Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO LIII.

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CAPITOLO LIII.

 

Vinicio, lasciato l'Apostolo, andò al carcere col cuore rinato alla speranza. In qualche parte, in fondo alla sua anima, si facevano ancora sentire la disperazione e il terrore; ma fece tacere e l'uno e l'altra. Gli pareva impossibile che l'intercessione del vicario di Cristo e il fervore della sua preghiera rimanessero senza successo. Aveva paura di sperare; aveva paura di dubitare. «Voglio credere, si diceva, alla Sua misericordia anche se la vedessi nelle fauci del leone.» E a questo pensiero, anche coll'anima che gli tremava e colle tempia bagnate di sudore freddo, credeva. Ogni sussulto del suo cuore era una preghiera. Incominciava a capire che la fede poteva muovere le montagne, perchè si sentiva in una forza straordinaria che non aveva sentito prima.

Gli pareva che potesse fare cose ch'egli non aveva la forza di fare il giorno prima. In certi momenti aveva un'impressione che il pericolo fosse passato. Se la disperazione si faceva sentire ancora nella sua anima, egli si rammentava di quella notte e di quella faccia santa di vecchio, rivolta al cielo, nella preghiera. «No, Cristo non negherà la grazia al suo primo discepolo ed al pastore del suo gregge. Cristo non gliela negherà! Non ne voglio dubitare!» E corse alla carcere come un araldo di buone nuove.

Ma lo aspettava una cosa inattesa.

Tutti i pretoriani che si succedevano per turno al carcere Mamertino, lo conoscevano e tutti lo lasciavano passare senza difficoltà alcuna; questa volta però la linea di soldati rimase intatta e il centurione gli si avvicinò a dirgli:

Perdonami, nobile signore, oggi abbiamo ordine di non ammettere alcuno.

Ordine? ripetè Vinicio facendosi pallido.

Il soldato lo guardò con compassione e rispose:

– Sì, signore, ordine di Cesare. Nella prigione vi sono tanti ammalati e forse si teme che i visitatori diffondano l'infezione per la città.

– Hai tu detto che l'ordine è solo per oggi?

– Le guardie cambiano a mezzogiorno.

Vinicio rimase silenzioso e si scoperse la testa perchè gli sembrava che il pileolus15 che portava fosse di piombo,

Intanto il soldato gli si avvicinò e gli disse sottovoce:

– Sta tranquillo, signore, la guardia e Ursus vegliano su lei.

Detto questo, s'inchinò e in un batter di ciglia disegnò colla sua lunga spada gallica sulla pietra la forma di un pesce. Vinicio gli gettò un'occhiata.

– E tu sei pretoriano?

Fin che sarò dentro, rispose il soldato, accennando alla prigione.

– Io pure adoro Cristo.

– Che il suo nome sia lodato! So, signore, che non posso ammetterti alla prigione, ma scrivi e darò la lettera al carceriere.

Grazie, fratello.

Gli strinse la mano e andò via. Il pileolus cessò di pesare come il piombo. Il sole apparve sulle muraglie della carcere e col suo splendore incominciò di nuovo a entrare la consolazione nel suo cuore. Il soldato cristiano era per lui una nuova prova della potenza di Cristo. Poco dopo si fermò e dando un'occhiata alle rosee nubi al disopra del Campidoglio e del tempio di Giove Statore, disse:

Oggi non l'ho veduta, Signore, ma io credo nella Tua misericordia.

A casa trovò Petronio, il quale facendo come al solito, della notte il giorno, era rientrato da poco. Egli aveva già preso il suo bagno, si era già unto e stava per andarsene a letto.

– Ho delle notizie per te, diss’egli. Oggi fui con Tullio Senecione e c'era anche Cesare. Non so perchè sia venuto in mente ad Augusta di condursi con il piccolo Rufio; forse per addolcire il cuore di Cesare colla sua bellezza. Sfortanatamente il fanciullo, pieno di sonno, si addormentò durante la lettura, come avvenne a Vespasiano una volta; vedendo questo, Barbadibronzo lanciò una coppa al figliastro, ferendolo gravemente. Poppea svenne. Tutti udirono quando Cesare disse: «Ne ho abbastanza di questa genìa!» il che, tu lo sai, vuol dire morte!

– La punizione di Dio era sospesa su Augusta, rispose Vinicio! ma perchè mi dici tu questo?

– Te lo dico perchè l'ira di Poppea perseguita te e Licia; occupata ora della sua disgrazia può rinunziare alla sua vendetta e può essere più facile a lasciarsi influenzare. La vedrò stasera e le parlerò.

Grazie, tu mi dai buone nuove.

Prenditi il tuo bagno e va a riposare. Le tue labbra sono paonazze e non vi è più di te che l'ombra.

– Non era annunciato il primo ludo mattutino? domandò Vinicio.

– Fra dieci giorni. Ma incominceranno prima colle altre prigioni. Per noi è meglio che ci rimanga del tempo. Tutto non è ancora perduto.

Ma egli non credeva a ciò, perchè sapeva perfettamente che alla prima preghiera di Alituro, Cesare aveva trovato la splendida e risonante risposta in cui egli si paragonava a Bruto; non c'era salvezza per Licia. Nascose pure, per pietà, ciò che aveva udito alla casa di Senecione, che Cesare e Tigellino avevano deciso di scegliere per loro e per i loro amici le più belle fanciulle cristiane per violarle prima della tortura; le altre sarebbero state abbandonate, per il giorno degli spettacoli, ai pretoriani e ai bestiarî.

Sapendo che Vinicio in nessun caso vorrebbe sopravvivere a Licia, cercava di proposito di rafforzargli la speranza, prima per il bene che gli voleva, poi perchè desiderava che se Vinicio avesse dovuto morire, morisse bello, non con una faccia deformata e nera dall'agonia e dalle veglie.

Oggi dirò, parola più parola meno, questo a Augusta: «Salva Licia per Vinicio e io salverò Rufio per te.» E penserò a questo seriamente. Una parola detta a Barbadibronzo in un momento opportuno, può salvare o perdere chiunque. Nella peggiore ipotesi guadagneremo tempo.

– Ti ringrazio, ripetè Vinicio.

– Tu mi ringrazierai meglio se tu mangi e dormi. Per Atene! In questa odissea, nei momenti di grande tensione, non dimenticherò mai di mangiare e dormire. Tu hai spesa tutta la notte al carcere, naturalmente.

– No, rispose Vinicio; volevo entrarvi oggi, ma vi è ordine di non ammettere alcuno. Procura di sapere, o Petronio, se l'ordine è solo per oggi, o fino al giorno degli spettacoli.

Procurerò di saperlo stasera, e domani ti saprò dire fino a qual giorno e perchè fu dato un tal ordine. Ma ora, anche se Elio dovesse andare alle regioni cimmerie pel dolore, io andrò a dormire e tu segui il mio esempio.

Si separarono; ma Vinicio andò nella biblioteca e scrisse una lettera a Licia. Finita che l'ebbe andò a portarla al centurione cristiano, il quale la recò subito nella prigione. Poco dopo ritornò coi saluti di Licia e colla promessa della risposta per quel giorno.

Vinicio invece di ritornare a casa preferì sedere su una pietra e aspettare la lettera di Licia. Il sole era già alto e le moltitudini, come di solito, andavano per il Clivus Argentarius al Foro. I rivenditori offrivano la loro merce, gli indovini chiamavano i passanti, e i cittadini, con passo risoluto, filavano verso i rostri a udire gli oratori del giorno o a scambiarsi le ultime nuove tra l'uno e l'altro. A mano a mano che il caldo si faceva sentire, la folla dei fannulloni si riparava sotto i portici dei templi, disotto ai quali svolazzavano, con grande sbattimento d'ali, stormi di colombe, le cui bianche penne scintillavano nel sole e nell'azzurro del cielo.

Per l'eccesso della luce, sotto l'influenza del movimento di tutta quella gente e per il caldo eccessivo e per la grande stanchezza, gli occhî di Vinicio incominciavano a chiudersi. Le monotone grida dei ragazzi che giuocavano alla mora e il passo misurato dei pretoriani lo assopivano. Tuttavia levava la testa centinaia di volte, dava un'occhiata alla prigione, poi s'inchinava di nuovo verso la pietra, sospirando come un fanciullo assonnato dopo un grande pianto, e cadeva addormentato.

I sogni gli popolarono subito la testa. Gli pareva di portare Licia tra le braccia, nel buio della notte, attraverso uno strano vigneto. Lo precedeva Pomponia Grecina che gli illuminava la via colla lampada. Una voce, come se fosse stata quella di Petronio, gli gridava da lontano: «Torna indietro!» Ma lui, senza badare, seguì Pomponia fino alla capanna; all'entrata di essa era Pietro. Gli mostrò Licia, dicendo: «Veniamo dall'arena, signore, ma non possiamo svegliarla; svegliala tu.» «Cristo stesso verrà a svegliarla» rispose l'Apostolo.

Poi la scena incominciò a cambiare. Attraverso il sogno egli vedeva Nerone e Poppea che teneva sulle braccia il piccolo Rufio colla testa insanguinata, e Petronio che gli lavava la ferita; e vide Tigellino che spargeva cenere sulle tavolate coperte di vivande squisite, e Vitellio che le divorava, mentre una moltitudine di augustiani sedeva al banchetto. Lui stesso giaceva accanto a Licia; ma tra i tavoli passeggiavano i leoni dalle gialle criniere gocciolanti di sangue. Livia lo supplicava di portarla via, ma lui era preso da tale debolezza che non poteva neppure muoversi. Indi le sue visioni si confusero fino a quando divenne completamente buio.

Finalmente il caldo del sole cocente e le grida della piazza ove era seduto lo destarono dal profondo sonno. Vinicio si fregò gli occhî. La via era calcata di gente; ma due corridori, nelle tuniche gialle, spingevano le moltitudini da parte coi lunghi bastoni, gridando di far largo a una splendida lettiga, portata da quattro gagliardi schiavi egiziani.

Nella lettiga sedeva un uomo vestito di bianco, la cui faccia non si vedeva bene, perchè teneva vicino agli occhî un rotolo di papiri e aveva la testa inchinata.

Fate largo al nobile augustiano! gridavano gli staffieri.

Ma la via era così affollata che la lettiga dovette sostare un momento. L'augustiano depose il rotolo di papiri e sporse la testa gridando:

Spingete da parte quei miserabili! Fate presto!

Vedendo Vinicio, ritrasse subito il capo e si nascose dietro i papiri.

Vinicio si passò la mano alla fronte pensando ch'egli stava ancora sognando.

Nella lettiga sedeva Chilone.

Intanto i corridori avevano fatto largo e gli egiziani erano pronti a riprendere la lettiga, quando il giovine tribuno, il quale in un lampo aveva capito molte cose che fino allora gli erano parse incomprensibili, si avvicinò alla lettiga.

Salute a te, o Chilone, diss'egli.

Giovine, rispose il greco con orgoglio e importanza, sforzandosi a dare alla sua faccia un'espressione di calma che non era in lui, i miei complimenti, ma non trattenermi, perchè ho fretta di andare dal mio nobile amico Tigellino.

Vinicio afferrò la sponda della lettiga e guardandolo fisso negli occhî, gli disse sottovoce:

– Hai tu tradito Licia?

Colosso di Memnone!16 gridò Chilone spaventato.

Ma non vi ora minaccia negli occhî di Vinicio; perciò la paura del vecchio greco non durò molto. Si ricordava ch'egli era sotto la protezione di Tigellino e dello stesso Cesare, vale a dire protetto da una potenza dinanzi la quale ognuno tremava, e da vigorosi schiavi che lo circondavano, e che Vinicio gli stava dinanzi disarmato, con un viso emaciato e un corpo che piegava dai patimenti.

Con questa idea ritornò subito insolente. Guardò Vinicio cogli occhî dalle palpebre rosse e gli rispose bisbigliando:

– Ma tu, quando io ero morente di fame, mi hai fatto staffilare.

Per un minuto rimasero entrambi silenziosi; indi si udì la cupa voce di Vinicio:

– Sono stato ingiusto, Chilone.

Il greco alzò la testa, facendo schioccare le dita, un atto che in Roma traduceva una parola di disprezzo, e disse ad alta voce, perchè tutti lo sentissero:

Amico, se hai da presentarmi una supplica, vieni a casa mia, all'Esquilino, in un'ora del mattino, dove ricevo gli ospiti e i clienti dopo il bagno.

E agitò, la mano; a quel segno gli egiziani ripresero la lettiga, e gli schiavi nella tunica gialla ricominciarono a gridare, brandendo i loro bastoni:

Fate largo alla lettiga del nobile Chilone Chilonide! Fate largo, fate largo!

 

 





15 Berretto.



16 Il Memnone era il bel figlio di Titone e dell'Aurora, e re degli Etiopi. Andò in aiuto a Priamo, verso la fine della guerra troiana. Indossava l'armatura fatta da Vulcano, per ordine di sua madre. Uccise Antiloco, figlio di Nestore, ma cadde lui stesso, dopo un lungo combattimento, sotto i colpi spietati di Achille. Per addolcire il dolore della madre, Giove conferì l'immortalità a Memnone. Tebe gli inalzò un gran tempio, dietro il quale era una statua gigantesca chiamata dal suo nome.



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