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La luce rossastra della città che bruciava empiva il cielo fin dove poteva giungere l'occhio umano. La luna spuntò in tutta la sua pienezza, dietro il monte, accendendosi subito dello splendore diffuso per l'aria e assumendo il colore del rame arroventato. Pareva che guardasse stupita alla città dominatrice del mondo che periva. Nelle profondità vermiglie del firmamento le stelle scintillavano del colore del sangue; mentre la terra, per distinguersi dalle altre notti, era più chiara del cielo. Roma, come una gigantesca catasta di fuoco, illuminava tutta la Campania. Nella luce sanguigna si vedevano in lontananza i monti, le città, le ville, i templi, i monumenti e gli acquedotti convergere verso la città dai colli vicini; sugli acquedotti c'erano le moltitudini che vi avevano cercato rifugio o che assistevano allo spettacolo dell'incendio.
Intanto l'elemento divoratore si estendeva in altri quartieri della capitale. Era impossibile dubitare che il fuoco venisse diffuso da mani delittuose dal momento che i nuovi incendî scoppiavano sempre in luoghi assai lontani dal grosso dell'incendio. Dalle alture sulle quali Roma era stata fondata, le fiamme discendevano, come onde del mare, nelle valli densamente popolate di case – case di cinque o sei piani, piene di botteghe; di anfiteatri di legno ambulanti, costruiti per diversi spettacoli; di depositi di legna, di olive, di grano, di noci, di pinocchi i cui semi nutrivano la popolazione più povera, di magazzini di abiti che di tanto in tanto per grazia di Cesare venivano distribuiti alla plebaglia ammucchiata negli angiporti. In questi luoghi pieni di materiale infiammabile, l'incendio diveniva una serie di esplosioni e si impadroniva di vie intere con una rapidità inaudita. La gente accampata fuori della città e sugli acquedotti, indovinava dal calore che cosa bruciava. La potenza del vento furioso portava su dal golfo di fuoco milioni di guscî di noci e di mandorle incandescenti, e li lanciava direttamente sul cielo, come infiniti sciami di farfalle luminose che si spaccavano con degli schioppettii e si disperdevano nelle altre parti della città sugli acquedotti e sui campi fuori di Roma. Ogni idea di scampo era un'illusione; la confusione cresceva di minuto in minuto, la popolazione della città scappava a gambe levate in cerca di rifugi fuori dalle mura, e la popolazione rurale, composta di contadini e di pastori semibarbari della Campania, si rovesciava in città, incitata dalla speranza di saccheggiarla. Il grido di «Roma perisce!» era sempre in bocca della moltitudine; la rovina della capitale pareva che in quel momento ponesse termine a ogni governo e sciogliesse i vincoli che fino allora avevano tenuto assieme la compagine sociale. La plebe, in mezzo alla quale gli schiavi erano assai numerosi, se ne infischiava della signoria di Roma. Solo la sua distruzione poteva rendere loro la libertà; perciò, qua e là, assumeva un'attitudine minacciosa. Le violenze e i furti si moltiplicavano. Pareva che solo l'aspetto della città morente potesse attirare l'attenzione e frenare per il momento il massacro, il quale incomincerebbe subito che Roma fosse incenerita. Centinaia di migliaia di schiavi, dimenticando che Roma, oltre i templi e le mura, possedeva dieci legioni in tutte le parti del mondo, pareva che non aspettassero che la parola d'ordine e il capo. Si incominciava a parlare di Spartaco, ma Spartaco non era vivo. Intanto i cittadini si riunivano e si armavano con ciò che potevano. Le voci più mostruose correvano da una parte all'altra della città. Alcuni asserivano che Vulcano, per ordine di Giove, distruggeva Roma col fuoco di sotterra; altri che Vesta si vendicava per causa di Rubria. La gente, con tali idee per il capo, non si curava punto di salvare qualche cosa, ma assediava i templi e implorava la misericordia degli dèi. Più sovente però si ripeteva dappertutto che Cesare aveva dato ordine di bruciare Roma per liberarsi dagli odori della Suburra ed edificare una città nuova, intitolata Neronia. La plebaglia inferociva pensando a questo, e se, come Vinicio credeva, un capo avesse approfittato di quest'odio esacerbato, l'ora di Nerone sarebbe suonata molti anni prima di quando è suonata.
Si diceva pure che Cesare era impazzito e avrebbe ordinato ai pretoriani e ai gladiatori di precipitarsi sul popolo per farne una strage generale. Altri giuravano sugli dèi che le bestie feroci erano state sguinzagliate da tutti i serragli per ordine di Barbadibronzo. Taluni avevano veduti nelle vie i leoni colle criniere in fiamme, e gli elefanti e i bisonti infuriati sulla folla che rovesciavano e calpestavano. In questo c'era qualche cosa di vero. In alcuni luoghi gli elefanti, all'avvicinarsi del fuoco, avevano infranto le gabbie e liberi si erano dati a una fuga precipitosa, distruggendo e passando dovunque come una tempesta.
La voce pubblica calcolava a diecine di migliaia il numero delle persone perite nella conflagrazione. In verità ne perirono un gran numero. Non pochi, che avevano perduto tutti i loro cari, si gettavano spontaneamente nelle fiamme dalla disperazione. Molti altri erano rimasti assassinati. Al centro della città, tra il Campidoglio da una parte e il Quirinale, il Viminale e l'Esquilino dall'altra, come pure tra il Palatino e il Colle Celio, dove le vie erano gremite di abitanti, il fuoco scoppiò in tanti punti in una volta, così che le moltitudini che fuggivano in una direzione opposta all'incendio, capitavano addosso a un'altra muraglia incendiata e morivano di una morte spaventevole in un diluvio di fiamme.
Terrorizzata, sconvolta, intontita, la gente non sapeva dove fuggire. Le vie erano ingombre di mobilia e di merce, e tanti luoghi angusti erano assolutamente bloccati. Coloro che si erano rifugiati in quei mercati e in quelle piazze della città, dove venne poi eretto l'Anfiteatro Flaviano, vicino al tempio della Terra, vicino al Portico di Silvia e più in su, ai templi di Giunone e di Lucinia, tra il Clivus Virbius e la vecchia Porta dell'Esquilino, perirono nell'atmosfera infocata, circondati da un mare di fiamme. Nei luoghi rimasti immuni dalle fiamme si sono trovate centinaia di cadaveri carbonizzati, benchè qua e là i disgraziati si fossero mezzo sepolti tra i massi spaccati per difendersi dalla veemenza del calore. Forse non una famiglia del centro della città sopravvisse intera, perciò lungo le mura delle porte, per tutte le strade si udivano i lamenti disperati delle donne che chiamavano i loro cari morti nel tumulto o nel fuoco.
E così, mentre alcuni imploravano l'aiuto degli dèi, altri li maledivano per la spaventevole catastrofe. Si sono veduti vecchî uscire dal tempio di Giove Liberatore, colle mani protese in atto supplice, gridare: «Se tu sei un Liberatore, salva i tuoi altari e la città!» Ma la disperazione si volgeva principalmente contro i vecchî dèi romani, i quali, nella mente della plebaglia, erano obbligati a proteggere la città con maggior cura degli altri. Essi si erano rivelati impotenti e la gente li insultava. D’altra parte avvenne in via Asinaria che quando comparvero dei sacerdoti egiziani con una statua di Iside che avevano salvato dal tempio vicino alla Porta Cælimontana, la folla si cacciò tra loro, si attaccò al carro, lo tirò fino alla Porta Appia e la pose sul tempio di Marte, violentando i sacerdoti di quella deità che avevano osato resistere alla volontà del popolo.
In altri luoghi si invocavano Serapide, Baal, Jehova, i cui credenti, uscendo in folla dalle viuzze vicine alla Suburra e a Trastevere, empivano i campi accanto alle mura di grida e di frastuono. Nelle loro grida si udivano suoni come di trionfo; quando perciò alcuni cittadini si formavano in coro e glorificavano il «Signore del Mondo», altri, indignati di questo vociare giocondo, tentavano impedirlo colla violenza. Quà e là si sentivano inni cantati da uomini nel fiore della vita, da vecchî, da donne, da fanciulli, inni maravigliosi e solenni che la gente non capiva, ma nei quali erano ripetute di momento in momento le parole:«Guardate il giudice che viene nel giorno dell'ira e del disastro!» Così questo diluvio di persone, senza riposo e senza tetto, circondava la città incendiata come un mare in tempesta.
Ma nulla giovava; nè la disperazione, nè la bestemmia, nè l'inno. La distruzione sembrava irresistibile, completa, spietata come il destino medesimo. Intorno all'anfiteatro di Pompei s'incendiavano i magazzini di canape, colle corde usate nei circhi e nelle arene, e ogni macchina per i giuochi e con essi gli edifici pieni di barili di pece colla quale le corde erano impegolate. In poche ore tutta quella parte della città, al di là della quale era il Campo Marzio, era così illuminata da brillanti fiamme gialle, che per un certo tempo parve agli spettatori mezzo incoscienti dal terrore, che nella catastrofe generale fosse stato travolto l'ordine della notte e del giorno e stessero contemplando il sole. Più tardi però un mostruoso bagliore sanguigno spegneva tutti gli altri colori della fiamma. Dal mare di fuoco si slanciavano verso il cielo ardente gigantesche fontane e alte colonne di fiamme allargantesi alla cima in rami e pennacchi di fuoco. Poi il vento le portava via, le mutava in fili d'oro, in capelli, in faville e le trasportava sulla Campania verso i Monti Albani. La notte diveniva più chiara; l'aria stessa pareva penetrata non solo dalla luce, ma dalla fiamma.
Il Tevere scorreva con un fuoco vivente. La sfortunata città era diventata un pandemonio. La conflagrazione conquistava sempre più spazio, prendeva d'assalto i colli, inondava i luoghi piani, sommergeva le vallate, infuriava, muggiva, tuonava.