedeva il passato in modo diverso da lui, e disse:
— Signore mio, io non so che cosa avrei potuto rispondere a tale domanda quando avevo i capelli biondi; ma oggi i miei capelli sono grigi e l'esperienza di settanta e più anni, mi mostra chiaro l'avvenire. Quindi dico, che nè noi, anche se ci correggessimo dei nostri errori, nè tutta l'Europa, può spezzare il potere degli Svedesi.
— Come può essere? — gridò Kmita. — Quando mai gli Svedesi hanno avuta tanta forza? Non vi sono più Polacchi al mondo? Non possiamo noi avere un grande esercito? E quest'esercito fu forse inferiore, per coraggio all'esercito svedese?
— Vi sono molto più Polacchi che Svedesi, — replicò il vecchio Starosta, — ed in quanto a valore, io ero a Kirchholm quando tre mila ussari dei nostri fecero morder la polvere a diciottomila dei migliori soldati svedesi.
— Se ciò è vero, — disse Kmita, i cui occhi lampeggiavano sentendo ricordare la vittoria di Kirchholm, — quali sono le cause che c'impediscono ora di porre un fine all'oppressione?
— Anzitutto questa, — rispose il vecchio in tono deciso, — che noi siamo diventati piccoli ed essi grandi; che essi ci hanno vinti colle nostre mani, come prima d'ora hanno vinto i Tedeschi coi Tedeschi. È volontà di Dio; e non v'è potere, ripeto, che possa opporsi a loro oggidì.
— Ma se i nobili rientrassero in sè stessi e si stringessero intorno al proprio Re... se tutti quanti prendessero le armi, che cosa consigliereste voi allora, e che cosa fareste voi stesso?
— Io andrei cogli altri e perirei per la patria, e consiglierei ogni uomo a perire: ma poi verrebbero tempi in cui è meglio non spingere lo sguardo.
— Peggiori tempi di questi non possono venire! Non possono! E impossibile! — gridò Kmita.
— Vedete, — continuò lo Starosta, — prima della fine del mondo e prima del giudizio finale verrà l'Anticristo; e si dice che quell'uomo cattivo prenderà il sopravvento sul buono. I demoni andranno attorno per il mondo e predicheranno una fede contraria alla vera, e vi attireranno gli uomini. Col permesso di Dio, il male vincerà da per tutto fino al momento in cui le trombe degli angeli annunzieranno la fine del mondo.
Lo Starosta tacque, e Kmita lo guardò con terrore poichè i suoi ragionamenti gli parevano giusti e logiche le sue conclusioni.
— Di quali profezie parla Vostra Grazia? — domandò finalmente Kmita, cui quel silenzio faceva sempre più penoso.
Lo Starosta, invece di rispondere, si voltò verso la porta d'una stanza attigua, e chiamò:
— In nome di Dio! chi chiamate? — esclamò Kmita. In quel momento credeva che un miracolo avesse trasportato la sua Olenka in quel luogo da Kyedani, e che essa dovesse apparire davanti ai suoi occhi. Ma invece di Panna Billevich, entrò una giovane formosa, snella, assomigliante un po' ad Olenka, dalla cui faccia trasparivano la dignità e la calma. Ella era pallida, forse ammalata, o forse anche spaventata pel recente combattimento: camminava ad occhi bassi, con tal leggerezza che pareva sfiorare appena il suolo con i suoi piedi.
— Quest'è mia figlia, — disse lo Starosta. — I miei figli non sono in casa; essi si trovano con Pan Pototski presso il nostro sfortunato Re.
Quindi si rivolse alla figlia e le disse: — Ringrazia questo prode cavaliere che ci ha salvati; poi gli leggerai la profezia di Santo Brigido.
— Conosco questa profezia, — disse Pan Andrea.
— Se la conoscete dovete ammettere che tutto si è verificato.
— Lo ammetto. Solo i ciechi possono dubitarne! — rispose Kmita.
— Quindi gli Svedesi non saranno mai vinti — ripetè lo Starosta con convinzione.
— Finchè non verrà quell'uomo che non risparmierà il proprio sangue per l'amore della verità! — esclamò Kmita.
Prima che lo Starosta rispondesse si aprì la porta ed entrò un uomo non più giovane, in armatura e con un moschetto in mano.
— Pan Shchebjytski? — disse lo Starosta.
— Sì, — rispose il nuovo arrivato. — Ho udito che i malandrini vi assediavano, e mi sono affrettato ad accorrere con i miei servi per difendervi.
— Senza la volontà di Dio non cadrà un capello dalla testa d'un uomo — rispose lo Starosta. — Questo cavaliere mi ha già liberato. Ma donde venite voi?
— Da Solachev.
— Tutte cattive. È avvenuta una nuova disgrazia. Le provincie di Cracovia, Sandomir, Rus, Lubelsk, Belzk, Volydia e Kieff si sono arrese a Carlo Gustavo. L'atto è già firmato dagl'inviati e dal Re.
Lo Starosta scosse la testa, e rivolto a Kmita:
— Vedete — gli disse — credete voi ancora che si troverà l'uomo che non risparmierà l'anima per l'amore della verità?
Per tutta risposta Kmita cominciò a strapparsi i capelli.
— Dicono, inoltre, — soggiunse Pan Shchebjytski, — che il rimanente dell'esercito di Pototski ha già rifiutato l'obbedienza e vuole arrendersi agli Svedesi.
— Essi hanno seminato la ribellione e raccolgono dolori e pene — disse lo Starosta. — Chi vuole far penitenza dei suoi peccati, quest'è il tempo.
Kmita non poteva più sentire nè profezie nè notizie. Quindi balzò in piedi e cominciò ad accommiatarsi.
— Ma dove volete correre così in fretta? — gli chiese lo Starosta.
— A Chenstohova, perchè io pure sono un peccatore.
— Quantunque mi sia gradita la vostra compagnia non vi tratterrò. Il vostro impegno è molto urgente perchè il giorno del giudizio è prossimo.
Kmita se ne andò e dietro a lui si mosse la fanciulla desiderando fare gli onori di casa in luogo del padre, che era afflitto da un male ai piedi.
— State sana, Panna Olenka, — disse Kmita. — Voi non sapete quanto io vi sono grato.
— Se mi siete grato fatemi un favore. Voi andate a Chenstohova: ecco un ducato... prendetelo, vi prego, e datelo per una messa nella Cappella.
— Con quale intenzione? — domandò Kmita.
La fanciulla abbassò gli occhi, e con visibile turbamento replicò:
— Affinchè Dio conceda ad Andrea di recedere dalle vie del male.
Kmita arretrò di due passi, e guardò la donzella, rimanendo estatico per alcuni istanti.
— Per le piaghe di Cristo! — esclamò alla fine — che casa è mai questa? Dove son io? Il vostro nome è Olenka, e mi date l'incarico di far dire una messa per il peccatore Andrea. Dio mio io divento matto!
Così dicendo afferrò le mani della fanciulla, e stringendole fortemente soggiunse
— Se quell'Andrea ritorna dopo di aver espiato i suoi errori, Olenka gli serberà la propia fede? Parlate, rispondete: perchè io non partirò senza una vostra risposta.
— Che avete? Che cosa vi turba? — gli chiese la fanciulla sgomentata.
— Olenka, gli serberà fede? — ripetè Kmita con forza.
— Fino all'ultimo respiro, fino all'ora della morte! — diss'ella con un singhiozzo.
Non aveva ancora finito di parlare, che Kmita cadde ai suoi piedi. Ella voleva fuggire, ma egli la trattenne, e baciandole i piedi, le disse:
— Io pure sono un Andrea peccatore che vuol convertirsi; anch'io amo un'Olenka. Possa il vostro Andrea convertirsi, e possa la mia Olenka serbarmi la fede. Possano le vostre parole esser profetiche. Voi avete versato balsamo e speranza nella mia anima afflitta... Dio ve ne rimeriti!
Poi balzò in piedi, salì a cavallo, e si allontanò a briglia sciolta.