IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Lasciando Cesare, Petronio si era fatto portare a casa alle Carinæ, la quale essendo circondata ai tre lati da un giardino ed avendo dinanzi il piccolo Foro Ceciliano, venne fortunatamente risparmiata dal fuoco. Per questo gli altri augustiani che avevano perduto i loro palazzi e tutta la ricchezza in essi, chiamavano Petronio fortunato. Da anni si andava dicendo che egli era l'uomo più fortunato della terra, e la crescente amicizia di Cesare pareva confermare l'opinione generale. Ma l'uomo più fortunato della terra poteva ora meditare sui capricci della madre, della Fortuna, o piuttosto sul suo modo di imitare Saturno che divorava i suoi figli.
– Se la mia casa fosse stata arsa dall'incendio, diceva a sè stesso, e con essa le mie gemme, i miei vasi etruschi, i miei bicchieri alessandrini, i miei bronzi corinzi, Nerone poteva davvero perdonarmi l'offesa. Per Polluce! Pensare che dipendeva da me solo di essere prefetto pretoriano in questo momento! Avrei proclamato Tigellino incendiario, ciò che è veramente; lo avrei fatto mettere nella «tunica penosa», lo avrei abbandonato alla furia del popolo, avrei protetto i cristiani e riedificata Roma. E chi sa anche se per la gente onesta non sarebbe incominciata un'èra migliore? Avrei dovuto proprio diventare prefetto, non fosse stato che per riguardo a Vinicio. In caso di soverchio lavoro avrei potuto cedere il comando a lui, e Nerone non avrebbe neanche pensato a resistere. Poi Vinicio poteva battezzare tutti i pretoriani e anche Cesare se voleva; che male mi poteva fare? Nerone pio, Nerone virtuoso! Nerone misericordioso, sarebbe stato uno spettacolo davvero divertente!
E la sua noncuranza era così grande che incominciò a ridere. Ma poco dopo i suoi pensieri si avviarono da un'altra parte. Gli pareva di essere ad Anzio e che Paolo di Tarso stesse dicendogli: «Voi ci chiamate nemici della vita, ma rispondimi, Petronio. Se Cesare fosse cristiano e agisse secondo la nostra religione, la vita non sarebbe più sicura?»
E ricordandosi di queste parole, continuò:
– Per Castore! Non importa quanti cristiani massacreranno qui: Paolo ne farà altrettanti dei nuovi; perchè egli ha ragione, a meno che il mondo possa riposare sulla bassezza. Ma chi sa se non sarà presto così? Io stesso, che ho imparato molte cose, non ho però imparato ad essere quel grande farabutto che avrei dovuto essere; perciò dovrò segarmi le vene. In ogni caso avrebbe dovuto finire così, e se non proprio così, in qualche modo. Sono dolente per Eunice e per la mia coppa mirrena. Ma Eunice è libera e la coppa verrà con me. Ahenobarbus non l'avrà di certo. Me ne dispiace anche per Vinicio. Benchè ultimamente io sia stato meno annoiato di prima, sono pronto. Le cose del mondo sono belle, ma la maggioranza del popolo è così vile che l'abbandono della vita non merita rimpianto. Colui che sa come vivere, deve sapere come morire. Quantunque io appartenga agli augustiani, sono sempre stato più libero di quel che si sia creduto.
Dopo una scrollata di spalle, continuò:
– Gli augustiani possono credere che le mie ginocchia stiano tremando in questo momento, e che il terrore m'abbia fatto rizzare i capelli sulla testa; ma giungendo a casa, voglio prendere un bagno nell'acqua di violetta, e la mia auricrinita mi spalmerà essa stessa il corpo cogli unguenti profumati; poi, dopo esserci rifocillati, ci faremo cantare l'inno ad Apollo, composto da Antemio. Mi sono detto una volta che non valeva la pena di pensare alla morte, perchè la morte pensa a noi senza il nostro aiuto. Sarebbe davvero cosa maravigliosa che vi fossero i Campi Elisi, popolati dalle ombre delle persone. Eunice verrebbe a me a suo tempo e noi ce ne andremmo assieme sui prati cosparsi di asfodeli. Vi troverei senza dubbio una società migliore di questa. Che buffoni, che traditori, che gregge vile senza gusto e senza educazione! Dieci arbitri dell'eleganza non possono trasformare questi Trimalcioni in persone decenti. Per la dea Proserpina ne ho avuto abbastanza!
E notava con sorpresa che lo separava già qualche cosa da quella gente. Li aveva conosciuti bene da principio e sapeva che cosa pensare di loro; pure ora gli sembrava che ne fosse più lontano e che meritassero assai più disprezzo di prima. Davvero ne aveva avuto abbastanza di loro!
In seguito cominciò a pensare a sè stesso. Grazie alla prontezza del suo ingegno, sapeva che la morte non lo minacciava direttamente. Nerone si era valso dell'occasione per pronunciare alcune parole studiate e sonore sull'amicizia e sul perdono, obbligandosi così a indugiare per il momento. «Dovrà cercare dei pretesti e prima di trovarli passerà del tempo. Prima di tutto celebrerà i giuochi coi cristiani, si disse Petronio; solo allora penserà a me, e se ciò sarà vero, non vale la pena di martoriarsi e di cambiare il sistema di vita. Vinicio è minacciato più da vicino.» E perciò si mise a pensare solo a lui, determinato a salvarlo.
Quattro gagliardi bitiniani portavano la sua lettiga attraverso le rovine, i mucchi di cenere e le pietre, ancora ammucchiate per le Carinæ; ma egli aveva ordinato loro di andare via lestamente per essere a casa più presto che si poteva. Vinicio, la cui «insula» era stata divorata dal fuoco, era andato a stare con lui e fortunatamente si trovava in casa.
– Hai veduto Licia, oggi? furono le prime parole di Petronio.
– Ne vengo ora.
– Ascolta quello che ti dico e non perdere tempo in domande. È stato deciso stamane al Consiglio di Cesare di accusare i cristiani dell'incendio di Roma. Sono minacciati di persecuzioni e di torture. Le persecuzioni possono incominciare a ogni momento. Prendimi Licia e fuggi subito al di là delle Alpi o in Africa. Affrettati, perchè il Palatino è più vicino al Trastevere di questo palazzo.
– Un'altra parola. Prenditi una borsa d'oro, prenditi delle armi e un gruppo dei tuoi cristiani. In caso di bisogno, salvala colla forza!
Vinicio era già all'uscita dell'atrio.
– Mandami le notizie da uno schiavo! sclamò Petronio.
Solo, incominciò a passeggiare tra le colonne che adornavano l'atrio, pensando a ciò che era avvenuto. Egli sapeva che Licia e Lino, dopo l'incendio, erano ritornati alla loro casa, rimasta, come la maggior parte del Trastevere, incolume; era questa una circostanza sfavorevole; perchè diversamente sarebbe stato un po' difficile scovarli in mezzo alle moltitudini della strada. Petronio sperava a ogni modo che se le cose erano come stavano, nessuno al Palatino sapeva dove abitavano e perciò Vinicio avrebbe avuto tempo di precedere i pretoriani. Gli veniva pure in mente che Tigellino, volendo agguantare in una volta quanti cristiani gli sarebbe stato possibile, avrebbe gettato la rete su tutta Roma.
– Se essi non vi manderanno più di dieci soldati, si diceva Petronio, il gigante licio romperà loro le ossa. E che cosa avverrebbe se Vinicio vi arrivasse in tempo a soccorrerlo?
Pensando a questo si consolava. È vero, la resistenza armata contro i pretoriani era come intraprendere la guerra contro Cesare. Petronio sapeva pure che se Vinicio si sottraeva alla vendetta di Nerone, quella vendetta poteva piombare su di lui; ma non gli importava. Al contrario godeva al pensiero di ostacolare i progetti di Nerone e di Tigellino e risolse in questo di non risparmiare nè denari, nè uomini. Da che ad Anzio Paolo di Tarso aveva convertito non pochi dei suoi schiavi, egli, difendendo i cristiani, poteva contare sul loro zelo e sulla loro devozione.
L'entrata di Eunice interruppe i suoi pensieri. Alla sua vista tutte le sue perturbazioni e le sue preoccupazioni serie andarono senza lasciare traccia. Dimenticò Cesare, lo sfavore in cui era caduto, l'abiezione degli augustiani, le persecuzioni che minacciavano i cristiani, Vinicio, Licia e si fermò a contemplare lei con gli occhî di un esteta innamorato delle forme stupende e di un amante il cui amore alita da quelle forme. Ella, in una vesta trasparente, color violetto, chiamata Coa vestis, sotto la quale si disegnavano le sue forme giovanili, era veramente bella come una dea. Eunice, vedendosi ammirata ed amandolo con tutta l'anima, ardente più che mai delle sue tenerezze, si fece tutta rossa dalla gioia come se fosse stata una vergine.
– Che cosa vuoi tu dirmi, Carite? domandò Petronio, tendendole ambe le mani.
Ella, inchinata la sua testa d'oro, rispose:
– Antemio è venuto coi suoi coristi e domanda se tu desideri di udirlo.
– Aspetti; ci canterà durante il pranzo l'inno ad Apollo. Per i boschetti di Pafo, quando ti vedo in questo tessuto trasparente, penso che Afrodite si sia velata coll'azzurro del cielo e mi stia dinanzi.
– O signore!
– Vieni, Eunice, cingimi colle tue braccia, e dammi le tue labbra. Mi ami, dimmi?
Poi premette le labbra sulle labbra di Petronio, colle carni delle braccia che trepidavano dal piacere.
Poco dopo Petronio le domandò:
Eunice lo guardò negli occhî spaventata.
– Non temere; domando, perchè non si sa mai, posso essere obbligato a partire per un lungo viaggio.
– Prendimi con te...
Petronio cambiò subito discorso.
– Dimmi, vi sono tra l'erba del giardino degli asfodeli?
– I cipressi e l'erba sono ingialliti dal fuoco, le foglie sono cadute dai mirti e tutto il giardino pare morto.
– Tutta Roma pare morta e presto sarà un vero cimitero. Sai tu che fra non molto verrà emanato un editto contro i cristiani e che durante le persecuzioni ne periranno delle migliaia.
– Perchè punirli, signore? Sono buoni e pacifici.
– Quello è il motivo.
– Andiamo al mare. Ai tuoi occhî splendidi non piace vedere il sangue.
– Sì, ma intanto io devo fare il mio bagno. Vieni nell'eleotesio a ungermi le braccia. Per il cinto di Ciprigna! non mi sei mai sembrata così bella. Voglio dar ordine di farti un bagno colla forma di una conchiglia; tu sarai in essa come una perla preziosa. Vieni, auricrinite!
Se ne andò, e un'ora più tardi tutti e due inghirlandati di rose, cogli occhî leggermente velati, sedevano alla tavola col servizio d'oro.
La mensa era servita dai fanciulli vestiti da amorini e bevevano nelle coppe intrecciate d'edera, mentre l'inno d'Apollo veniva cantato coll'accompagnamento delle arpe, sotto la direzione di Antemio. Che cosa importava loro se i comignoli uscivano dalle rovine delle case e i colpi di vento sperdevano dappertutto le ceneri della Roma consumata? Essi erano felici a pensare solo all'amore, che aveva fatto della loro esistenza un sogno divino. Ma prima che l'inno fosse terminato uno schiavo, il capo dell'atrio, entrò nella sala.
– Signore, diss'egli, in una voce agitata dall'inquietudine, è di fuori, al cancello, un centurione con una squadra di pretoriani, che desidera vederti per ordine di Cesare.
Il canto e i liuti cessarono. Il turbamento era in tutti i presenti; perchè Cesare, per le comunicazioni agli amici, non si serviva di solito dei pretoriani, e il loro arrivo, in un momento come quello, non presagiva nulla di buono. Solo Petronio rimase imperturbabile; annoiato però delle continue visite, disse:
– Potevano bene lasciarmi desinare in pace! Poi, voltosi al capo dell'atrio, aggiunse:
– Entri.
Lo schiavo scomparve dietro le cortine; subito dopo si udirono dei passi pesanti e si vide entrare una conoscenza di Petronio, il centurione Apro, coll'elmetto di ferro sulla testa.
– Nobile signore, diss'egli, ecco una lettera di Cesare.
Petronio stese la sua bianca mano indolentemente, prese la tavoletta e datole uno sguardo la passò, senza scomporsi, a Eunice.
– Leggerà stasera un nuovo canto della sua Troiade e mi invita.
– Io non ho che l'ordine di consegnarti la lettera, disse il centurione.
– Sì, non c'è risposta. Ma tu, centurione, puoi aspettare un minuto con noi e vuotare una coppa di vino.
– Grazie, nobile signore, la beverò con piacere alla tua salute; ma non posso fermarmi, perchè sono di servizio.
– Perchè si è data la lettera a te e non a uno schiavo?
– Non lo so, signore. Forse perchè sono incaricato di un servizio da queste parti.
– Sissignore.
– È un pezzo che sono incominciati gli arresti?
– Alcune squadre vennero inviate al Trastevere prima di mezzogiorno.
Detto questo, il centurione scosse la coppa e sparse alcune gocce di vino in onore di Marte, bevendo il resto.
– Che gli dèi ti concedano, o signore, tutto ciò che desideri.
– Prenditi anche la coppa, disse Petronio.
Poi fece segno ad Antemio di finire l'inno ad Apollo.
– Barbadibronzo sta per incominciare il giuoco con me e Vinicio, pensava lui, mentre ricominciavano le arpe. Indovino il suo pensiero. Egli vuole terrorizzarmi coll'inviarmi un invito col mezzo di un centurione. Stasera gli si domanderà come l'ho ricevuto. No, no! tu non ti divertirai molto, profeta crudele e scellerato! So che tu non dimenticherai l'offesa; so che la mia morte è sicura; ma se tu pensi ch'io ti guarderò negli occhî supplice, che tu vedrai sul mio viso la paura e l'umiliazione, t'inganni.
– Cesare scrive, signore, disse Eunice: «Vieni, se lo desideri»; vi andrai?
– Ho una salute eccellente e io posso udire anche i suoi versi, rispose Petronio; perciò vi andrò, tanto più che Vinicio non vi può andare.
Infatti, dopo il pranzo e la solita passeggiata si fece ravviar la chioma dalle pettinatrici, e accomodare le pieghe della toga dalle schiave, e un'ora più tardi, bello come un dio pagano, diede ordine di portarlo al Palatino.
Era tardi; la sera era calma e tranquilla; la luna era così luminosa che i lampadarî che precedevano la lettiga spensero le torce. La gente per le vie e tra le rovine si spingeva innanzi ubriaca di vino, inghirlandata di edera e di coprifoglio, con in mano rami di mirto e di lauro presi dai giardini di Cesare. L'abbondanza del grano e la speranza di giuochi spettacolosi riempivano di contentezza tutti i cuori. Qua e là si intonavano canti per magnificare la «notte divina» e l'amore; qua e là erano continuamente obbligati a domandare di far largo alla lettiga del nobile Petronio: e allora la folla si dimezzava e sgolava lodi in onore del suo favorito.
Pensava a Vinicio e si maravigliava di non avere avuto notizie da lui. Egli era un epicureo e un egoista, ma col tempo che aveva passato ora con Paolo di Tarso e ora con Vinicio, e coll'avere udito tutti i giorni a parlare dei cristiani, aveva subìto, a sua insaputa, qualche mutamento. Un certo alito che spirava da loro aveva soffiato in lui e gli aveva gettato il nuovo seme nell'anima. Oltre che a sè pensava ora anche ad altri; per di più egli era sempre stato affezionato a Vinicio, perchè nella fanciullezza aveva amato assai la propria sorella, madre di lui; ora che aveva preso parte alle cose sue, guardava a Vinicio e Licia coll'interesse con cui avrebbe guardato a una tragedia.
Petronio non aveva perduto la speranza che Vinicio avesse preceduto i pretoriani e fosse fuggito con Licia; o in caso estremo l'avesse salvata dalle loro unghie. Ma avrebbe preferito esserne certo, perchè prevedeva che avrebbe dovuto rispondere a non poche interrogazioni, per le quali avrebbe preferito essere preparato.
Fermandosi dinanzi la casa di Tiberio, smontò dalla lettiga, e un po' dopo entrò nell'atrio, già pieno di augustiani. Gli amici di ieri, benchè meravigliati ch'egli fosse stato invitato, si ritrassero; ma egli andò innanzi tra loro, bello, disinvolto, indifferente, orgoglioso, come se lui stesso fosse stato il dispensatore delle grazie.
Alcuni, vedendolo così tranquillo, erano agitati per paura di avergli dimostrata l'indifferenza con troppa sollecitudine.
Cesare, comunque, fingeva di non vederlo, e non gli restituì il saluto, pretendendo di essere occupato nella conversazione. Ma gli si avvicinò Tigellino, dicendo:
– Buona sera, arbitro dell'eleganza. Affermi ancora che non sono stati i cristiani che hanno bruciato Roma?
Petronio scrollò le spalle e prendendo Tigellino per il dorso, come avrebbe fatto con un liberto, rispose:
– Tu sai quanto me come stanno le cose.
– Non oso rivaleggiare con la tua sapienza.
– E fai bene, perchè quando Cesare ci legge un nuovo libro sulla Troiade, tu, invece di gracchiare come una cornacchia, saresti obbligato a dire cose che non fossero insipide, e tu non puoi dire che queste.
Tigellino si morse le labbra. Egli non era troppo contento che Cesare fosse determinato a leggere il nuovo libro, perchè la lettura riapriva un campo su cui non poteva rivaleggiare con Petronio. Infatti, durante la lettura, Nerone, per abitudine, volgeva gli occhî involontariamente verso Petronio, spiando attentamente ciò che poteva indovinare dal suo viso. Petronio ascoltava, alzava le ciglia, approvava qualche volta, raddoppiando di attenzione a certi passi, come per essere sicuro che non aveva male inteso. Poi lodava o criticava, proponeva delle correzioni o pregava di addolcire certi versi. Nerone stesso sentiva che gli altri colle lodi smaccate non pensavano che a loro, mentre solo Petronio si occupava della poesia per l'amore della poesia; ch'egli solo lo capiva, e che se egli lodava si poteva essere sicuri che i versi meritavano di essere lodati; perciò, a poco a poco, incominciò a discutere con lui; e quando alla fine Petronio sollevò il dubbio sull'esattezza di una certa frase, disse:
– Tu vedrai nell'ultimo libro, perchè me ne sono servito.
– Oh, pensò Petronio, allora noi aspetteremo fino all'ultimo libro.
Più di un augustiano, udendo le parole dell'imperatore, pensò «Guai a me! Petronio, con del tempo, può ritornare il favorito e rovesciare Tigellino.» E incominciarono di nuovo ad avvicinarsegli. Ma la fine della serata fu meno felice per lui, perchè Cesare, all'ultimo momento, quando egli stava per accommiatarsi, gli domandò improvvisamente, con una strizzatina d'occhî e il viso diffuso di gioia maliziosa:
– Perchè Vinicio non è venuto?
Se Petronio fosse stato sicuro che Vinicio e Licia avessero guadagnato la porta cittadina, avrebbe risposto:
– Col tuo permesso si è ammogliato ed è partito.
Ma vedendo lo strano sorriso di Nerone, rispose:
– Il tuo invito, divino, giunse quand'egli non era a casa.
– Dirai a Vinicio che sarò lieto di vederlo, rispose Nerone; e digli da parte mia di non mancare agli spettacoli a cui prenderanno parte i cristiani.
Queste parole turbarono Petronio. Gli parve che alludessero direttamente a Licia. Rimontato nella sua lettiga, diede ordine di portarlo a casa con maggiore sollecitudine che nella mattina. Cosa che non era facile, perchè davanti alla casa di Tiberio c'era una moltitudine chiassosa, ubriaca come prima, e benchè non cantasse e non danzasse, era molto eccitata. Da lontano venivano certe grida che Petronio non aveva potuto capire subito, ma che divennero sempre più rumorose, finchè udì un urlo selvaggio
Le ricche lettighe dei cortigiani si facevano largo tra la plebaglia che urlava. Dal fondo delle vie bruciate sbucavano continuamente altre moltitudini che ripetevano il grido che avevano udito. La notizia correva di bocca in bocca che gli arresti continuavano dal pomeriggio e che un numero straordinario d'incendiarî era stato arrestato; e subito per le vecchie vie, per le rovine dei viottoli intorno al Palatino, su per i colli e per i giardini e per il lungo e per il largo di Roma, si sentivano le grida dell'ira che ingrossava.
– Gregge! ripeteva Petronio con disprezzo. Un popolo degno di Cesare.
E incominciò a pensare che una società basata sulla superiorità della forza, su crudeltà sconosciute anche ai barbari, su delitti spaventevoli e su una depravazione pazza e furiosa, non poteva durare a lungo. Roma dominava il mondo, ma ne era anche l’ulcera. Già si sentiva l'odore di cadavere. Sulla decadenza della sua vita discendeva l'ombra della morte. Più di una volta era stata detta questa cosa anche tra gli augustiani, ma non mai Petronio ebbe una più chiara idea che il cocchio inghirlandato di lauro nel quale stava Roma sotto forma di un trionfatore e che si trascinava dietro i vinti delle nazioni incatenati, stava per cadere nel precipizio. La vita della città che signoreggiava il mondo gli pareva diventata una danza furiosa, un'orgia che doveva finire. Vide allora che non erano che i cristiani che avevano una nuova base alla vita; ma supponeva che fra poco non sarebbe rimasta traccia dei cristiani. E allora?
La pazza danza continuerebbe sotto Nerone; e se Nerone scomparisse, se ne troverebbe un altro della stessa specie o peggiore. E questo popolo e questi patrizî non avrebbero ragione di trovarsi un miglior rappresentante.
Vi sarebbe una nuova orgia più stomachevole e più abietta.
Ma l'orgia non poteva durare per sempre, perchè bisognava pur dormire, non foss'altro che per effetto di esaurimento.
Pensando a tutto questo, Petronio si sentiva grandemente prostrato. Valeva la pena di vivere e di vivere di incertezze, con nessun altro scopo che quello di assistere allo spettacolo di una società simile? Il genio della morte non era meno bello del genio del sonno, ed esso pure aveva le ali alle spalle.
La lettiga si fermò dinanzi la porta dell'arbitro, la quale venne aperta subito dal portiere che lo aspettava.
– È ritornato il nobile Vinicio? domandò Petronio.
– Sì, signore, un momento fa, rispose lo schiavo.
– Non l'ha salvata, pensò Petronio.
E buttando via la toga, corse all'atrio. Vinicio era seduto, colle mani sulla testa quasi inchinata sulle ginocchia; al rumore dei passi alzò la sua faccia pietrificata, nella quale solo gli occhî avevano la vivezza della febbre.
– Tu sei giunto tardi? domandò Petronio.
– Sì; venne arrestata a mezzogiorno
– L'hai tu veduta?
– Sì.
– Dove?
Petronio ebbe un brivido e fisò Vinicio con uno sguardo scrutatore, Vinicio intese.
– No, diss'egli, non è stata gettata nel Tullianum13, e neppure al centro della prigione. Ho fatto correre del denaro nella mano della guardia, perchè ella avesse una stanza da sola. Ursus è alla sua soglia a farle guardia.
– Perchè Ursus non l'ha difesa?
– Vi mandarono cinquanta pretoriani e Lino glielo proibì.
– E Lino?
– Lino è morente; perciò non lo arrestarono.
– Che cosa intendi di fare?
– Salvarla o morire con lei. Io pure credo in Cristo.
Vinicio parlava con calma apparente; ma v'era tanta disperazione nella sua voce, che il cuore di Petronio tremava.
– Ti capisco, diss'egli, ma come pensi di salvarla?
– Pagai bene le guardie, prima perchè la proteggano dagli oltraggi, poi perchè non le impediscano la fuga.
– Quando può avvenire?
– Mi risposero che non potevano darmela subito, perchè temevano di incorrere in una grande responsabilità. Quando la prigione sarà piena e i prigionieri saranno confusi, me la consegneranno. Ma questo è un passo disperato! Salvala, e salvi me pure! Tu sei amico di Cesare. Egli stesso me l'ha data. Va da lui e salvami!
Petronio, invece di rispondere, chiamò uno schiavo, al quale ordinò di portargli due mantelli neri e due spade. Poi si volse a Vinicio:
– Lungo la via ti dirò poi. Intanto prendi il mantello e l'arma e andiamo al carcere. Là offri alle guardie centomila sesterzi, il doppio, cinque volte tanto, se ti consegneranno Licia sul momento. Altrimenti sarà troppo tardi.
– Ora, ascoltami, disse Petronio. Non ho voluto perdere tempo. Sono caduto in disgrazia, incominciando da oggi. La mia vita è appesa a un capello; perciò posso fare nulla con Cesare. Peggio ancora, son sicuro ch'egli farebbe il contrario di ciò che gli domandassi. Se non fosse così, ti darei io il consiglio di fuggire con Licia o di rapirla? Perchè, dopo tutto, l'ira di Cesare per la tua fuga cadrebbe su me. Oggi esaudirebbe piuttosto alla tua preghiera che alla mia. Non contare dunque sulla mia influenza. Procura di farla uscire dalla prigione e scappa. Non c'è altro da fare. Se questo non riesce, ci sarà tempo da pensare a qualche cos'altro. Intanto sappi che Licia è in prigione non solo per la sua fede in Cristo, ma perchè l'ira di Poppea insegue te e lei. Tu hai offesa l'Augusta respingendola, te ne ricordi? Ella sa che tu l'hai rifiutata per Licia, per la quale ha un odio inestinguibile dal giorno che l’ha veduta. Sì, ella ha cercato di rovinarla coll'attribuirle la morte della infante coll'incantesimo. In tutto questo c'è la mano di Poppea. Come ti spieghi che Licia è stata la prima a essere arrestata? Chi ha potuto dare l'indirizzo di Lino? Ma io ti dico ch'ella la faceva spiare da tempo. So che ti lacero l'anima, ma te lo dico di proposito, perchè se tu non riesci a liberarla prima che venga loro l'idea di un tentativo di fuga, tu e lei sarete perduti.
– Sì, capisco, mormorò Vinicio.
L'ora era tardi e le vie erano deserte.
La loro conversazione comunque venne interrotta da un gladiatore ubriaco che andò verso loro. Cadde su Petronio, mettendogli una mano sulla spalla, inondandogli la faccia del suo alito avvinazzato, gridando con voce roca:
– Mirmillone, rispose Petronio tranquillamente; ascolta il mio consiglio, va per la tua strada.
Coll'altra mano l'ubriaco lo afferrò per il braccio.
– Grida con me: Ai leoni i cristiani! o ti torco il collo.
I nervi dell'arbitro ne ebbero abbastanza di quelle grida.
Dal momento ch'egli aveva lasciato il Palatino non si era fatto che assordarlo e togliergli il fiato, come se fosse stato sotto l'oppressione di un incubo. Così che quando vide il pugno del gigante su lui, la sua pazienza era esaurita.
– Amico, gli disse, tu puzzi di vino come una carogna e non mi lasci passare.
Così dicendo sprofondò fino al manico nel petto dell'uomo la breve spada che si era portato da casa, poi riprese il braccio di Vinicio e continuò come se nulla fosse avvenuto.
– Cesare oggi mi disse: «Dirai a Vinicio di trovarsi agli spettacoli a cui parteciperanno i cristiani.» Capisci che cosa voglia dire? Vogliono che tu dia spettacolo delle tue torture. Questa è una cosa preparata. Forse questa è la ragione per cui io e te non siamo ancora in prigione. Se tu non riesci ad averla subito.... non so.... forse Atte potrebbe prendere la tua parte. Ma a che cosa ti potrebbe servire? Le tue terre in Sicilia pure possono allettare Tigellino. Provati.
– Gli darei tutto ciò che posseggo, rispose Vinicio.
Dalle Carinæ al Foro non c'era molto, perciò vi si trovarono poco dopo. La notte aveva incominciato a impallidire e le mura del castello entravano completamente nella luce.
Subitamente, non appena voltisi verso il carcere Mamertino, Petronio si fermò a dire:
– I pretoriani! Troppo tardi!
Infatti la prigione era circondata da una doppia fila di soldati. L'alba inargentava i loro elmetti e le punte dei loro giavellotti.
Vinicio divenne bianco come un marmo.
Poco dopo si fermarono dinanzi alla linea dei soldati. Dotato di una memoria straordinaria, Petronio conosceva non solo gli ufficiali, ma quasi tutti i soldati pretoriani. Non appena vide una sua conoscenza, il capo di una coorte, lo chiamò con un cenno della testa.
– Che cosa avviene, Nigro? gli domandò; siete di guardia alla prigione?
– Sì, nobile Petronio; il prefetto ha paura che si tenti di liberare gli incendiarî.
– Avete l'ordine di non ammettere alcuno? domandò Vinicio.
– No, o signori; i conoscenti possono visitare i prigionieri, ed in questo modo potremo prendere più cristiani.
– Allora lasciami passare, disse Vinicio.
E prendendo la mano di Petronio, disse
– Procura di veder Atte, verrò a sentire la risposta.
In quel punto, nei sotterranei e al di là delle grosse muraglie, si udiva il canto. L'inno, prima sommesso e soffocato, saliva a mano a mano. Le voci degli uomini e dei fanciulli si confondevano in un coro armonioso.
Tutta la prigione risonava nella calma dell'alba, come un'arpa. Ma non era la voce del dolore e della disperazione; al contrario si sentivano la letizia e il trionfo.
I soldati si guardavano in faccia l'un l'altro con sorpresa.
Sul cielo apparivano i primi chiarori aurosati dell'Alba.