Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO XL.

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CAPITOLO XL.

 

Intanto ad Anzio Petronio guadagnava quasi ogni giorno nuove vittorie sui cortigiani che rivaleggiavano con lui per conquistarsi il favore di Cesare. L'influenza di Tigellino non era più che un ricordo. In Roma, quando si trattava di eliminare persone supposte pericolose per impadronirsi dei loro averi, o per delle ragioni politiche, o per dare spettacoli stupefacenti per lo sfarzo e per il pessimo gusto, o per soddisfare i capricci mostruosi di Cesare, Tigellino, scaltro, pronto a tutto, era l'uomo indispensabile. Ma ad Anzio, tra i palazzi riflessi sull'azzurro del mare, Cesare viveva di una vita ellenica.

Da mattina a sera Nerone e il suo seguito leggevano versi, discutevano della loro struttura e della loro eleganza e si deliziavano a ogni frase cesellata; si occupavano di musica, di teatro e di ogni creazione del genio greco che aveva reso bella la vita. In tali condizioni Petronio, incomparabilmente più raffinato di Tigellino e degli altri cortigiani, per il suo spirito, per la sua eloquenza, per il suo gusto fine e per le sue osservazioni geniali, primeggiava. Cesare cercava la sua compagnia, chiedeva la sua opinione, il suo consiglio quando componeva e gli mostrava un'amicizia assai più calda che per lo innanzi. Parve ai cortigiani che la sua influenza avesse finalmente ottenuto un trionfo supremo e che l'amicizia tra lui e Cesare fosse entrata in un periodo di certezza per tanti anni.

Anche coloro che avevano mostrata antipatia per il raffinato epicureo, ora incominciavano a stargli intorno e a sollecitarne il favore. Più d'uno era sinceramente lieto che l'ascendenza fosse toccata a un uomo che sapeva davvero che cosa pensare di una data persona, che riceveva con un sorriso scettico la lode dei suoi nemici di ieri, ma che, sia per l'indolenza o per la elevatezza della mente, non era vendicativo e non si serviva della sua influenza per avvilire o rovinare gli altri.

Vi furono momenti in cui avrebbe potuto perdere lo stesso Tigellino. Ma lui preferiva metterlo in ridicolo e mostrarlo nella sua volgarità e nella sua mancanza di gusto.

Il Senato, in Roma, tirò il fiato per un mese e mezzo, senza decretare alcuna sentenza di morte. È vero che in Anzio e nella capitale si narravano le raffinate meraviglie raggiunte dalla depravazione di Cesare e del suo favorito. Ma ognuno preferiva un raffinato libertino a un Cesare brutalizzato da Tigellino.

Lo stesso Tigellino perdeva la testa ed esitava se o no doveva darsi vinto, perchè Cesare ripeteva che in tutta Roma e in tutta la sua Corte non c'erano che due uomini capaci di capirsi l'un l'altro, due veri elleni, egli e Petronio.

La meravigliosa abilità di Petronio ribadiva la convinzione che la sua influenza sopravviverebbe ad ogni altra. Non si sapeva come Cesare avrebbe fatto senza di lui, con chi potesse conversare di poesia, di musica e in quali occhî egli potesse capire se il suo lavoro fosse davvero perfetto. Petronio, colla sua abituale indifferenza, pareva non desse importanza alla sua posizione.

Come al solito egli era remissivo, pigro, scettico, arguto. Produceva sovente l'impressione di un uomo che non dava una grande importanza a loro, a , a Cesare, al mondo. A volte si arrischiava a criticare Cesare sulla faccia, e quando gli altri credevano ch'egli eccedesse o che stesse preparandosi la sua ruina, egli volgeva la sua critica su una strada che gli tornava di giovamento; suscitava negli astanti la meraviglia e la persuasione che non c'era imbarazzo dal quale non sarebbe uscito trionfante.

Circa una settimana dopo il ritorno di Vinicio da Roma, Cesare leggeva in mezzo a pochi augustiani un saggio della sua Troiade; finito di leggere e sedato l'entusiasmo, Petronio, interrogato da un'occhiata di Cesare, rispose:

– Sono versi comuni, da buttarsi sul fuoco.

Il cuore degli augustiani cessò come di battere dal terrore. Nerone non aveva mai udito un'impertinenza simile, neppure nella fanciullezza.

Sul viso di Tigellino si diffuse la gioia. Vinicio divenne pallido pensando che Petronio, sobrio per natura, si fosse questa volta ubbriacato.

Nerone, comunque, gli domandò con voce melata, nella quale si sentiva più o meno la vanità ferita.

– Che difetto trovi in essi?

– Non creder loro, disse Petronio colla mano puntata verso gli augustiani; essi non capiscono nulla. Tu mi domandi quali imperfezioni sono nei tuoi versi. Se tu desideri la verità, ascolta: I tuoi versi sarebbero degni di Virgilio, di Ovidio ed anche di Omero, ma non sono degni di te. La tua descrizione dell'incendio non arde abbastanza; il tuo fuoco non è infuocato abbastanza. Non dare ascolto alle adulazioni di Lucano. Se fossero stati scritti da lui, avrei riconosciuto in lui un genio; ma il tuo caso è differente. E sai perchè? Perchè tu sei più grande di loro. Si è più esigenti con colui che è dotato dagli dèi come sei tu. Tu sei indolente, dopo il pranzo tu preferisci sonnecchiare piuttosto che corrugarti la fronte. Tu puoi creare un lavoro di cui il mondo non ha idea, perciò io ti dico: scrivi meglio!

Egli disse tutto questo con noncuranza, tra la celia e il rimprovero; ma gli occhî di Cesare erano velati di gioia.

– Gli dèi mi hanno dato un po' d'ingegno, diss'egli, ma essi mi hanno dato qualcosa di più grande, un vero giudice e un amico, il solo uomo capace di dirmi la verità sulla faccia.

Detto questo, allungo la mano carnosa, tutta cosparsa di peli rossi, a un candelabro d'oro, portato via dal tempio di Delfi, per bruciare i versi. Petronio se ne impadronì prima che si accendessero.

– No, no! diss'egli: anch'essi appartengono al genere umano; lasciali a me.

– Allora permetti che io te li mandi in un cilindro di mia invenzione, rispose Nerone abbracciando Petronio. Indi proseguì:

– È vero, tu hai ragione. Il mio incendio di Troia non arde abbastanza; il mio fuoco non è infuocato abbastanza. Ma io credevo che bastasse uguagliare Omero. Sono sempre stato inceppato da una certa ritrosia e da una certa modestia delle mie facoltà intellettuali. Tu mi hai aperto gli occhî. E sai tu perchè mi siano riusciti imperfetti? Quando uno scultore fa la statua di un dio, si cerca un modello. Ma io non ho mai avuto un modello. Non ho mai veduto una città incendiata; questo è il perchè manca della fedeltà nella mia descrizione.

– Ti dirò che non è che il grande artista che capisce tutto questo.

Nerone divenne pensoso. Dopo una lunga pausa disse:

Rispondimi Petronio; rimpiangi tu l'incendio di Troia?

Rimpiangerlo? Per lo zoppo marito di Venere, ti giuro che non lo rimpiango affatto. E voglio dirtene la ragione. Troia non sarebbe stata consumata se Prometeo non avesse dato all'uomo il fuoco e se i Greci non avessero dichiarata la guerra a Priamo. Se non vi fosse stato l'incendio, Eschilo non avrebbe scritto il suo Prometeo, proprio come Omero non avrebbe scritto l'Iliade, se non vi fosse stata la guerra troiana. Credo che sia meglio avere Prometeo e l'Iliade, che una meschina città sporca e miserabile, dove adesso, a dir molto, ci sarebbe un governatore qualunque ad annoiarti con delle beghe sull'areopago.

– Questo è ciò che diciamo ragionare con la testa sulle spalle, disse Nerone. Alla poesia e all'arte deve essere permesso, ed è giusto, di sagrificare tutto. Fortunati gli Achei che poterono fornire a Omero il materiale per l'Iliade e fortunato Priamo che potè contemplare le rovine della città nativa.

Rimasero silenziosi fino a quando Tigellino passò a dire:

– Ti ho già detto, o Cesare, ordina e io incendierò Anzio: o sai tu che cosa vuoi ardere? Se ti rincresce per queste ville e per questi palazzi, comanda e io brucerò le navi nel porto d'Ostia, o costruirò una città di legno sui monti Albani, alla quale appiccherai tu stesso il fuoco. Vuoi?

Devo io contemplare l'incendio delle baracche di legno? domandò Nerone, gettando su lui un'occhiata di sprezzo. La tua mente è divenuta completamente sterile, Tigellino. E per di più vedo che non dai molto valore al mio ingegno, o alla mia Troiade, se giudichi che qualunque sacrificio possa essere troppo grande per essa.

Tigellino rimase confuso; ma Nerone, come se avesse voluto cambiare soggetto, disse poco dopo:

– L'estate è in pieno vigore. Oh, quale fetore vi deve essere ora in Roma! E tuttavia vi dobbiamo ritornare per i giuochi estivi!

– Quando tu congederai gli augustiani, o Cesare, permettimi di rimanere con te un momento, disse Tigellino.

Un'ora più tardi Vinicio, ritornando con Petronio dalla villa di Cesare, disse:

– Ho avuto un po' di paura per te. Supponevo che tu fossi ubriaco e perduto senza speranza. Ricordati che tu giuochi colla morte.

– È la mia arena, rispose Petronio, con indifferenza; l'idea che io sono il miglior gladiatore mi diverte. Tu hai veduto come è andata a finire. La mia influenza è aumentata. Egli mi manderà i suoi versi in un cilindro, il quale, vuoi scommettere? sarà immensamente ricco e immensamente di pessimo gusto. Ordinerò al mio medico di mettervi le medicine. Lo feci per un'altra ragione, perchè Tigellino vedendo il mio successo, vorrà indubbiamente imitarmi, ed io mi imagino che cosa potrà avvenire quando si metterà a fare dello spirito. Assomiglierà all'orso dei Pirenei, che va sulla corda. Riderò come Democrito. Se volessi potrei distruggerlo e divenire al suo posto il prefetto pretoriano e avere Barbadibronzo nella mia mano. Ma io sono indolente. Preferisco la mia vita e anche i versi di Cesare alle noie.

– Quale abilità fu la tua di voltare il biasimo in lode! Ma sono poi davvero così cattivi questi versi? Io non me ne intendo.

– I versi non sono peggiori degli altri. C'è più ingegno in un dito di Lucano; ma c'è qualche cosa anche in Barbadibronzo. Egli ha sopratutto un immenso amore per la poesia e per la musica. Fra due giorni sentiremo la musica del suo inno ad Afrodite, che egli terminerà oggi o domani. Saremo in pochi: io, tu, Tullio Senecione e il giovine Nerva. Riguardo a ciò che dissi dei versi di Nerone, che me ne servo, dopo i banchetti, come Vitellio si serviva delle penne dei fenicotteri, non è vero. A momenti sono eloquenti. Le parole di Ecuba commuovono. Si duole dei dolori del parto e Nerone trovò delle espressioni felici, forse per la ragione che è per lui un tormento ogni verso che partorisce. E a momenti ho pietà di lui. Per Polluce, che strano miscuglio! Caligola zoppicava nel quinto verso, nondimeno non fece mai cose così bizzarre.

– Chi può prevedere dove andrà a finire la pazzia di Barbadibronzo? domandò Vinicio.

– Nessuno. Possono avvenire cose da far drizzare i capelli alle generazioni di parecchî secoli. È questo appunto che mi interessa; e benchè io stesso ne sia stato annoiato, come Giove Ammone nel deserto, pure credo che sotto un altro Cesare lo sarei cento volte di più. Paolo, il tuo piccolo ebreo, è eloquente, glielo concedo; e se il popolo proclama con lui quella religione, i nostri dèi dovranno difendersi seriamente, se non vorranno correre il pericolo di essere trascinati via prigionieri. È vero che se Cesare fosse cristiano, tutti si sentirebbero più sicuri. Ma il tuo profeta di Tarso non ha pensato, citando me ad esempio, vedi, che proprio quell'incertezza è l'incanto della mia vita. Colui che non giuoca ai dadi non perde nulla, tuttavia la gente giuoca. C'è in ciò una certa voluttà e una certa distruzione del presente. Ho conosciuto dei figli di cavalieri e di senatori che si sono fatti gladiatori di loro elezione. Io gioco colla vita, come tu dici, ciò è vero, ma gioco perchè mi fa piacere, mentre le virtù cristiane mi infastidiscono in un giorno, come i discorsi di Seneca. Per questa ragione l'eloquenza di Paolo è sciupata. Dovrebbe capire che gente come me non accetterà mai il suo vangelo. Col tuo carattere potresti o odiare il nome di cristiano, o divenire cristiano tu stesso. Riconosco la verità di ciò che essi dicono, quantunque mi facciano sbadigliare. Noi siamo pazzi. Ci affrettiamo al precipizio; qualcosa di ignoto viene verso noi; qualcosa sta per rompersi sotto di noi; qualche cosa muore intorno a noi... D'accordo! Noi riusciremo a morire. Ma non vogliamo opprimere la vita, abbandonarci alla morte prima del tempo. La vita esiste per sola e non già per la morte.

– Ti compiango, Petronio.

– Non compiangermi più di quello che io stesso mi compianga. Prima tu eri lieto con noi; quando eri in Armenia, sognavi Roma.

– E anche ora sogno Roma.

– Lo so; perchè sei innamorato di una vestale cristiana che abita nel Trastevere. Non ne stupisco e non ti biasimo. Solo mi meraviglio che ad onta di una religione che tu hai descritto come un mare di felicità e di un amore che deve essere tosto coronato dal matrimonio, la tristezza sia sempre sulla tua faccia. Pomponia Grecina è eternamente pensosa; dal momento che tu hai deciso di farti cristiano, hai cessato di ridere. Non tentare di persuadermi che questa religione sia gaia. Tu sei ritornato da Roma più triste che mai. Se i cristiani si amano in questo modo, per le bionde ciocche di Bacco, io non li imiterò!

– Questa è un'altra cosa, rispose Vinicio, io ti giuro, non per le bionde ciocche di Bacco, ma sull'anima di mio padre, che non ho mai avuto nel passato neppure la parvenza della felicità che provo oggi. Ma mi tormento assai; e ciò che è ancora più strano, quando sono lontano da Licia penso sempre che ella sia minacciata da qualche pericolo. Non so di quale pericolo, da dove possa venire; ma lo sento come si sente l'avvicinarsi della tempesta.

– Fra due giorni otterrò per te il permesso di lasciare Anzio, per quel tempo che ti farà comodo. Poppea è un po' più quieta; e per quello che so, tu Licia correte alcun pericolo.

Oggi stesso ella mi ha domandato che cosa facevo in Roma, benchè la mia partenza fosse stata segreta.

– Forse ella ti ha messo alle calcagna le spie. Ora però l'avrà da fare anche con me.

Paolo mi ha detto, disse Vinicio, che Dio qualche volta previene, ma non permette di credere ai cattivi presentimenti; ma io lotto invano contro il mio presentimento. Ti dirò ciò che avvenne, tanto per togliermi il peso dal cuore. Io e Licia eravamo seduti, vicini l'uno all'altra, in una notte calma come questa, a discorrere del nostro avvenire. Non ti posso dire come eravamo felici in quella calma. In un momento tutti i leoni si misero a ruggire. È una cosa abituale in Roma, ma d'allora in poi non ho più riposo. Mi parve che in quel ruggito vi fosse una minaccia, l'annuncio di una sciagura. Tu sai che non mi spavento facilmente; pure in quella notte qualche cosa avvenne che riempiva l'oscurità di terrore. Venne così inaspettato che ne ho ancora i suoni nelle orecchie e la paura nel cuore, come se Licia domandasse la mia protezione per qualche cosa di spaventevole – anche da quegli stessi leoni. Provo la tortura. Ottienimi il permesso di abbandonare Anzio, o me ne andrò senza. Non posso più rimanere. Te lo ripeto: non posso!

– I figli dei consoli e le loro mogli non sono ancora dati in pasto ai leoni nelle arene, disse Petronio ridendo. Ogni altra morte può capitare, eccetto questa. Chi sa poi se erano leoni? I bisonti germanici ruggiscono con non meno gentilezza dei leoni. Per mio conto me ne rido e dei presentimenti e del fato. La notte scorsa era calda e io vidi le stelle che cadevano come pioggia. Tanti le avrebbero scambiate per un cattivo augurio. Io invece pensai che se tra esse vi fosse stata anche la mia stella, mi sarei trovato con una numerosa compagnia.

Dopo un po' di silenzio aggiunse:

– Se il vostro Cristo è risorto, può forse proteggervi entrambi dalla morte.

– Egli può, rispose Vinicio, guardando al cielo pieno di stelle

 

 


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