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Nerone suonava e cantava, in onore della «Signora di Cipro», un inno di versi e di musica composto da lui stesso. Era in voce e sentiva che la sua musica inebriava gli spettatori. Tale idea aggiungeva forza ai suoni ed elevava la sua anima a tal punto da lasciarlo credere veramente ispirato. Alla fine divenne pallido dall'emozione sentita. Questa fu indubbiamente la prima volta che egli non aveva voglia di udire le lodi degli altri. Sedette per un po' con le mani sulla cetra e la testa sul petto. Poi, improvvisamente, balzò in piedi, dicendo:
– Sono stanco ed ho bisogno d'aria. Intanto accordatemi la cetra.
Si avvolse la gola in un fazzoletto di seta.
– Voi verrete con me, disse volto a Petronio e a Vinicio. Dammi il braccio Vinicio, perchè non ho più forza; Petronio mi parlerà della musica.
Uscirono sulla terrazza, la quale era pavimentata di alabastro e aspersa di zafferano.
– Qui si respira più liberamente, disse Nerone. La mia anima è commossa e triste, benchè io vegga che con ciò che ti ho cantato ora per prova posso andare in pubblico e ottenere un trionfo come nessun romano ha mai ottenuto.
– Potresti rappresentare la tua musica qui, in Roma e all'Acaia. Io ti ammiro con tutto il mio cuore e la mia intelligenza, o divino, rispose Petronio.
– Lo so, tu sei troppo pigro per forzarti a lodare e tu sei sincero come Tullio Senecione, ma tu sei più dotto di lui. Dimmi, che ne pensi della mia musica?
– Quando ascolto la poesia, quando guardo a una quadriga guidata da te nel Circo, quando contemplo una bella statua, un bel tempio, o un bel quadro, sento che capisco perfettamente ciò che vedo, che il mio entusiasmo prende tutto ciò che queste cose possono dare. Ma quando ascolto della musica, e specialmente la tua musica, mi si rivelano nuove bellezze e nuove delizie ad ogni istante. Le inseguo, tento agguantarle; ma prima che io le abbia côlte, altre ed altre più nuove ne vengono, proprio come le onde del mare che s'inseguono all'infinito. Perciò io ti dico che la musica è come il mare. Da una riva l'occhio si perde per le acque lontane, ma non possiamo vedere l'altra riva.
– Ah, che profonda conoscenza tu hai, disse Nerone.
E per un minuto passeggiarono nel silenzio, interrotto solo dalle foglie di zafferano che scricchiolavano sotto i loro piedi.
– Tu hai espresso il mio pensiero, disse alfine Nerone; perciò io dico ora, come sempre, che in tutta Roma tu sei il solo capace di capirmi. Così è, il mio giudizio sulla musica è come il tuo. Quando io suono e canto, vedo cose che non sapevo che esistessero nel mio impero o nel mondo. Io sono Cesare e il mondo è mio. Posso fare quello che voglio, ma la musica mi dischiude nuovi regni, nuove montagne, nuovi mari e nuove ebrezze, sconosciute prima. Il più delle volte non posso farne i nomi o agguantarli; ma li sento. Sento gli dèi, vedo l'Olimpo. Una specie di brezza non terrena soffia in me; io guardo come in una nebbia, una certa incommensurabile grandezza, tranquilla e luminosa come il sorgere del sole. Tutte le sfere mi girano intorno, ed a te dichiaro (qui la voce di Nerone tremò di vera emozione) che io, Cesare e dio, mi sento, in quei momenti, piccolo quanto un granello di sabbia. Lo credi?
– Lo credo. Solamente i grandi artisti hanno la potenza di sentirsi piccoli di fronte all'arte.
– Questa è la notte delle confessioni; perciò ti apro l'anima mia come a un amico. Credi tu che io sia cieco o privo della ragione? Credi tu che io non sappia che la gente in Roma scrive sulle muraglie insulti contro me, chiamandomi matricida, uxoricida e considerandomi un mostro e un tiranno, perchè Tigellino ottenne poche sentenze di morte contro i miei nemici? Sì, caro mio, mi si crede un mostro, lo so. Si è parlato tanto della mia crudeltà che in certi momenti mi domando: non sono io crudele? Ma essi non capiscono che gli atti di un uomo possono essere crudeli in certi momenti, senza ch'egli sia crudele. Ah, nessuno vorrà crederlo e forse neppure tu, mio caro, lo crederai, che quando la musica mi accarezza l'anima mi sento buono come un bimbo nella culla. Lo giuro per quelle stelle che scintillano su noi, che ti dico la pura verità. La gente ignora quanta bontà sia in questo cuore e quali tesori io veda in esso quando la musica apre loro la porta.
Petronio che non aveva dubbio alcuno che Nerone in quel momento fosse sincero, e che credeva che la musica potesse far sorgere nobili sentimenti dall'anima, anche se schiacciati sotto una montagna di egoismo, di depravazione e di delitti, disse:
– La gente ti dovrebbe conoscere quanto ti conosco io. Roma non ha mai potuto apprezzarti.
Cesare s'appoggiò più pesantemente al braccio di Vinicio, quasi stesse piegando sotto il peso dell'ingiustizia.
– Tigellino, disse Nerone, mi ha detto che nel Senato si bisbiglia da un orecchio all'altro che Diodoro e Terpno suonano la cetera meglio di me. Mi rifiutano perfino questo! Ma tu, che mi dici sempre la verità, dimmi: suonano meglio di me o come me?
– Nient'affatto. Il tuo tocco è più delicato e la tua potenza è maggiore. In te si sente l'artista, in loro è l'abilità. L'uomo che ascolti prima la loro musica capisce meglio chi tu sei.
– Se questo è vero, vivano pure. Non s'imagineranno mai il servizio che tu hai reso loro in questo momento. Per quello che hai detto, se io li condannassi a morte sarei obbligato a mettere altri due al loro posto.
– E la gente, per giunta, direbbe che per amore della musica tu distruggi la musica nei tuoi dominî. Non uccidere mai l'arte per amore dell'arte, o divino.
– Come sei diverso da Tigellino! rispose Nerone. Ma vedi, io sono artista in ogni cosa. E dacchè la musica mi apre orizzonti che ignoro, regioni sulle quali non impero, ebrezze e delizie che non conosco, io non posso vivere la vita comune. La musica mi dice che esiste la vita superiore, così che io la cerco con tutte le forze che gli dèi hanno messo a mia disposizione. A momenti mi pare che per raggiungere quei mondi olimpici devo fare qualche cosa che nessuno ha mai fatto, che devo sorpassare la statura dell'uomo nel bene o nel male. So che la gente mi dichiara pazzo. Ma non sono pazzo, io sto semplicemente cercando. E se sto per impazzire, gli è perchè sono disgustato e impaziente di non poter trovare. Io cerco! Mi capisci? E perciò io voglio essere più grande dell'uomo, perchè è solo in quel modo che io posso essere il più grande come artista.
Qui abbassò la voce perchè Vinicio non lo udisse, e mettendo la sua bocca all'orecchio di Petronio, bisbigliò:
– Sai tu che io ho condannato a morte mia madre e mia moglie principalmente perchè volevo lasciare alle porte di un mondo sconosciuto il più grande sacrificio che l'uomo possa fare? Pensavo che dopo qualche cosa sarebbe avvenuto, che le porte si sarebbero aperte e al di là delle quali avrei veduto l'ignoto. Ch'esso sia meraviglioso o spaventevole, al disopra della concezione umana, purchè esso sia grande e di nessuno. Ma quel sagrificio non è stato sufficiente. Per aprire le porte empiree è necessario si faccia qualche cosa di più grande. E sia come vogliono i fati!
– Che intendi di fare?
– Tu lo vedrai più presto che non lo pensi. Intanto sta sicuro che vi sono due Neroni: l'uno, quale lo conosce il popolo, l'altro, artista, che tu solo conosci e che se massacra come la morte o va in frenesia come Bacco, è solo perchè la scipitaggine e la miseria della vita comune lo soffoca. E mi piacerebbe distruggerla, dovessi valermi del ferro o del fuoco. Oh, come insipido sarà questo mondo quando me ne sarò andato! Nessuno ha sospettato ancora, nemmeno tu, quale artista sono io. Ma appunto per questo soffro. Te lo dico sinceramente che la mia anima è cupa come quei cipressi che vediamo laggiù nel buio. È doloroso per un uomo sostenere ad un tempo il peso del supremo potere e del più alto ingegno.
– Io ti compiango, o Cesare; e con me la terra e il mare, senza contare Vinicio, che ti deifica col cuore.
– Egli pure mi è sempre stato caro, disse Cesare, benchè egli serva Marte e non le muse.
– Egli serve Afrodite prima di tutto, rispose Petronio.
E immediatamente risolvette di accomodare l'affare di suo nipote con un colpo, eliminando ogni pericolo che potesse minacciarlo.
– Egli è innamorato come lo era Troilo di Cressida. Permettigli o Cesare, di visitare Roma, perchè egli sta morendo nelle mie mani. Sai che l'ostaggio litio che tu gli avevi dato è stato trovato e che Vinicio, per venire ad Anzio, l'ha lasciata nella casa di certo Lino? Non te l'ho detto prima perchè tu stavi componendo il tuo inno, e quello era più importante di ogni altra cosa. Vinicio la voleva come amante, ma quando seppe ch'ella era virtuosa come una Lucrezia, egli si innamorò della sua virtù e ora desidera sposarla. Ella è la figlia di un re, così che non c'è disparità di condizione. Ma lui è un vero soldato: sospira, langue e geme, ma aspetta il permesso del suo imperatore.
– L'imperatore non sceglie le mogli per i suoi soldati; di che uso può essere il mio permesso a Vinicio?
– Ti ho detto, o Cesare, che ti deifica.
– Tanto più egli può essere certo del permesso. Ella è una fanciulla avvenente, ma troppo stretta di fianchi. L'augusta Poppea si dolse di lei, dicendomi che aveva stregato il nostro bimbo nei giardini del Palatino.
– Ma io dissi a Tigellino che gli dèi non sono soggetti agli incantesimi. Tu ti ricorderai, o divino, la sua confusione e la tua esclamazione: Habet!
– La ricordo.
– L'ami proprio, come dice Petronio? domandò Nerone a Vinicio.
– L'amo, o Cesare, egli rispose.
– Allora ti ordino di partire domani per Roma e di sposarla. Non comparire dinanzi i miei occhî senza l'anello nuziale.
– Grazie a te, o Cesare, dal profondo del mio cuore.
– Oh, come è dolce far felice la gente! disse Nerone. Volessero gli dèi che non facessi altro in tutta la vita!
– Concedici un altro favore, o divino, disse Petronio, dichiara la tua volontà in questa cosa dinanzi all'Augusta. Vinicio non sposerebbe mai una donna che spiacesse all'Augusta; tu le dissiperai il pregiudizio, o Cesare, con una parola, dichiarando che tu hai ordinato questo matrimonio.
– Concesso, disse Cesare; non posso rifiutare nulla a te e a Vinicio.
Volse verso la villa e loro lo seguirono. I loro cuori erano pieni di gioia per la vittoria; e Vinicio dovette fare degli sforzi per non gettarsi al collo di Petronio, perchè pareva che ormai non esistessero più nè pericoli, nè ostacoli.
Nell'atrio della villa il giovine Nerva e Tullio Senecione conversavano con Augusta. Terpno e Diodoro accordavano le cetere.
Nerone, entrato, prese posto in una poltrona intarsiata di scaglie di tartaruga, bisbigliò qualche cosa all'orecchio di uno schiavo greco e aspettò.
Lo schiavo ritornò subito con un scrigno d'oro. Nerone lo aperse e ne tolse un collare di grosse opali.
– Questi sono gioielli degni di questa sera, diss'egli.
– La luce dell'Aurora è in essi, rispose Poppea, convinta che fossero per lei.
Cesare, ora alzando e ora abbassando le pietre vermiglie, disse:
– Vinicio, darai, da parte mia, questo monile alla giovine figlia del re licio, che ti ordino di sposare.
L'occhiata di Poppea piena di stupore e di collera passò da Cesare a Vinicio e poi si fermò su Petronio. Ma Petronio, appoggiandosi con noncuranza al braccio della poltrona, passò la sua mano lungo il dorso dell'arpa come per fissarne in mente la forma.
Vinicio, ringraziato Cesare per il dono, si avvicinò a Petronio:
– Come potrò ringraziarti per ciò che hai fatto per me oggi?
– Sagrifica un paio di cigni ad Euterpe, disse Petronio, loda i canti di Cesare, e ridi dei malaugurî. D’ora innanzi i ruggiti dei leoni non disturberanno il tuo sonno, spero, nè quello del tuo giglio licio.
– No, disse Vinicio, ora io sono perfettamente tranquillo.
– Che la fortuna ti arrida. Ma sii prudente, perchè Cesare prende di nuovo il suo liuto. Rattieni il respiro, ascolta e versa delle lacrime.
Infatti Cesare aveva preso il liuto e alzati gli occhî. Nella sala la conversazione era cessata e le persone erano immobili, come pietrificate. Terpno e Diodoro, che dovevano accompagnare Cesare, erano pronti, ora guardandosi l'un l'altro, ora pendendo dalle sua labbra, aspettando i primi suoni del canto.
Proprio allora vi fu del movimento e del rumore all'entrata; il liberto di Cesare, Faonte, entrò dalla cortina. Dietro lui era il console Lecanio.
– Perdona, divino imperatore, disse Faonte, come trafelato, c'è un incendio in Roma! La più gran parte della città è in fiamme.
Tutti scattarono in piedi.
– O dèi! Vedrò una città incendiata e finirò la mia Troiade! disse Nerone, mettendo da parte il liuto.
– Se partissi subito arriverei in tempo?
– Signore, rispose Lecanio, pallido come la parete marmorea, l'intera città è un mare di fiamme; il fumo soffoca gli abitanti, la gente sviene e si getta nel fuoco dal delirio. Roma perisce, signore.
Seguì un minuto di silenzio interrotto da un grido di Vinicio.
E il giovane, gettata via la toga, si mise a correre fuori dal palazzo colla sola tunica.
Nerone alzò le mani ed esclamò
– Sventura a te, sacra città di Priamo!