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Licia, in una lunga lettera scritta in grande fretta, gli dava l'addio per sempre. Sapeva che a nessuno era permesso di entrare in prigione e che essa non poteva vedere Vinicio che dall'arena. Lo supplicava d'informarsi quando sarebbe venuta la volta dei prigionieri del Mamertino e di non mancare agli spettacoli, poichè ella voleva vederlo una volta ancora. Nessuna paura traspariva dalla lettera. Scriveva ch'ella e gli altri sospiravano l'arena, dove sarebbero stati liberati dalla prigione. Sperava di vedervi Pomponia ed Aulo e li scongiurava essi pure ad essere presenti. Da ogni sua parola trapelava l'estasi e l'oblìo della vita terrena nel quale vivevano tutti i prigionieri, ed al tempo stesso una fede incrollabile che tutte le promesse sarebbero state adempiute di là della tomba.
– Che Cristo, scriveva, mi liberi in questa o in quell'altra vita non importa; egli mi ha promesso a te per bocca dell'Apostolo; perciò io sono tua.
Lo pregava caldamente di non addolorarsi per lei e di non abbandonarsi alla disperazione, perchè la sua morte non era lo scioglimento del matrimonio. Colla ingenuità di una bimba assicurava Vinicio che non appena terminati i suoi patimenti nell'arena, avrebbe detto a Cristo che il suo fidanzato Marco era rimasto in Roma e che desiderava ardentemente di raggiungerla. Ed ella pensava che Cristo avrebbe permesso all'anima sua di volare a lui per dirgli ch'essa era viva, che non si ricordava dei tormenti e che era felice. Da tutta la lettera alitava un gaudio e una speranza infiniti. Vi era sola una domanda che si occupava delle cose terrene ed era per pregare Vinicio di prendere il suo corpo dallo spoliarium e seppellirlo come quello di sua moglie, nella tomba dove un giorno sarebbe andato lui pure a riposare.
Lesse la lettera collo spirito straziato, ma al tempo stesso gli pareva impossibile che Licia potesse perire tra gli artigli delle belve feroci, e che Cristo non s'impietosisse di lei. In nessun'altra cosa era la sua speranza.
Ritornato a casa scrisse ch'egli sarebbe andato ogni giorno sotto le mura del Tullianum ad aspettare che Cristo le abbattesse e la liberasse. Le ingiungeva di credere che Cristo poteva dargliela anche nel Circo, che il grande Apostolo stava supplicandolo di restituirgliela e che l'ora della liberazione non era lontana. Il centurione convertito doveva portarle questa lettera domani.
Ma quando Vinicio giunse all'indomani alla prigione, il centurione uscì dalle file, gli si avvicinò e gli disse:
– Ascoltami, signore. Cristo che ti ha illuminato, ti ha dato una prova della sua misericordia. Il liberto di Cesare e quelli del prefetto sono venuti ieri sera per scegliere le fanciulle cristiane da delibarsi; essi domandarono della tua fidanzata, ma il nostro Signore la colpì dalla febbre per la quale i prigionieri muoiono nel Tullianum, e la lasciarono. Ieri sera ella era fuor dei sensi, e sia benedetto il nome del Redentore, perchè la malattia che l'ha salvata dal disonore può salvarla dalla morte.
Vinicio pose la mano sulla spalla del soldato per non cadere; ma l'altro continuò:
– Grazie alla misericordia del Signore! Presero e torturarono Lino, ma avendo veduto ch'egli era moribondo, lo rilasciarono. Possono ora rilasciarti la fanciulla; Cristo le restituirebbe la salute.
Il giovine tribuno stette per qualche tempo colla testa china, poi la rialzò e disse con un fil di voce:
– Hai ragione, Cristo che l'ha salvata dalla vergogna, la salverà dalla morte.
E sedette sotto le mura della prigione fino a sera; ritornato a casa mandò la sua gente a prendere Lino e a portarlo in una delle sue ville suburbane.
Petronio, udito tutto, risolse di agire. Egli era stato da Augusta; ora ci tornava. La trovò al letto del piccolo Rufio. Il fanciullo colla testa rotta delirava. La madre, angosciata e terrorizzata, cercava di salvarlo, pur pensando che se l'avesse salvato avrebbe potuto perire più tardi di una morte più spaventevole.
Occupata dal suo dolore materno non voleva neanche sentire parlare di Vinicio e di Licia; ma Petronio le fece una paura orribile.
– Tu hai offeso, le disse, una divinità nuova e sconosciuta. Tu, Augusta, sei, pare, un'adoratrice dell'ebreo Jehova; ma i cristiani sostengono che Cristo è suo figlio. Rifletti dunque se la collera del padre non ti perseguiti. Chi sa che la vita di Rufio non dipenda da questo, dalla tua condotta?
– Che cosa vuoi tu che io faccia? domandò Poppea terrorizzata.
– Come?
– Licia è ammalata; influenza Cesare o Tigellino a darla a Vinicio.
– Credi tu che io possa farlo? gli domandò disperata.
– Tu puoi fare qualche cos'altro. Se Licia guarisce, deve morire. Va al tempio di Vesta e prega la virgo magna di trovarsi vicino al Tullianum al momento del passaggio dei prigionieri inviati alla morte e dà ordine di liberare la fanciulla. La grande vestale non ti disubbidirà.
– Ma se Licia muore di febbre?
– I cristiani dicono che Cristo è vendicatore, ma giusto; può darsi che il tuo semplice desiderio Lo addolcisca.
– Ch'egli mi dia un segno che guarirà Rufio.
– Non sono venuto come il suo inviato; O divina, ti dico semplicemente: vivi in pace con tutti gli dèi romani e stranieri.
– Andrò, disse Poppea colla voce rotta.
Petronio trasse un profondo respiro.
Alla fine ho fatto qualche cosa, pensava lui. E ritornato Vinicio, gli disse:
– Prega il tuo Dio che Licia non muoia dalla febbre, perchè se rimarrà in vita, la grande vestale darà ordine di liberarla. La stessa Augusta ordinerà di farlo.
– Cristo la libererà, disse Vinicio guardandolo cogli occhî febbrili.
Poppea, che per la guarigione di Rufio era preparata a fare sacrifici a tutti gli dèi del mondo, andò in quella stessa sera, attraverso il Foro, alle vestali, lasciando Rufio alla cura della sua fedele nutrice Silvia, dalla quale era stata allevata ella stessa.
Ma al Palatino la morte del fanciullo era già decretata; perchè la lettiga di Poppea non era ancora scomparsa dietro la grande porta, che due liberti entrarono nella stanza del fanciullo; uno di essi si gettò sulla vecchia Silvia a imbavagliarla; l'altro, afferrata una sfinge di bronzo, con un sol colpo freddò la donna.
Poi si avvicinarono a Rufio. Il fanciullo, tormentato dalla febbre e fuor dei sensi, senza sapere che cosa avveniva intorno a lui, sorrise loro, battendo le palpebre dei suoi begli occhî, come se stessa cercando di riconoscerli. Strappata la cintura alla nutrice, la misero al collo del ragazzo e strinsero. Il fanciullo chiamò una volta la madre e morì senz'altro grido. Poi lo ravvolsero in un lenzuolo, saltarono sui cavalli che aspettavano, e a pancia a terra giunsero a Ostriano, ove gettarono il cadavere in mare.
Poppea, non avendo trovata la virgo magna, la quale, con altre vestali, era alla casa di Vatinio, ritornò subito al Palatino. Vedendo il letto vuoto e il corpo assiderato di Silvia, svenne, e, rinsensata, si mise a gridare; le sue grida disperate si fecero sentire tutta la notte e tutto il giorno dopo.
Cesare il terzo giorno le ordinò di andare al banchetto; così, abbigliatasi della tunica color ametista, ella vi andò e sedette colla faccia marmorea e coi capelli dorati, stranamente muta, come un sinistro presagio, come l'angelo della morte.