Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO XLVI.

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CAPITOLO XLVI.

 

La città bruciava.

Il Circo Massimo non era più che un mucchio di rovine. Le vie e i vicoli coi quartieri ove aveva avuto principio l'incendio, rovinavano alla loro volta. A ogni caduta, colonne di fiamme ardenti si drizzavano fino al cielo. Il vento aveva cambiato e soffiava con veemenza dal mare, portando verso il Celio, l'Esquilino e il Viminale fiumi di fiamme e di materiale incandescente. Le autorità avevano incominciato finalmente a occuparsi di prestare qualche soccorso. Per ordine di Tigellino, venuto il terzo giorno da Anzio, le case dell'Esquilino vennero demolite perchè il fuoco, giungendo, non vi trovasse più combustibile e si spegnesse da . Era questa una misura solo per salvare quello che rimaneva della città; a quello che bruciava, non si badava. Era necessario prendere provvedimenti contro le conseguenze funeste del disastro. Un'enorme ricchezza era perita in Roma; tutto ciò che possedevano i suoi cittadini era scomparso, e a centinaia di migliaia erravano intorno alle sue mura nella più atroce miseria.

La fame aveva incominciato a farsi sentire il secondo giorno, perchè i depositi delle provvigioni erano stati divorati col resto. Durante la confusione generale nessun funzionario aveva pensato al soccorso dei viveri. Solo dopo l'arrivo di Tigellino si spedirono a Ostia gli ordini necessarî, ma intanto il popolo diveniva sempre più minaccioso.

Il palazzo di Acqua Appia, nel quale s'era insediato Tigellino, era circondato dalla moltitudine delle donne che gridavano dalla mattina alla sera tardi:

– Del pane e un tetto!

Invano i pretoriani, venuti dal campo tra la via Salaria e la via Nomentana, si sforzavano di mantenere un po' d'ordine. Qua e essi si trovavano di fronte a una resistenza aperta, armata. In alcuni luoghi le moltitudini disarmate puntavano la mano verso la città che ardeva e gridavano: «Trucidateci, piuttosto che lasciarci divorare dalle fiamme!» Si maledivano Cesare, gli augustiani, i pretoriani; i clamori divenivano sempre più minacciosi, e Tigellino, guardando di notte agli innumerevoli fuochi intorno alle mura, si diceva che erano i fuochi dell'oste nemica.

La farina e il pane affluivano da Ostia e da tutti i punti della città e dei villaggi vicini. Ai primi arrivi di notte, all'Emporio, il popolo per la porta principale verso l'Aventino e si gettò sui viveri con un avidità immensa, generando una terribile confusione.

Nella luce dell'incendio lottavano per la pagnotta, e molte di esse, durante il tafferuglio, andavano sotto i piedi. La farina si perdeva dai sacchi stracciati e copriva il suolo, dai granaî agli archi di Druso e di Germanico, di un'immensa distesa di neve. Il tumulto non cessò che quando i soldati s'impadronirono dell'edificio e dispersero le moltitudini colle frecce o coi proiettili.

Mai, dall'invasione dei Galli sotto Brenno, Roma aveva subito un disastro simile. La gente straziata paragonava i due incendî e diceva che quello di Brenno aveva lasciato il Campidoglio.

Ora il Campidoglio era circondato da una corona di fiamme. I marmi, è vero, non fiammeggiavano; ma di notte, quando il vento spingeva le fiamme da una parte, si vedevano nell'alto santuario di Giove filate di colonne rosse come tanti blocchi di carboni accesi.

Di più, ai tempi di Brenno, la popolazione era unita e disciplinata, devota alla città e agli altari; ora, intorno a queste mura crollanti, stazionava una folla quasi nomade, composta in gran parte di schiavi e di liberti, eccitata, tumultuosa, pronta, sotto il pungolo del bisogno, a rivoltarsi contro il potere e la città.

Ma l'immunità degli orrori dell'incendio, che riempiva i cuori di spavento, disarmava fino a un certo punto le moltitudini. Dopo l'incendio poteva venire l'epidemia e la carestia, perchè a completare l'incommensurabile sciagura erano venuti i calori soffocanti del luglio. Non era possibile respirare l'aria infiammata dal fuoco e dal sole. La notte, invece di portare sollievo, diventava un inferno. Il giorno rivelava uno spaventevole spettacolo che presagiva qualche cosa ancora di più spaventevole. Al centro della città gigantesca era un vulcano in eruzione che muggiva, e tutto intorno, fino ai monti Albani, si vedeva un campo a perdita di vista, formato di baracche, di tende, di capanne, di veicoli, di colli, di fagotti, di banchi di vendita e di fuochi, il tutto sotto una nube di fumo e di polvere illuminata dai raggi del sole infocati da quelli dell'incendio.

E in mezzo a tanto tumulto, a tante grida, a tante minacce, a tanto odio e a tanto terrore, formicolava una mostruosa moltitudine di uomini, di donne e di fanciulli. I quiriti confusi coi greciuomini capelluti del nord cogli occhî azzurricogli africani, cogli asiatici; tra i cittadini, gli schiavi, gli uomini liberi, i gladiatori, i negozianti, gli operaî, i servi, i soldati, un vero mare di gente che girava intorno a un'isola di fuoco.

In mezzo a questo mare umano circolavano le notizie più disparate. Gente che parlava di un'abbondante distribuzione gratis di frumento e di abiti che dovevano arrivare all'Emporio; gente che diceva che l'imperatore aveva dato ordine di spogliare l'Africa e l'Asia dei loro tesori, perchè ogni abitante di Roma potesse edificarsi la sua casa. Si diceva pure rumorosamente che l'acqua degli acquedotti era stata avvelenata; che Nerone voleva incenerire Roma, distruggere i suoi abitanti fino all'ultima persona e poi andarsene in Grecia o in Egitto e dominare il mondo in un altro luogo. Ogni diceria correva colla rapidità del lampo e ciascuna veniva creduta dalla plebe che scoppiava in gridi di gioia, di collera, di terrore, di spavento.

Tutte quelle migliaia di persone nomade erano dominate dalla febbre.

La credenza dei cristiani che la fine del mondo col fuoco era prossima, era diffusa anche tra gli adoratori degli dèi e si propalava sempre più ogni giorno. Il popolo si abbandonava all'inerzia e alla follìa. Nelle nubi illuminate dall'incendio le moltitudini vedevano gli dèi che guardavano giù sulle rovine, e le mani si levavano verso loro per implorare la misericordia o per imprecare a loro con maledizioni che si rompevano nell'atmosfera incendiata.

Intanto i pretoriani, aiutati da un certo numero di abitanti, continuavano a demolire gli edifici dell'Esquilino e del Celio ed anche del Trastevere; perciò questi quartieri, in gran parte, venivano salvati; ma nel cuore della città erano stati distrutti tesori infiniti, accumulati lungo i secoli di conquista; lavori d'arte di un prezzo inestimabile, templi superbi, i monumenti più preziosi della Roma antica e della gloria di Roma. Vedevano che di tutta Roma non sarebbero sopravissute che alcune parti ai margini e che centinaia di migliaia di persone sarebbero rimaste senza tetto. Alcuni spargevano le voci che i soldati abbattevano le case, non per arrestare l'incendio, ma per impedire che si salvasse qualche cosa della città. Tigellino inviava un corriere dopo l'altro ad Anzio, supplicando Cesare in ogni lettera di venire a Roma a calmare, colla sua presenza, la disperazione del popolo. Ma Nerone non si mosse che quando l'incendio aveva investito la domus transitoria, affrettando il viaggio per non perdere il momento in cui la conflagrazione sarebbe stata al suo apogeo.

Il fuoco aveva guadagnato la via Nomentana, quando il vento lo trascinò subito verso la via Lata e il Tevere; e allora le fiamme circondarono il Campidoglio, e si estesero attraverso al Forum Boarium consumando ogni cosa che avevano dimenticato prima e avvicinandosi al Palatino per la seconda volta.

Tigellino, che aveva riunito tutte le forze pretoriane, inviava a Cesare un corriere dopo l'altro ad annunciargli ch'egli non avrebbe perduto nulla della grandiosità dello spettacolo, poichè il fuoco ingigantiva.

Ma Nerone, in viaggio, voleva giungere di notte, per contemplare in tutto l'orrore la capitale che periva. Per questo si fermò nei dintorni di Acqua Albana, ove fece chiamare sotto la sua tenda il tragico Alituro, perchè lo aiutasse a comporsi un'attitudine, uno sguardo e dei movimenti in armonia col disastro.

Discusse pure a lungo se nel pronunciare: «O sacra città, che sembri resistere più del monte Ida», doveva alzare entrambe le mani al cielo o non alzarne che una e lasciare l'altra colla forminga giù penzolone per il corpo. E questa questione, per lui, signoreggiava ogni altra. Rimettendosi alla fine in viaggio sul crepuscolo, consultò pure Petronio, per sapere se conveniva aggiungere ai versi che descrivevano la catastrofe, alcune superbe imprecazioni contro gli dèi, o se, considerate dal punto di vista dell'arte, non sarebbero sgorgate spontanee dalla bocca di un uomo che si trovava nella sua condizione, da un uomo che stava per perdere la patria.

Verso mezzanotte si avvicinò alle mura, seguìto dalla sua Corte, composta di nobili, di senatori, di cavalieri, di liberti, di schiavi, di donne e di fanciulli. Sedicimila soldati della guardia pretoriana, in linea di battaglia lungo il passaggio, proteggevano il corteggio imperiale, tenendo la folla a una distanza rispettosa. Il popolo malediva, urlava e fischiava alla vista di questa pompa teatrale, ma non osava attaccarlo.

La feccia della popolazione, che non avendo nulla non aveva perduto nulla e che sperava in una generosa distribuzione di frumento, di olive, di abiti e di denari, lo applaudiva. Finalmente gli urli, i fischî e gli applausi vennero annegati nei suoni delle trombe e dei corni fatti suonare opportunamente da Tigellino.

Nerone, giunto alla porta d'Ostia, si fermò sclamando:

Sovrano senza tetto di un popolo senza asilo, dove poserai tu questa notte la testa sventurata?

Dopo avere passato il Clivus Delphini, ascese lentamente i gradini, che gli avevano preparato dell’acquedotto Appiano, seguìto da un esercito di cortigiani e da un coro di cantanti colle cetere, coi liuti e cogli altri strumenti musicali.

Tutti rattenevano il respiro in attesa di udire dalle labbra dell'imperatore alcune parole grandiose che bisognava mandare a memoria se si aveva cara la vita. Ma lui, solenne, muto, drappeggiato nel manto di porpora, coronato di lauri d'oro, era perduto nella contemplazione delle fiamme veementi. Quando Terpno gli presentò il suo liuto, alzò gli occhî al cielo pieno dell'incendio, come per aspettare l'ispirazione. Il popolo lo vedeva da lontano circonfuso nella sua aureola sanguigna.

Lontano, furiosi serpenti sibilavano. Intorno a lui bruciavano i più antichi e venerati monumenti: il tempio d'Ercole, inalzato da Evandro; il tempio di Giove Statore; il tempio di Luna, fatto costruire da Servio Tullio; la casa di Numa Pompilius, il santuario di Vesta coi suoi penati del popolo romano. A intervalli, si vedeva attraverso le fiamme, il Campidoglio; bruciava tutto il passato, tutto lo spirito di Roma, ma lui, Cesare, era , con in mano il liuto, colla teatralità diffusa sulla faccia, che non pensava alla patria morente, ma al suo atteggiamento tragico, alle parole sonore che descrivessero la grandiosità della catastrofe e suscitassero coll'ammirazione i più entusiastici applausi. Egli odiava Roma, odiava gli abitanti, amava solo i suoi canti e i suoi versi; perciò egli tripudiava di vedere alla fine una tragedia pari a quella ch'egli stava scrivendo.

Il versaiuolo era felice, il declamatore si sentiva ispirato, il cercatore di emozioni s'inebriava del quadro spaventevole, pensando con trasporto che anche l'incendio di Troia era nulla in confronto dell'incendio della città gigantesca. Che cosa poteva egli desiderare di più?

La Roma sovrana era in fiamme, e lui, in piedi, sugli archi dell'acquedotto, con un liuto d'oro, maestoso, imporporato, ammirato, superbo, poetico. Sotto, nell'ombra, il popolo mormorava e si agitava; ma poteva mormorare e agitarsi fin che voleva!

I secoli passeranno, migliaia d'anni si succederanno, ma l'umanità si ricorderà sempre di questo poeta glorioso che in quella notte cantava la caduta e l'incendio di Troia. Che cos'era Omero al suo confronto? E che cos'era Apollo colla sua vuota lira?

Alzò le mani e, toccate le corde, pronunciò le parole di Priamo:

– O nido dei miei antenati, mia culla diletta!

La sua voce nell'aria, coi muggiti della conflagrazione e i rumori della moltitudine lontana, pareva debole, incerta, qualche volta inaudibile. L'accompagnamento traduceva il susurro di uno sciame di insetti. Senatori, dignitarî, augustiani, adunati sull'acquedotto, curvarono le loro teste e nel raccoglimento supremo ascoltavano rapiti. Egli cantava da un pezzo e la cadenza diveniva sempre più monotona.

Allorquando si fermò per riprendere fiato, il coro si mise a ripetere l'ultimo verso; poi Nerone, gettandosi indietro la syrma col gesto tragico che gli aveva insegnato Alituro, riprendeva il liuto e ricominciava a cantare. Terminate le linee composte, si mise a improvvisare, cercando grandiose comparazioni per lo spettacolo che gli si svolgeva dinanzi. La espressione della sua faccia incominciò a cambiare. Non era commosso, è vero, dalla distruzione della capitale del suo paese: ma il pathos delle sue parole lo estasiò e lo commosse a tal punto che i suoi occhî si gonfiarono di lacrime. Con un movimento energico, lasciò cadere ai suoi piedi il liuto con rumore, poi si ravvolse nella syrma9 e rimase immobile, pietrificato, come una di quelle statue di Niobe che adornavano il cortile del Palatino.

Un uragano d'applausi ruppe il silenzio, al quale risposero gli urli delle moltitudini. Nessuno, in quel momento, dubitava che Cesare avesse dato ordine di incendiare la città per darsi uno spettacolo e infuturarlo in un canto. Nerone, udito le voci che lo maledivano, si volse agli augustiani, col sorriso triste e rassegnato dell'uomo che soffriva una sanguinosa ingiustizia.

– Voi vedete, diss'egli, come i quiriti apprezzano la mia poesia e me stesso!

Miserabili! rispose Vatinio. Ordina ai pretoriani, signore, di caricarli.

Nerone si volse a Tigellino.

– Posso contare sulla fedeltà dei soldati?

– Sì, divino, rispose il prefetto.

Ma Petronio alzò le spalle, dicendo:

– Sulla loro fedeltà, sì; ma non sul loro numero. Rimani dove sei, perchè qui sei più sicuro; è necessario pacificare il popolo.

Seneca e Licinio, il console, erano della stessa opinione. L'eccitamento andava sempre più crescendo. Il popolo si armava di pietre, di pali, di tende, di bastoni che toglievano dai carri, di panche e di aste di ferro. Poco dopo i capi delle coorti pretoriane vennero a dire che le moltitudini spingevano e che mantenevano la linea con una difficoltà immensa. Senza ordini d'attacco desideravano sapere che cosa dovevano fare.

– O dèi, disse Nerone, quale notte! Da una parte l'incendio, dall'altra l'uragano scatenato della plebe!

E cercava frasi sonanti che riassumessero il pericolo del momento, ma vedendosi circondato da sguardi inquieti e da facce scolorate dalla paura, si sentì spaventato come gli altri.

Datemi un mantello scuro con un cappuccio! disse l'imperatore. Siamo noi proprio a una lotta a mano armata?

Signore, disse Tigellino con una voce inquieta, io ho fatto quello che ho potuto, ma il pericolo è grave. Parla, o signore, al popolo e fagli delle promesse.

Deve Cesare parlare alla feccia? Lo faccia un altro in mio nome. Chi vuol incaricarsene?

– Io! rispose Petronio con calma.

Va, amico mio; tu mi sei il più fedele in ogni occasione. Va e non risparmiare promesse.

Petronio si volse al seguito con una espressione ironica.

– I senatori presenti, e voi Pisone, Nerva e Senecione, seguitemi

Discese lentamente l'acquedotto. Coloro che egli aveva invitato lo seguirono non senza qualche esitazione, ma rassicurati dal suo sangue freddo. Giunto al piede degli archi, ordinò di condurgli un cavallo bianco. Saltato in sella si mosse alla testa della cavalcata, tra due file di pretoriani, con in mano la sola canna d'avorio che egli aveva sempre, verso il mare nero che tumultuava.

A un dato punto spinse il cavallo tra la gente pigiata. Da ogni parte, illuminate dai riflessi dell'incendio, si vedevano mani in alto, armate di ogni arnese, occhî incendiati dalla collera, facce madide, labbra che urlavano piene di bava. Intorno a lui e al suo seguito era tutto un mare colle sue onde impetuose; e dinanzi a lui era un mare di teste agitato, muggente, spaventevole.

Le vociferazioni aumentavano e si convertivano in urli che avevano più nulla di umano. Al disopra della sua testa si agitavano bastoni, forche ed anche delle spade; mani che volevano agguantare si spingevano verso lui e verso le redini del cavallo, ma Petronio continuava la sua via, freddo, indifferente, con aria di sprezzo. Toccava leggermente colla canna la testa dei più insolenti, come per farsi largo tra una folla che non voleva che vedere; e questa sua imperturbabilità s'imponeva anche ai più esaltati. Alla fine lo si riconobbe e numerose voci incominciarono a gridare da tutte le parti.

Petronio! l'arbitro dell'eleganza! Petronio! Petronio!

E a mano a mano che si ripeteva il suo nome le facce perdevano della loro espressione terribile, le grida divenivano meno feroci, poichè questo patrizio orgoglioso, pur non avendo mai ricercato il favore della plebe, era ancora il suo favorito. Lo si considerava umano e generoso, e la sua popolarità era di molto accresciuta dal giorno che si seppe che aveva parlato in favore degli schiavi di Pedanio Secondo, crudelmente condannati dal prefetto a morte. Da quel momento gli schiavi lo amavano di quell'amore sviscerato che gli oppressi o i diseredati sentono per coloro che nutrono un po' di simpatia per loro. A questo si aggiungeva la curiosità di sapere ciò che aveva da dire l'inviato di Cesare, poichè nessuno metteva in dubbio ch'egli aveva ricevuto in quel momento da Cesare uno speciale incarico.

Si tolse la toga bianca, marginata di scarlatto, l'agitò al disopra della testa in segno ch'egli voleva parlare.

Silenzio! Silenzio! gridò il popolo da tutte le parti.

Dopo un po' si fece silenzio. Petronio si raddrizzò sul cavallo e disse con voce chiara e sonora:

Cittadini, coloro che odono le mie parole le ripetano ai più lontani e contenetevi voi stessi da uomini e non da bestie da arena.

Ubbidiremo! Ubbidiremo!

– Allora ascoltatemi. La città verrà riedificata. I giardini di Lucullo, di Mecenate, di Cesare e di Agrippina vi saranno aperti. Domani incomincerà la distribuzione delle farine, del vino e delle olive, perchè ogni uomo possa riempirsi fino alla gola. Poi l'imperatore vi promette dei giuochi che il mondo non ha mai veduto di uguali; durante questi giuochi vi si daranno dei banchetti e vi si faranno dei regali. Voi sarete più ricchi dopo il fuoco che prima.

Ne nacque un mormorìo confuso che dal centro andò in tutte le direzioni, come l'onda sollevata dal sasso che corre sull'acqua. I più vicini ripetevan le parole ai più lontani. Da una parte suscitavano l'applauso, dall'altra la collera. Alla fine fecero prorompere tutta la folla in un immenso grido di panem et circenses!!!

Petronio si ravvolse nella toga e stette ad ascoltare imperturbabile. Così, immobile, pareva una statua di marmo. I clamori crescevano e si confondevano coi muggiti dell'incendio e dappertutto si rispondeva. L'inviato di Nerone aveva indubbiamente qualche altra cosa da dire perchè aspettava. Levata la mano per ottenere silenzio, riprese colla stessa voce tranquilla:

– Vi prometto panem et circenses; e ora gridate: viva l'imperatore! che vi mantiene e vi vestisce; e ora andate a dormire, o miei cari, perchè l'alba non è lontana.

Volse il cavallo, toccando come prima colla canna la testa di coloro che si trovavano sulla sua via, e si avviò lentamente tra le file dei pretoriani. Poco dopo giunse ai piedi dell'acquedotto, ove vide la Corte agitatissima perchè aveva scambiato il grido di panem et circenses per un'irruzione d'ira popolare. Non si credeva neppure che Petronio avesse potuto salvare stesso.

Così, Nerone, quando lo vide, corse a lui, colla faccia pallida dall'emozione.

– Che cosa avviene? gli domandò ansiosamente. Vi sarà lotta?

Petronio respirò a pieni polmoni, poi rispose:

– Per Polluce! come gridano! e che fetore! Per carità, datemi dell'epilimma, o mi vedrete svenire.

Poi voltosi a Cesare:

– Ho promesso loro, diss'egli, farine, olive, l'accesso ai giardini e dei giuochi. Essi ti adorano sempre e stanno ora acclamandoti. Dèi, quale puzza orribile esala da questa canaglia!

– I pretoriani erano pronti, gridò Tigellino, e se tu non li avessi calmati, le loro grida sarebbero state ridotte a un silenzio eterno. È un peccato, Cesare, che tu non mi abbia permesso di servirmi della forza.

Petronio lo guardò in faccia alzando le spalle, e aggiunse:

– Si è sempre in tempo; tu potrai essere obbligato a servirtene domani.

– No, no! sclamò Cesare. Io ordinerò di aprir loro i giardini e di distribuire loro i viveri. Ti ringrazio, Petronio; darò loro giuochi e l'inno che ho cantato oggi; voglio ripeterlo in pubblico.

Indi pose le sue mani sulle spalle dell'arbitro, rimase un po' pensoso, e poi lo interrogò:

Dimmi sinceramente, come ho cantato oggi?

– Tu eri degno dello spettacolo e lo spettacolo era degno di te, disse Petronio.

Poi si voltò verso l'incendio e aggiunse:

Guardiamolo ancora e diamo l'addio all'antica Roma.

 

 





9 Una toga lunga, indossata dagli attori di tragedie.



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