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CAPITOLO LI.
Il grido: «Ai leoni i cristiani!» ingrossava in ogni parte della città. Al primo momento non solo nessuno dubitava che fossero i veri autori della catastrofe, ma nessuno voleva dubitare, perchè il loro castigo doveva essere uno splendido divertimento per il popolaccio. Tuttavia si era pure diffusa la voce che la catastrofe non avrebbe assunto tali proporzioni, se non fosse stato per la collera degli dèi; per questa ragione vennero ordinati i piacula, o sagrifici espiatorî, in tutti i templi. Consultati i libri sibillini, il Senato diede ordine che si facessero pubbliche e solenni preghiere a Vulcano, Cerere e Proserpina. Le matrone offerivano a Giunone. Tutta una processione di esse andò al mare a prendere l'acqua per spruzzare la statua della dea. Le maritate preparavano banchetti agli dèi e vi rimanevano a vigilare di notte. Tutta Roma si purificava dal peccato, faceva delle offerte e placava gli immortali. Intanto, in un luogo o nell'altro, si gettavano le fondamenta per l'erezione di magnifiche case, di palazzi e di templi. Ma prima di tutto costruirono, con una fretta non mai vista, un enorme anfiteatro di legno, nel quale dovevano morire i cristiani. Subito dopo il Consiglio nella casa di Tiberio, si spiccarono ordini a tutti i consoli di mandare a Roma belve feroci. Tigellino vuotò i serragli di tutte le città italiane, non escluse le piccole.
In Africa, per suo ordine, si organizzarono caccie gigantesche, alle quali l'intera popolazione locale era obbligata a prendervi parte. Giungevano elefanti e tigri dall'Asia, coccodrilli e ippopotami dal Nilo, leoni dal nord dell'Africa, lupi e orsi dai Pirenei, cani feroci dall'Ibernia, molossi dall'Epiro, bisonti e gli elefanteschi uri dalla Germania.
Per il numero dei prigionieri lo spettacolo doveva sorpassare in grandezza ogni altro che aveva avuto luogo fino a quel tempo, Cesare voleva annegare tutti i ricordi dell'incendio nel sangue e con esso ubriacare Roma. Perciò non era mai stata promessa una strage così strepitosa.
Il popolo prestava mano spontaneamente alle guardie alla ricerca dei cristiani.
La caccia non era tanto difficile perchè interi gruppi di essi si erano accampati coll'altra popolazione nei giardini e perchè tutti confessavano apertamente la loro religione. Quando venivano circondati dai pretoriani, s'inginocchiavano e cantavano inni, lasciandosi condur via senza resistenza.
La loro pazienza però non faceva altro che irritare e aumentare l'ira del popolaccio, il quale, senza capirne il perchè, considerava la loro rassegnazione per della pertinacia nel delitto.
I persecutori erano impazziti. Strappavano i cristiani dalle guardie e li facevano in pezzi; le donne venivano trascinate al carcere per i capelli; si sbattevano le teste dei fanciulli contro le pietre. Giorno e notte migliaia di persone correvano per le vie urlando come bestie feroci. Si cercavano le vittime tra le rovine, nei camini, nelle cantine.
Dinanzi la prigione si celebrava l'avvenimento con dei baccanali e si danzava sfrenatamente intorno ai fuochi e alle botti di vino. Di sera i ruggiti di gioia salivano e scoppiavano per tutta la città collo strepito del fulmine. Le prigioni rigurgitavano di prigionieri. Ogni giorno la plebaglia e i pretoriani stanavano altre vittime. La pietà era morta. Pareva che le moltitudini non sapessero più parlare e non si ricordassero nei loro trasporti selvaggi che di un grido:
Il calore insopportabile della giornata, diventava soffocante di notte; e l'aria stessa pareva impregnata di sangue, di delitto, di furore.
A quegli atti di una crudeltà senza esempio si rispondeva con un desiderio pure senza esempio di martirio – i seguaci di Cristo andavano alla morte volenterosi o la cercavano fino a quando ne erano impediti dagli ordini dei superiori. Per ordine di questi superiori incominciarono a radunarsi solo fuori dalle mura, nelle cave vicino alla via Appia, nei vigneti dei patrizî cristiani, dei quali nessuno era ancora stato arrestato.
Al Palatino si sapeva benissimo che tra i seguaci di Cristo si contavano Flavio, Domitilla, Pomponia Grecina, Cornelio Pudenzio e Vinicio.
Lo stesso Cesare temeva che la plebe non credesse che i cristiani avessero bruciato Roma, e siccome era importante, sopra ogni cosa, di convincerla, così la punizione di costoro veniva deferita a più tardi. Alcuni credevano a torto che i patrizî dovessero la loro salvezza all'influenza di Atte. Petronio, separatosi da Vinicio, andò, è vero, da Atte a pregarla di aiutare Licia: ma non potè offrirgli che le di lei lacrime, perchè ella viveva nell'oblìo e nella sofferenza, ed era sopportata solo fino a quando si teneva fuori dagli occhî di Poppea e di Cesare.
Ma ella aveva visitata Licia in prigione, l'aveva soccorsa con degli abiti e dei cibi e sopratutto l'aveva salvata dagli oltraggi delle guardie carcerarie, le quali, del resto, erano già state corrotte.
Petronio non poteva dimenticare che se non fosse stato per lui e per il suo progetto di rapire Licia dalla casa di Aulo, probabilmentee in quel tempo non sarebbe in prigione, e, inoltre, volendo vincere il giuoco contro Tigellino, non risparmiava nè tempo nè denaro. In pochi giorni egli aveva veduto Seneca, Domizio, Afro, Crispinilla e Diodoro, per mezzo dei quali tentava di giungere a Poppea; vide Terpno e il bel Pitagora e per ultimo Alituro e Paride, al quali Cesare, di solito, non rifiutava nulla. Coll'aiuto di Crisotemide, in allora l'amante di Vatinio, cercò di guadagnarsi anche costui, senza risparmiare, in questo e negli altri casi, nè promesse, nè danari.
Ma tutti gli sforzi riuscirono inutili. Seneca, incerto del domani, si mise a dimostrargli che se anche i cristiani non avevano bruciato Roma, dovevano essere sterminati per il bene della città – in una parola egli giustificava la prossima strage per ragioni politiche. Terpno e Diodoro presero il denaro e non fecero nulla. Vatinio disse a Cesare che si era cercato di corromperlo. Solo Alituro, il quale, pur essendo prima contrario ai cristiani, se ne commosse, e osò parlare della fanciulla a Cesare per implorarne la grazia. Non ne ottenne che questa risposta:
– Credi tu che io abbia un'anima inferiore a quella di Bruto che non risparmiava i suoi figli per il bene di Roma?
Quando questa risposta venne ripetuta a Petronio, disse:
– Dopo che Nerone si è paragonato a Bruto, non c'è più speranza.
Gliene doleva per Vinicio e aveva una grande paura che il nipote si suicidasse.
– Ora, pensava l'arbitro, egli è sostenuto dagli sforzi che fa per salvarla, per i colloqui con lei, e per i di lei patimenti; ma quando tutti i mezzi saranno riusciti inutili e l'ultimo raggio di speranza sarà spento, per Castore! egli non le sopravviverà di certo, si butterà sulla punta della spada.
Petronio capiva assai più una simile morte che amare e soffrire come Vinicio.
Intanto Vinicio faceva tutto ciò che era imaginabile per salvare Licia. Andava a vedere gli augustiani, e lui un tempo così orgoglioso, implorava il loro aiuto. Per mezzo di Vitellio offerse a Tigellino tutti i suoi possedimenti in Sicilia, e qualunque altra cosa egli avesse potuto domandare; ma Tigellino, non volendo evidentemente provocare l'ira di Augusta, rifiutò. Andare da Cesare, abbracciargli le ginocchia e implorare la sua grazia, avrebbe giovato nulla. Vinicio voleva andarvi davvero, ma Petronio, udito il suo proposito gli domandò
– Se te la rifiutasse, o ti rispondesse con una facezia o con una svergognata minaccia, che cosa faresti?
Le linee facciali del giovine tribuno si contrassero dalla collera e i suoi denti scricchiolarono.
– Sì, disse Petronio, ti consiglio di non farlo perchè ti chiuderesti tutte le vie.
Vinicio si contenne, passando la sua mano sulla fronte coperta di sudore.
– No, no! io sono un cristiano.
– Ma tu lo dimenticherai come lo hai dimenticato un momento fa. Tu puoi perdere te stesso, ma non hai diritto di perdere Licia. Ricordati di ciò che ha subìto la figlia di Sejano prima di morire.
Parlando in questo modo, Petronio non era assolutamente sincero, perchè egli era più interessato per Vinicio che per Licia. Ma sapeva che non c'era altro per trattenerlo dal fare un passo pericoloso. Di più aveva ragione; perchè al Palatino si era contato sulla visita del giovine tribuno e si erano prese le precauzioni.
Ma le torture di Vinicio oltrepassavano le forze umane. Dal momento che Licia era in prigione e che era caduto su lei la gloria del martirio, Vinicio non solo l'amava con più tenerezza, ma nell'intimo dell'animo suo la onorava religiosamente come un essere sovrumano. Ed ora, al pensiero ch'egli doveva perdere l'essere santo ed amato, e che oltre i tormenti della morte potevano infliggerle oltraggi più terribili della morte stessa, il sangue gli si gelava nelle vene. La sua anima si contorceva di dolore e i suoi pensieri si confondevano. A momenti gli pareva che il suo cranio fosse pieno di fuoco e che stesse per ardere o per scoppiare. Egli cessava di capire che cosa avveniva; cessava di capire perchè Cristo, misericordioso, divino, non veniva in aiuto dei suoi seguaci; perchè le tetre mura del Palatino, non sprofondavano nelle viscere della terra e con esse Nerone, gli augustiani, i pretoriani e tutta la città del delitto. Pensava che non poteva e non avrebbe dovuto essere altrimenti, e che tutto ciò che vedevano i suoi occhî e che gli rompeva il cuore non fosse che un sogno. Ma i ruggiti delle belve feroci lo informavano che era una realtà; il rumore delle ascie che lavoravano all'arena gli dicevano che era una realtà; gli urli del popolo e l'affollamento delle prigioni glielo confermavano. Allora la sua fede in Cristo non fu più sicura; e il dubbio fu per lui una nuova tortura, forse la più spaventevole di tutte.
Intanto Petronio gli ridiceva:
– Ricordati di ciò che ha subìto la figlia di Sejano prima di morire.