Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO XLVIII.

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CAPITOLO XLVIII.

 

Il popolo si era accampato nei giardini imperiali, un tempo di Domizio e di Agrippina; prese pure posto in Campo Marzio, nei giardini di Pompeo, di Sallustio e di Mecenate, sotto i portici, negli sferisterî, nelle sontuose ville estive e negli edifici delle bestie feroci. Pavoni, fagiani, cigni, struzzi, gazzelle, antilopi africane, cervi che servivano di ornamento ai giardini, passarono sotto il coltello della plebe. Le provvisioni incominciarono a venire da Ostia in tanta abbondanza, che si poteva passare, come da un ponte per le imbarcazioni da una riva all'altra del Tevere. Il grano veniva venduto all'inaudito basso prezzo di tre sesterzi ed era dato gratis agli indigenti. Venivano alla città immense quantità di vini, di olive e di castagne; gli animali scendevano dalle montagne a frotte. I pitocchi che prima dell'incendio morivano di fame nelle fogne della Suburra, ora menavano una esistenza meno scellerata. Il pericolo della fame era assolutamente scongiurato, ma era più difficile sopprimere il furto, l'assassinio e la violenza. La vita nomade assicurava l'impunità ai ladri, tanto più facilmente perchè si proclamavano ammiratori di Cesare e lo applaudivano incessantemente al momento in cui si faceva vedere.

Inoltre quando gli avvenimenti incalzavano e l'autorità dei funzionarî era come in vacanza e non c'erano sufficienti soldati per rintuzzare l'insolenza della feccia più degradata di quel tempo, si commettevano atti che sorpassavano l'imaginazione. Ogni notte c'erano zuffe sanguinose e assassinî spaventevoli, e ogni notte si rapivano donne e fanciulli. A Porta Mugonia, dove sostava il gregge che veniva dalla Campania, avvenivano scontri nei quali i contendenti perivano a centinaia. Tutte le mattine il Tevere era coperto di cadaveri che nessuno raccoglieva e che col caldo dell'incendio imputridivano in fretta e riempivano l'aria di odori fetenti. L'epidemia irruppe negli accampamenti e i più guardinghi prevedevano una peste orribile.

La città continuava a bruciare. Solo il sesto giorno, quando il fuoco raggiunse gli spazî vuoti dell'Esquilino, dove un enorme numero di case era stato demolito, incominciò a indebolire. Ma i mucchî di cenere incandescente davano tanta luce che la gente non voleva credere che si era alla fine della catastrofe. E per vero il fuoco irruppe con vigore la settima notte negli edifici di Tigellino; ma durò poco per mancanza di combustibile. Comunque, qua e , di tanto in tanto, precipitavano le case consumate, e dalle loro rovine si levavano torri di fiamme e colonne di scintille. Ma il materiale ardente principiava ad annerire alla superficie. Dopo il tramonto il cielo aveva cessato d'illuminarsi della luce sanguigna, e solo nella notte si vedevano sull'immensa distesa nera tremolare lingue di fuoco che uscivano dalla catasta di carboni infocati.

Dei quattordici quartieri di Roma, non ne rimanevano che quattro, incluso il Trastevere. Le fiamme avevano divorato tutti gli altri, incenerito tutto. Dal Tevere all'Esquilino apparivano spazî immensi, grigi, tetri, deserti. In questi spazî c'erano filate di comignoli, come cippi in un cimitero. Tra queste colonnucce funebri, girava di giorno una popolazione lugubre alla ricerca di cose preziose o degli ossi dei cari perduti. Nelle notti, intorno le ceneri e le rovine delle abitazioni, si udivano i cupi latrati dei cani che si perdevano nello spazio.

Tutte le generosità e il soccorso di Cesare non impedivano al popolo di indignarsi e di fare della maldicenza. I soli contenti erano i ladri, i delinquenti e i mascalzoni che potevano mangiare e bere e far bottino di tutto. La gente che aveva perduto tutto, che piangeva i parenti, non era sedotta dall'apertura dei giardini, dalla distribuzione del pane e dalle promesse dei giuochi e dei doni. La catastrofe era stata troppo grande e senza paragone. Molti che avevano serbato una scintilla di amore per la città e pel luogo ove erano nati, erano disperati alla notizia che il vecchio nome di Roma doveva scomparire perchè Cesare potesse far sorgere dalle ceneri della capitale la città nuova chiamata Neropoli. Il fiume dell'odio ingrossava ogni giorno, a dispetto di Tigellino. Nerone, che amava l'applauso della folla più di ogni altro Cesare, pensava con spavento che la lotta ostinata e mortale, impegnata tra lui e i patrizî nel Senato, gli avrebbe potuto far perdere ogni appoggio. Gli stessi augustiani non erano meno spaventati di lui, perchè ogni mattina potevano alzarsi con l'ordine di scomparire dalla terra. Tigellino pensava a far venire alcune legioni dall'Asia Minore. Vatinio, che rideva anche quando lo si schiaffeggiava, aveva perduto il suo buon umore; Vitellio non aveva più appetito. Altri si consigliavano sul modo di sviare il pericolo, perchè non era un segreto per alcuno che se Cesare veniva travolto nella sommossa, non uno degli augustiani sarebbe sfuggito, ad eccezione, forse, di Petronio.

Il popolo attribuiva alla loro suggestione tutte le pazzie e i delitti commessi da Nerone. L'odio per loro sorpassava quasi quello per Nerone. Perciò parecchî incominciavano a fare sforzi per togliersi di dosso la responsabilità dell'incendio di Roma.

Ma per riuscire a questo dovevano provare anche che i sospetti che circondavano Nerone erano falsi, perchè altrimenti nessuno li avrebbe creduti innocenti. Tigellino si consultò con Domizio Afro ed anche con Seneca, benchè l'odiasse. Poppea, che capiva che la fine di Nerone sarebbe stata anche la sua, si consultò coi suoi rabbini ebrei (perchè ormai era saputo da tutti ch'ella professava la religione di Jehova). Nerone si valeva dei suoi metodi, i quali, sovente erano terribili e assai più sovente sciocchi, così che passava dal terrore alla gioia infantile.

Sopratutto si lamentava.

Un giorno ci fu un inutile consiglio in casa di Tiberio, sopravvissuta all'incendio. Petronio era d'avviso ch'era meglio uscire dagli imbarazzi andandosene in Grecia e di in Egitto e nell'Asia Minore. Il viaggio era stato progettato prima; e non c'era ragione di rimandarlo, tanto più che in Roma non c'era che tristezza e pericolo.

Cesare accettò il consiglio con ardore; ma Seneca, dopo averci pensato un poco, disse:

– La partenza è facile, ma il ritorno sarebbe assai difficile.

– Per Ercole! rispose Petronio, noi possiamo ritornare alla testa delle legioni asiatiche.

– Questo è quello che farò! disse Nerone.

Tigellino era contrario. Lui non sapeva trovare nulla adatto alla situazione; e se l'idea dell'arbitro gli fosse venuta in mente, l'avrebbe chiamata, senza dubbio, la sola possibile. Ma per lui l'importante era di impedire che Petronio divenisse, per la seconda volta, il solo uomo che potesse nei momenti difficili salvare tutto e tutti.

Ascoltami, divino, diss'egli, questo consiglio è fatale! Prima che tu sia a Ostia scoppierebbe la guerra civile. E chi sa se qualcuno dei discendenti collaterali del divino Augusto non si proclamerebbe Cesare? E che cosa faremo noi se le legioni si mettessero dalla sua parte?

– Noi procureremo, rispose Nerone, che non vi siano discendenti di Augusto. Non ve ne sono molti ora; così è facile sbarazzarsi di loro.

– Questo è vero, ma si tratta solo di loro? Ieri la mia gente ha udito nella folla che un uomo come Trasea dovrebbe essere Cesare.

Nerone si morsicò le labbra. Poco dopo alzò gli occhî e disse:

Insaziabili e ingrati! Hanno grano fin che vogliono e carbone per cuocersi le loro focacce, che cosa vogliono di più?

Vendetta! replicò Tigellino.

Si fece silenzio. Cesare balzò in piedi, stese la sua mano e incominciò a declamare:

– I cuori sono assetati di vendetta e la vendetta ha bisogno di una vittima!

Poi, dimenticando ogni cosa, disse con faccia radiosa:

Datemi la tavoletta e lo stilo per scrivere questo pensiero. Lucano non avrebbe potuto comporne uno simile. Vi siete accorti che mi è venuto in un batter di ciglio?

– O incomparabile! sclamarono molte voci.

Nerone lo scrisse e disse:

– Sì, la vendetta ha bisogno di una vittima.

Volgendo lo sguardo su coloro che stavano intorno a lui:

– E se spargessimo la voce che Vatinio ha dato ordine di incendiare la città e lo abbandonassimo alla collera del popolo.

– O divino! Chi sono io? sclamò Vatinio.

– È vero. È necessario qualcuno che sia più importante. Lo sarebbe Vitellio?

Vitellio si fece pallido e si mise a ridere.

– Il mio grasso, rispose, potrebbe riaccendere il fuoco.

Nerone aveva nella testa qualche cos'altro; egli internamente cercava una vittima che avrebbe potuto veramente soddisfare l'ira del popolo, e questa vittima l'aveva trovata.

Tigellino, disse l'imperatore dopo una pausa, sei stato tu che hai incendiato Roma.

Gli augustiani ebbero un brivido. Avevano compreso che Cesare aveva cessato di celiare e che il momento spaventevole era giunto.

La faccia di Tigellino si contrasse come le labbra di un cane che stia per mordere.

– Io ho incendiato Roma per tuo ordine! diss'egli. E tutti e due, come due demonî, si guardarono negli occhî divenuti terribili.

Tigellino, disse l’imperatore, mi ami?

– Tu lo sai, signore.

Sagrificati per me.

– O divino Cesare, rispose Tigellino, perchè mi presenti la dolce coppa che io non potrò accostare alle mie labbra? Il popolo brontola e insorge; vuoi tu che si rivoltino anche i pretoriani?

Tutti i presenti rimasero terrorizzati. Tigellino era un prefetto pretoriano e le sue parole volevano dire una minaccia diretta. Nerone stesso la capì e ne divenne pallido.

In questo momento Epafrodito, il liberto di Cesare, entrò ad annunciare che la divina Augusta voleva vedere Tigellino, perchè vi erano nei suoi appartamenti persone che il prefetto doveva udire.

Tigellino s'inchinò a Cesare e uscì colla sua faccia tranquilla e piena di disprezzo. Ora che si voleva colpirlo, aveva mostrato i denti; aveva fatto loro capire con chi avevano a fare; e conoscendo la vigliaccheria di Nerone, era sicuro che il dominatore del mondo non avrebbe mai osato levare la mano su lui.

Nerone sedette silenzioso per un momento; poi, vedendo che i presenti si aspettavano una risposta, disse:

– Ho covato un serpente nel seno.

Petronio si scosse nelle spalle come per dire che non era difficile strappare la testa a un tale serpente.

– Che cosa vuoi tu dire? Parla, consiglia! sclamò Nerone che aveva visto il movimento delle spalle. Ho fiducia in te solo, perchè tu hai più buonsenso di tutti e tu mi vuoi bene.

Petronio era per dire: «Fammi prefetto pretoriano e abbandonerò Tigellino al popolo e pacificherò la città in un giorno.» Ma la sua indolenza innata prevalse. Essere prefetto voleva dire mettersi sulle spalle la persona di Cesare e tutti gli affari di Stato. E perchè si sarebbe egli dato tutta questa briga? Non era meglio leggere della poesia nella sua sontuosa biblioteca, contemplare i vasi e le statue, o stringersi al petto il corpo divino di Eunice, attorcigliandole i capelli d'oro colle dita e posare le sue labbra sulla sua bocca di corallo?

Perciò rispose:

– Io consiglio il viaggio all'Acaia.

– Ah! disse Nerone, mi aspettavo qualcosa di più da te. Il Senato mi odia. Se io parto, chi mi assicura ch'esso non si rivolti e proclami Cesare qualche altro? Il popolo fino adesso mi è stato fedele, ma ora andrebbe col Senato. Per Plutone! Se il Senato e il popolo avessero una testa sola!

Permettimi di dire, o Divino, che se tu desideri salvare Roma devi pure salvare alcuni romani, osservò Petronio con un sorriso.

– Che m'importa di Roma e dei Romani! disse con voce di disprezzo Nerone. Sarei ubbidito in Acaia. Qui non sono circondato che dal tradimento. Tutti mi abbandonano e voi tutti state pensando al tradimento. Lo so, lo so. Voi non v'imaginate neppure che cosa direbbero i secoli di voi, se abbandonaste un'artista come sono io.

Si battè la fronte e gridò:

– È vero. Anche tra queste noie mi dimentico chi sono.

Poi, rivoltosi a Petronio col viso raggiante:

Petronio, diss'egli, il popolo mormora; ma se io prendo il mio liuto e vado al Campo Marzio; se io canto al popolo l'inno che cantai durante l'incendio, non pensi tu che io lo commuoverei come Orfeo commosse le belve feroci?

Tullio Senecione, impaziente di ritornare alle sue schiave venute da Anzio, rispose a Nerone:

– Senza dubbio, o Cesare, se ti permettessero di incominciare.

Andiamo all'Ellade! gridò Nerone preso dal disgusto.

Entrarono Poppea e Tigellino. Gli occhî degli astanti si volsero involontariamente su quest'ultimo, perchè mai trionfatore ascese il Campidoglio coll'alterigia con cui Tigellino stava dinanzi a Cesare. Incominciò a parlare lentamente, con enfasi, con un tono che sentiva dell'ironia.

Ascolta, o Cesare, perchè io posso dire: ho trovato! Il popolo è assetato di vendetta; ma non vuole una vittima, bensì ne vuole delle centinaia, delle migliaia. Hai tu mai udito, o Cesare, chi era Cristo, colui che venne fatto crocifiggere da Ponzio Pilato? E sai tu chi siano i cristiani? Non ti ho io detto dei loro delitti, delle loro nefande cerimonie e della loro predizione che l'incendio avrebbe distrutto il mondo? Il popolo li odia e li sospetta. Nessuno li ha mai veduti in un tempio, perchè essi considerano i nostri dèi spiriti maligni; non compaiono mai allo Stadium, perchè disprezzano le nostre corse. Mai le mani di un cristiano ti hanno onorato con un applauso. Nessuno di loro ti ha mai riconosciuto come Dio. Essi sono nemici del genere umano, della città, di te. Il popolo mormora contro te; ma tu non mi hai dato ordini d'incendiare Roma ed io non l'ho bruciata. Il popolo vuole sangue e giuochi; abbia l'uno e gli altri. Il popolo ti sospetta, che il tuo sospetto cada su altri.

Nerone ascoltava maravigliato; ma siccome Tigellino continuava, così la sua faccia d'attore assumeva, a poco a poco, le espressioni della collera, del dolore, della simpatia, dell'indignazione. Immediatamente si alzò in piedi, si tolse la toga che gettò ai suoi piedi e colle mani levate stette in silenzio per qualche tempo. Alla fine disse con voce tragica;

– O Giove, o Apollo, o Giunone, o Minerva o tutti voi immortali! Perchè non ci siete venuti in aiuto? Che cosa ha mai fatto questa città sventurata a quei crudeli miserabili che l'hanno inumanamente incendiata?

– Sono nemici del genere umano e tuoi, disse Poppea.

– Fa giustizia! gridarono gli altri. Punisci gli incendiarî! Gli stessi dèi gridano vendetta!

Nerone sedette, si lasciò cadere la testa sul petto e rimase silenzioso per la seconda volta, come sbalordito della scelleratezza che aveva udito.

Poco dopo si strinse le mani e disse:

– Quali castighi, quali punizioni meritano per un delitto così mostruoso? Gli dèi mi ispireranno e con l'aiuto dei tartari darò al mio povero popolo tale uno spettacolo che per molti secoli sarò ricordato con gratitudine.

La fronte di Petronio si coperse di una nube. Pensava al pericolo che correvano Licia e Vinicio, ch'egli amava, e a tutta quella povera gente della quale non divideva il sentimento religioso, ma della cui innocenza non aveva dubbio. Pensava pure che sarebbe incominciata una di quelle sanguinose orgie cui i suoi occhî, quelli di un esteta, non avrebbero potuto sopportare. Ma sopratutto pensava che «doveva salvare Vinicio, il quale sarebbe impazzito se quella fanciulla fosse perita». E questa considerazione pesava su tutte le altre, perchè Petronio capiva bene che stava per incominciare un giuoco più pericoloso di ogni altro avvenuto durante la sua esistenza.

Prese a parlare liberamente senza precauzioni, come era abituato quando criticava e derideva i progetti di Cesare e degli augustiani che non erano abbastanza esteti.

– Voi avete trovato le vittime! Ciò è vero. Voi potete mandarli all'Arena e vestirli di «tuniche dolorose». Anche questo è vero. Ma statemi a sentire! Voi siete il potere, voi avete pretoriani, voi avete la forza, siate dunque sinceri, almeno quando nessuno ascolta. Ingannate il popolo, ma non ingannatevi l'un l'altro. Abbandonate i cristiani al popolaccio, condannateli a quelle torture che vi piace, ma abbiate il coraggio di dire a voi stessi che non sono stati loro che hanno bruciato Roma. Suvvia, voi mi chiamate l'arbitro dell'eleganza, perciò io vi dico che non posso tollerare miserabili commedie. Proprio davvero! Tutto ciò mi ricorda gli spettacoli teatrali della porta Asinaria, nei quali gli attori assumono la parte degli dèi e dei re, per divertire la plebe del suburbio; e quando la rappresentazione è finita mangiano delle cipolle e le inaffiano con del vino acre! Siate dèi e re per davvero; perchè io dico che potete permettervi tale lusso! Riguardo te, o Cesare, tu ci hai minacciato la sentenza dei secoli venturi; ma pensa che quei secoli giudicheranno te pure. Per la divina Clio! Nerone, dominatore del mondo, Nerone Dio, incendiò Roma perchè, egli era potente in terra come Plutone nell'Olimpo! Nerone, il poeta, amava tanto la poesia, che le sacrificò la patria! Dal principio del mondo nessuno ha fatto una cosa simile, nessuno osò fare tanto. Io ti supplico nel nome delle incoronate Libertridi10, non rinunciare a tale gloria, perchè i tuoi canti si udranno fino alla fine dei secoli! Che cosa sarà Priamo al tuo paragone? Che cosa sarà Agamennone, che cosa sarà Achille? Che cosa saranno gli stessi dèi? Noi non abbiamo bisogno di dire che l'incendio di Roma era buono, ma era gigantesco e senza esempio. Ti assicuro poi che il popolo non leverà una mano contro te. Non è vero che lo voglia. Abbi coraggio, guardati dagli atti indegni di te – perchè è questo solo che ti minaccia nei secoli futuri – che si dica: «Nerone ha incendiato Roma, ma come Cesare timido e come pavido poeta ha negato il grande atto per paura e ne gettò il biasimo sugli innocenti

Le parole dell'arbitro produssero la solita profonda impressione sull'animo di Nerone, ma Petronio non si illuse, perchè ciò che aveva detto non era che un mezzo estremo che in un caso differente avrebbe potuto salvare i cristiani, è vero, ma che, più probabilmente, avrebbe potuto detronizzare stesso. A ogni modo egli non ha esitato, perchè si trattava di Vinicio ch'egli amava, di giocare colla vita che lo divertiva. «I dadi, diceva, sono gettati e noi vedremo fin dove la paura per la pelle della scimia pesa sull'amore per la gloria

Ed egli non aveva dubbî che la paura avrebbe strapesato.

Intanto si era fatto silenzio. Poppea e tutti i presenti guardavano agli occhî di Nerone come ad un arcobaleno. Incominciò ad alzare le labbra fin quasi alle nari, come faceva quando non sapeva che cosa dire; alla fine apparvero sul suo viso il disgusto e l'angoscia.

Signore, esclamò Tigellino vedendo ciò che succedeva in lui, permettimi di andare, perchè quando si vuole esporre la tua persona al pericolo e ti si chiama per di più un Cesare vigliacco, un poeta vigliacco, un incendiario ed un commediante, le mie orecchie non possono più udire.

– Ho perduto! pensò Petronio.

Volgendosi a Tigellino lo misurò con un'occhiata nella quale era il disprezzo che il patrizio di modi squisiti sente per la canaglia.

Tigellino, sei tu che ho chiamato commediante, perchè tu lo sei in questo stesso momento.

– È perchè non voglio ascoltare i tuoi insulti?

– È perchè tu fingi un incommensurabile amore per Cesare, tu che un momento fa lo hai minacciato dei pretoriani, cosa che tutti noi, come lui, abbiamo capito.

Tigellino, che non aveva creduto Petronio abbastanza audace da gettare i dadi come quelli ch'egli aveva gettato sul tavolo, divenne pallido, perdette la testa e rimase senza parola. Questa però fu l'ultima vittoria dell'arbitro sul suo rivale, perchè da quel momento Poppea disse:

Signore, come permetti che tale pensiero possa mai passare per la testa di alcuno, e più di tutto che qualcuno osi esprimerlo ad alta voce alla tua presenza?

Punisci l'insolente, sclamò Vitellio.

Nerone tirò su di nuovo le labbra alle nari, e volgendo i suoi occhî, miopi e vitrei, disse:

– È questa la moneta con cui mi paghi per l'amicizia che avevo per te?

– Se io mi sono ingannato, dimostramelo, disse Petronio; ma sappi che io parlo come l'amore per te mi detta.

Punisci l’insolente! ripetè Vitellio.

Punisci! dissero molte voci.

Nell'atrio vi fu un mormorìo e un movimento.

Gli augustiani incominciarono a scostarsi da Petronio.

Anche Tullio Senecione, il suo costante compagno a Corte, gli volse il dorso; così fece il giovine Nerva, il quale gli aveva mostrato fino all'ultimo momento la più grande amicizia. Un momento dopo Petronio era a sinistra dell'atrio, solo, con un sorriso sulle labbra, e raccolte colle sue mani le pieghe della sua toga, aspettò tranquillamente ciò che Cesare volesse fare o dire.

– Voi volete che io lo punisca, disse l'imperatore; ma egli è un mio amico e un mio compagno. Benchè egli abbia ferito il mio cuore, sappia che per gli amici questo cuore non ha che perdono.

– Ho perduto, sono rovinato! pensò Petronio.

Cesare s'alzò e il Consiglio si sciolse.

 

 





10 Le Libertridi erano le muse di Libertro, un'antica città della Tracia sul versante dell'Olimpo, dove, si dice, dimorasse Orfeo.



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