Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO LV.

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CAPITOLO LV.

 

Prima che i Flavi avessero inalzato il Colosseo, la maggior parte degli anfiteatri in Roma erano principalmente costruiti di legno; per questa ragione furono inceneriti quasi tutti durante l'incendio. Ma Nerone, per la celebrazione dei promessi giuochi, aveva dato ordine di costruirne parecchî, incluso uno gigantesco, per il quale incominciarono subito dopo che il fuoco era stato estinto a trasportare per il mare e per il Tevere grandi tronchi d'alberi tagliati sui declivi dei monti dell'Atlas, perchè lo splendore degli spettacoli doveva sorpassare quello di tutti i precedenti.

Grandi spazî dovevano essere riservati al popolo e agli animali. Migliaia di artigiani lavoravano alla sua costruzione giorno e notte. Edificavano e decoravano senza riposo. Si dicevano meraviglie dei pilastri intarsiati di bronzo, di ambra, di avorio, di madreperla, di scaglie di tartaruga. Dei canali pieni di acqua ghiacciata delle montagne in giro per i posti, dovevano mantenere nell'edificio una frescura deliziosa anche nelle ore afose. Un immenso velarium di porpora doveva proteggere dai raggi del sole. Tra le file dei posti erano disposti i bracieri per i profumi arabici. Dall'alto di essi eranvi appositi apparecchî dai quali doveva discendere sugli spettatori una pioggia fine di zafferano e di verbena. I rinomati costruttori, Cellere e Severo, vi avevano messo tutto il loro ingegno per edificare un anfiteatro senza precedenti, dalle dimensioni non mai state uguagliate.

Perciò il giorno in cui doveva incominciare il ludus matutinus, un'enorme folla della plebe era alla porta che aspettava l'apertura dall'aurora e ascoltava con piacere i ruggiti dei leoni, i cupi muggiti delle pantere e i latrati dei cani. Da due giorni non si dava più da mangiare alle belve feroci, ma si mettevano sotto i loro occhî dei pezzi di carne sanguinolenta allo scopo di inasprire la loro ferocia e la loro fame. In certi momenti si elevava tale un coro di grida selvagge che la gente di fuori, intorno al Circo, non riusciva più a capirsi e i più impressionabili divenivano bianchi dalla paura.

Colla levata del sole si intonavano nell'interno del Circo gli inni che risonavano di dolcezza. La plebe li udiva con sorpresa e da una bocca all'altra si diceva: «I cristiani! i !» Infatti turbe di cristiani erano stati condotti all'anfiteatro quella notte, e non da un luogo solo, come era stato progettato prima, ma un po' da tutte le prigioni. La folla sapeva che gli spettacoli avrebbero continuato settimane e mesi, ma si dubitava che si potessero finire in un sol giorno i cristiani destinati per quella occasione. Le voci degli uomini, delle donne e dei fanciulli che cantavano l'inno mattutino erano così numerose, che i pratici di questi spettacoli affermavano che se anche si fossero mandate fuori cento o duecento persone per volta, le belve, sazie, non sarebbero riuscite a sbranarle tutte prima di sera. Altri prevedevano che questa carneficina di un numero stragrande nell'arena avrebbe sviata l'attenzione e non avrebbe dato modo di godere lo spettacolo come si doveva.

A mano a mano che si avvicinava l'apertura dei vomitorî, o passaggi che conducevano all'interno, il popolo si animava e diveniva allegro, discutendo sui varî particolari dello spettacolo. I leoni erano più feroci che le tigri o le tigri che i leoni? C'era chi scommetteva per i primi e chi per i secondi. Poi si parlava dei gladiatori, i quali dovevano precedere i cristiani nell'arena; e di nuovo v'erano quelli che tenevano in favore o dei Sanniti, o dei Galli, o dei Mirmilloni, o dei Traci o dei retiarî.

I gladiatori arrivavano all'anfiteatro a gruppi, di buon mattino, preceduti dai loro maestri, chiamati lanisti. Non volendo affaticarsi prima del tempo, entravano disarmati, spesso completamente nudi, sovente con in mano dei rami verdi, o incoronati di fiori. Erano giovani, belli, nella luce dell'aurora, pieni di vita. I loro corpi scintillanti d'olio d'olivo, forti come se fossero stati scolpiti nel marmo, suscitavano l'ammirazione del popolo, sempre amante delle belle forme. Tanti erano conosciuti personalmente, e spesso si udivano i loro nomi: «Salute, Furnio! Salute, Leo! Salute Massimo! Salute Diomede!» Le giovanette li seguivano avidamente cogli sguardi, mentre i gladiatori studiavano quali erano le più belle e rispondevano con arguzie, come se nessuna preoccupazione fosse in loro, e gettavan loro baci, dicendo: «Abbracciami prima che mi abbracci la morte!» Poi scomparivano dietro le porte, dalle quali non dovevano ripassare più mai.

L'attenzione della folla passava di meraviglia in meraviglia. Dopo i gladiatori venivano i mastigofori, vale a dire gli uomini armati di staffile, il cui còmpito era di staffilare e spingere innanzi i combattenti. Tenevano loro dietro una quantità di veicoli carichi di mucchî di casse da morto, tirati da muli in direzione dello spoliarium. E alla vista di tante casse la plebe gongolava dalla gioia, pensando alla grandiosità dello spettacolo. Ora entravano gli uomini che dovevano uccidere i feriti, vestiti da Caronte o da Mercurio. Per ultimo venivano gli incaricati dell'ordine e di assegnare i posti nel Circo, gli schiavi che dovevano portare intorno i cibi e i rinfreschi, e i pretoriani che ogni Cesare teneva sempre ai fianchi durante gli spettacoli dell'anfiteatro.

Finalmente i vomitorî vennero aperti e la folla si precipitò al centro. Ma il numero di quelli che aspettavano era tale che la folla continuò a entrare per delle ore, maravigliando che il Circo potesse contenere una moltitudine enorme come quella. I ruggiti delle belve che aspiravano le esalazioni del popolo si facevano sempre più terribili. Mentre si prendevano i posti, gli spettatori rumoreggiavano come un mare in tempesta.

Il prefetto della città, circondato di guardie, non tardò a comparire; e dopo lui veniva una fila ininterrotta di lettighe di senatori, di consoli, di pretoriani, di edili, di funzionarî pubblici, di patrizî e di signore eleganti. Alcune lettighe erano precedute dai littori colle mazze, coi fascî di verghe; altre da frotte di schiavi.

Nel sole brillavano le lettighe dorate, le bianche e multicolori stoffe, le piume, gli orecchini, i gioielli e l'acciaio delle mazze. Dal circo s'elevavano le acclamazioni colle quali il popolo salutava i grandi dignitarî. Drappelli di pretoriani giungevano di volta in volta.

I cappellani dei diversi templi giungevano un po' più tardi; dopo entrarono le sacre vergini di Vesta, precedute dai littori.

Per incominciare lo spettacolo non si aspettava che Cesare. L'imperatore, volendo ingraziarsi il popolo colla sua esattezza, arrivò poco dopo, accompagnato dall'Augusta e dagli augustiani.

Tra le lettighe degli augustiani era quella di Petronio, nella quale si trovava anche Vinicio.

Il nipote sapeva che Licia era ammalata e fuor dei sensi; ma siccome l’accesso negli ultimi giorni era stato assolutamente proibito e siccome i primi pretoriani erano stati sostituiti dagli altri con ordini severi di non parlare con carcerieri o di comunicare con coloro che andavano a domandare dei prigionieri, così egli non era punto sicuro ch'ella non fosse tra le vittime del primo giorno degli spettacoli. Potevano dar in pascolo ai leoni anche una donna ammalata o delirante! Le vittime erano cucite nelle pelli delle bestie feroci e inviate all'arena a frotte, cosicchè gli spettatori non potevano riconoscerne alcuna. Tutti i carcerieri e tutto il personale dell'anfiteatro erano stati corrotti, e un'intesa era stata fatta coi bestiarî di nascondere Licia in qualche tetro angolo per affidarla poi nella notte all'incaricato di Vinicio di condurla subito ai monti Albani. Petronio, che sapeva tutto, consigliò Vinicio di andare con lui apertamente all'anfiteatro, e, subito dopo essere entrato, di scomparire tra la folla e andare sollecitamente ai sotterranei a mostrare alle guardie Licia, ed evitare così la possibilità di un errore.

Le guardie lo ammisero per una piccola porta dalla quale passavano essi stessi. Una di esse, certo Ciro, lo condusse immediatamente tra i cristiani. Andando disse:

– Non so, signore, se tu troverai ciò che cerchi. Noi domandammo di una fanciulla chiamata Licia, ma nessuno rispose; può darsi che non si sia risposto per paura di noi.

– Ve ne sono molti? domandò Vinicio.

– Tanti, signore; molti dovranno aspettare fino a domani:

– Vi sono degli ammalati tra loro?

– Nessuno che non possa stare in piedi.

Ciro aperse, ed entrarono in uno stanzone immenso, basso e scuro che riceveva la luce solo dai cancelli che lo separavano dall'arena. Vinicio, non appena tra loro, non vedeva nulla; sentiva solo il murmure delle voci nello stanzone, e il chiasso della gente nell'anfiteatro. Poco dopo, quando i suoi occhî si furono abituati al buio, vide strane forme di esseri che parevano orsi e lupi. Erano i cristiani cuciti nelle pelli delle bestie. Gli uni erano in piedi, gli altri in ginocchio a pregare. Qua e si poteva indovinare dai lunghi capelli uscenti dalla pelle che la vittima era una donna. Donne che parevano lupi tenevano nelle braccia i loro bimbi cuciti anch'essi nei sacchi pelosi. Disotto alle pelli brillavano nel buio visi chiari e occhî fiammeggianti e febbrili. Si vedeva che la maggioranza di tutta quella gente votata alla morte, era dominata da un pensiero unico e soprannaturale – un pensiero che li rendeva indifferenti a tutto ciò che avveniva intorno a loro o che poteva capitar loro. Alcuni, interrogati da Vinicio se c'era Licia, lo guardavano come se uscissero dal sonno e non rispondevano alle sue domande; altri gli sorridevano, mettendosi un dito sulle labbra o additandogli i cancelli di ferro dai quali entravano fili di luce. Da una parte e dall'altra i bimbi piangevano spaventati dai ruggiti delle belve e dai latrati dei cani, dal frastuono del popolo e dal vedere i loro genitori vestiti come bestie feroci. Vinicio girava con Ciro guardando alle facce, cercando, domandando, qualche volta incespicando in corpi svenuti per la calca, per l'aria soffocante, per il caldo eccessivo, spingendosi sempre più nella profondità nera dello stanzone, il quale pareva spazioso quanto tutto l'anfiteatro.

Si fermò ad un tratto perchè gli parve di udire una voce dura ch'egli conosceva. Ascoltò, si volse, e, cacciandosi tra la moltitudine, andò vicino a colui che parlava. La luce gli lasciò riconoscere nella pelle del lupo la faccia sparuta e inesorabile di Crispo.

Pentitevi dei vostri peccati! sclamava Crispo, perchè il momento è vicino. Ma chi pensa colla morte di riscattarsi dai peccati, commette un altro peccato e sarà lanciato nel fuoco eterno. Con ogni peccato commesso in vita voi avete rinnovato le pene del Signore; come osate pensare che questa vita verrà redenta dall'altra? Oggi il giusto e il peccatore moriranno della stessa morte; ma il Signore troverà i suoi. Guai a voi! le zampe dei leoni sbraneranno i vostri corpi; ma non i vostri peccati, la vostra responsabilità dinanzi a Dio. Il Signore si è mostrato abbastanza misericordioso quand'Egli si è lasciato inchiodare alla croce; ma da quel momento egli è divenuto il giudice che punirà ogni peccato. Chi tra voi ha pensato di estinguere i proprî peccati col martirio, bestemmia contro la giustizia di Dio e cadrà nel più profondo dei tormenti. La misericordia è finita e l'ora dell'ira di Dio è venuta. Fra poco vi troverete dinanzi al giudice tremendo, alla cui presenza appena i buoni saranno scusati. Rimpiangete i vostri peccati perchè le gole dell'inferno sono spalancate. Guai a voi, mariti e mogli; guai a voi, genitori e fanciulli!

E protendendo le sue mani ossute, le agitò sulle teste inchinate; egli era intrepido e implacabile anche alla presenza della morte, alla quale tutti, fra poco, erano condannati. Dopo le sue parole si udivano le voci che dicevano:

– Ci pentiamo dei nostri peccati!

Poi si fece silenzio e non si sentivano più che il pianto dei bimbi e il battimento delle mani contro il petto.

Il sangue di Vinicio gelava nelle vene.

Egli che aveva riposto tutte le sue speranze nella misericordia di Cristo, udiva ora che il giorno dell'ira era venuto e che neanche la morte nell'arena troverebbe misericordia. Per la sua mente passò come un lampo che Pietro avrebbe parlato diversamente a coloro che stavano per morire. Nondimeno le parole terribili di Crispo riempivano di fanatismo lo stanzone buio coi suoi cancelli al margine del campo dei tormenti. La vicinanza di quel luogo e l'abbigliamento delle vittime già preparate per la morte lo terrorizzavano. Tutto ciò gli sembrava spaventevole, infinitamente più spaventevole di tutte le sanguinose battaglie cui aveva partecipato. Il fetore e il caldo incominciavano a soffocarlo; la sua fronte sudava freddo. Lo invadeva la paura di venir meno e cadere come quei corpi in cui aveva urtato i piedi cercando la fanciulla nel profondo del luogo; così ricordandosi che potevano aprire i cancelli a ogni momento, si mise a chiamare Licia e Ursus ad alta voce, nella speranza che loro o qualcuno che li conosceva potesse rispondere.

Infatti un uomo vestito da orso tirò la sua toga e disse:

Signore, sono rimasti in prigione. Sono stato l'ultimo a uscirne; l'ho veduta sullo sdraio ammalata.

– Chi sei tu? gli domandò Vinicio.

– Il cavatore nella cui capanna ti ha battezzato l'Apostolo, signore. Mi hanno imprigionato tre giorni sono e oggi muoio.

Vinicio si sentiva sollevato. Entrando desiderava di vedere Licia. Ora egli era pronto a ringraziare Dio di non avervela trovata e di vedere nell'assenza un segno della sua misericordia. Intanto il cavatore gli tirava un'altra volta la toga, dicendogli:

– Ti ricordi, signore, che io ti condussi al vigneto di Cornelio, quando l'Apostolo parlava nel locale della pigiatura dell'uva?

– Me ne ricordo

– L'ho riveduto il giorno prima del mio arresto. Mi benedì e mi disse che sarebbe venuto all'anfiteatro a benedire i morituri. Se potessi vederlo nel momento della morte e vedere il segno della croce, mi sarebbe più facile morire. Se tu sai dove egli sia, dimmelo.

Vinicio gli disse sottovoce:

– Egli è tra la gente di Petronio, travestito come uno schiavo. Non so dove abbiano preso posto, ma ritornerò al Circo a vedere. Guardami quando entrerai nell'arena. Volgerò il mio viso verso loro; allora potrai cercarlo coi tuoi occhî.

Grazie, signore, e la pace sia con te.

– Sia il Redentore misericordioso con te.

Amen.

Vinicio uscì dal cuniculum, e andò all'anfiteatro, dove egli aveva un posto vicino a Petronio, tra gli altri augustiani.

– Ve l'hai trovata?

– No; essa rimase in prigione.

Senti che cosa mi è passato per la mente; ma mentre ascolti, guarda a Nigidia, per esempio, così da lasciar credere che stiamo parlando della sua acconciatura. Tigellino e Chilone stanno guardandoci. Ascolta dunque. Fa ch'essi mettano Licia di notte in una bara e che la portino fuori come una morta; capisci il resto?

– Sì, rispose Vinicio.

La loro conversazione venne interrotta da Tullio Senecione, il quale, inchinandosi verso loro, disse:

Sapete se daranno delle armi ai cristiani?

– Non so, rispose Petronio.

– Mi piacerebbe che le dessero loro, disse Tullio; diversamente l'arena diverrebbe troppo presto una macelleria. Quale splendido anfiteatro!

L'aspetto era davvero superbo. I posti più bassi scomparivano sotto le toghe, e tutta la fila pareva una vasta distesa di neve. Nel podium dorato era Cesare seduto, con un collare di diamanti al collo e una corona d'oro sulla testa. Vicino a lui era la bella e tetra Augusta, e ai loro fianchi delle vestali, dei grandi ufficiali, dei senatori colle toghe ricamate, degli ufficiali dell'esercito dalle armature scintillanti; in una parola tutto ciò che Roma conteneva di potente, di magnifico e di ricco. Più lontani erano seduti i cavalieri; e in alto, nelle altre file, nereggiava un oceano di teste comuni, al disopra delle quali pendevano dai pilastri festoni di rose, di gigli, di edera e di pampini.

La gente conversava ad alta voce, si chiamava l'un l'altro, cantava, scoppiava in risate sonore a ogni parola spiritosa che passava di fila in fila, e batteva i piedi per affrettare il principio dello spettacolo.

Il calpestio produsse alla fine un rumore che assordava. Allora il prefetto della città, seguìto da un corteggio brillante, fece il giro dell'arena; diede un segnale col fazzoletto, al quale tutto l'anfiteatro rispose con degli «Ah! ah! ah!»

Di solito lo spettacolo incominciava con una caccia alle bestie feroci, a cui prendevano parte varî barbari del nord e del sud; ma questa volta avevano troppe bestie, così incominciarono cogli andabativale a dire coi gladiatori che portavano delle maschere senza aperture agli occhî, combattendo alla cieca gli uni contro gli altri. Entravano parecchî di essi insieme e si percotevano a caso colle spade; i mastigofori colle lunghe forcine spingevano gli uni addosso agli altri. Gli spettatori più raffinati guardavano con disprezzo e indifferenza a questo spettacolo; ma le moltitudini si divertivano alle goffe movenze degli schermidori. Se avveniva che s'incontrassero alle spalle, la folla prorompeva con delle grida: «Alla destra! alla sinistramettendoli così sulla falsa via. Alcune coppie riuscirono però ad incontrarsi e la lotta incominciò a divenire sanguinosa. I più accaniti gettavano via i loro scudi e tenendosi l'un l'altro per la sinistra per non separarsi, lottavano colla destra fino alla morte. Chiunque cadeva levava in alto le dita, in segno di domandar grazia; ma al principio di uno spettacolo il popolo esigeva sempre che si terminasse il ferito, specialmente quando i combattenti avevano le facce coperte ed erano sconosciuti.

A poco a poco il numero dei combattenti diminuiva; e quando non ne rimasero che due, l'uno venne spinto contro l'altro e tutti e due caddero sulla sabbia, ove finirono per sgozzarsi entrambi. Poi, alle grida di Peractum est! gli schiavi portavano via i cadaveri e i giovani cancellavano le tracce di sangue spargendo il terreno di foglie di zafferano,

Ora si dava principio a una lotta più importante che suscitava interesse non solo tra la folla, ma anche tra i giovani patrizî, i quali scommettevano enormi somme e qualche volta giuocavano tutto quello che possedevano. Si facevano circolare di mano in mano delle tavolette sulle quali scrivevano i nomi dei favoriti e anche la cifra dei sesterzi che ogni individuo giocava sul favorito.

Gli spectativale a dire i campioni che erano già apparsi nell'arena e ne erano usciti vincitoritrovavano molti partigiani; ma tra i giuocatori c'erano pure quelli che arrischiavano ingenti somme su gladiatori nuovi e affatto sconosciuti, sperando di guadagnare. Lo stesso Cesare scommetteva; sacerdoti, vestali, senatori, cavalieri giuocavano; la plebe scommetteva. Gli uomini della folla, quando mancava loro il denaro, scommettevano la loro libertà. Aspettavano i combattenti coi battiti del cuore ed anche con paura, e più di uno faceva a voce alta voti agli dèi per la protezione del suo favorito.

Al momento in cui suonavano le trombe, il silenzio dell'attesa diventava sovrano in tutto l'anfiteatro. Gli sguardi si concentravano sulla grande porta verso la quale si avanzava un uomo vestito come Caronte e che le batteva tra il silenzio universale con un martello, come se avesse voluto convitare alla morte coloro che vi stavano di dietro. Poi i due battenti della porta s'aprivano lentamente, mostrando una tetra caverna dalla quale incominciavano a uscire i gladiatori nell'arena soleggiata. Uscivano a venticinque la volta. Traci, Mirmilloni, Sanniti, Galli, ciascuna nazione separata, tutti pesantemente armati; gli ultimi erano i retiarî, con la rete in una mano e nell'altra il tridente. Alla loro vista, qua e si udirono degli applausi, i quali tosto diventarono una vera tempesta. Dalla cima alla base si vedevano visi accesi, mani che battevano e bocche che gridavano a perdifiato. I gladiatori circondavano l'arena con un passo uguale e molle, mentre che le loro armi e le loro armature scintillavano al sole; si fermavano dinanzi al podium imperiale, solenni e orgogliosi. Il corno faceva cessare gli applausi, i combattenti levavano la mano destra, e cogli occhî e la testa verso l'imperatore incominciavano a esclamare, o piuttosto a cantare con voce languida:

Ave Cesare imperator!
Morituri te salutant!

Poi si separavano prestamente, occupando ciascuno il posto che gli era assegnato nell'arena. Prima dovevano assalirsi individualmente, tra i più famosi schermidori, con una serie di assalti che dimostrassero la forza, l'abilità e il coraggio. Tra i combattenti galli si vedeva il campione Lanio, conosciutissimo da tutti gli assidui dell'anfiteatro, come il vincitore di tante sfide.

Col suo enorme elmetto e la sua maglia che pareva la cassa del suo torso poderoso, dava l'idea, nella luce d'oro dell'arena, di un gigantesco scarafaggio. Il non meno celebre retiario Calendio gli si mise dinanzi come competitore.

Gli spettatori incominciarono a scommettere:

Cinquecento sesterzi sul gallo!

Cinquecento su Calendio.

– Per Ercole, mille!

Duemila.

Intanto il gallo, giunto al centro dell'arena, incominciò a ritirarsi colla punta della spada e la testa piegata, guardando attentamente attraverso la visiera al suo avversario; il retiario, svelto, maestoso, statuario, completamente nudo, salvo la cinta ai lombi, gli si mise intorno sollecitamente, agitando la sua rete con dei graziosi movimenti, levando e abbassando il suo tridente e cantando il solito canto dei retiarî:

Non te peto, piscem peto;
Quid me fugis, galle?
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Ma il gallo non fuggiva perchè poco dopo si fermava e dal suo posto incominciava a voltarsi con un movimento appena visibile, come per avere il nemico sempre di fronte. Le sue forme atletiche e la sua grossa testa mostruosa davano l'idea di qualche cosa di terribile. Gli spettatori capivano benissimo che il corpo pesante e chiuso nell'armatura di ferro, si preparava per un colpo subitaneo che doveva decidere del combattimento. Intanto il retiario si lanciava ora su lui e ora si tirava indietro, facendo dei movimenti col tridente con tanta prestezza, che l'occhio poteva appena seguirli. Il suono dei denti di ferro sullo scudo si faceva sentire ripetutamente, ma il gallo non tremava e dava così prova della sua forza erculea. Tutta la sua attenzione pareva concentrata non sul tridente, ma sulla rete che gli girava intorno la testa come un uccello di malaugurio. Gli spettatori tenevano il fiato e seguivano la scherma dei gladiatori eseguita con abilità somma. Il gallo che aspettava, scelse il momento, e alla fine si precipitò sull'avversario; l'altro, colla stessa sveltezza, sfuggì al colpo, si rialzò col braccio levato e gettò la rete.

Il gallo, girando su stesso, lo ricevette sullo scudo e tutti e due indietreggiarono. L'anfiteatro rintronò delle grida di macte! Nelle prime fila ricominciarono le scommesse. Lo stesso imperatore, che stava parlando con Rubria e non s'era molto interessato dello spettacolo, volse la testa verso l'arena.

Ripresero la lotta con una tale precisione nei movimenti, che qualche volta pareva che per loro non fosse questione di vita o di morte, ma si trattasse solo di far vedere la loro perizia. Il gallo, sfuggendo due altre volte alla rete, si spinse al margine dell'arena; quelli che avevano scommesso contro di lui e che non volevano che il campione avesse tregua, gridarono: «Addosso!» Il gallo ubbidì e riprese l'attacco. In un minuto il braccio del retiario si coperse di sangue e lasciò pendere la rete. Il gallo raccolse tutte le sue forze e si lanciò di nuovo su lui per vibrargli il colpo mortale. Immediatamente Calendio, che si finse impotente a maneggiare la rete, si ritrasse, sfuggì al colpo e piantò il tridente nelle ginocchia del suo avversario facendolo cadere a terra.

Il gallo tentò di rialzarsi, ma in un baleno gli fu sopra la rete inesorabile, nella quale vi rimaneva sempre più impigliato a ogni movimento dei piedi e delle mani. Egli fece un altro sforzo, si appoggiò al suo braccio e cercò di alzarsi; invano! Tirò sulla testa la mano debole che non poteva più tenere la spada e cadde sul suo dorso. Calendio puntò al di lui collo il tridente, e con ambe le mani sulla cima del manico si volse verso il palco imperiale.

Tutto il Circo tremava dagli applausi e dagli urli degli spettatori. Per coloro che avevano tenuto per Calendio, costui era, in quel momento, più grande dell'imperatore; e per questa stessa ragione scompariva dai loro cuori ogni animosità per il gallo. Col suo sangue egli aveva riempito le loro borse. Le voci degli spettatori non erano punto d'accordo.

Dai posti in alto, metà dei segni votavano per la morte e metà per la grazia; ma il retiario non guardava che al palco di Cesare e delle vestali, aspettando la loro decisione.

Per sfortuna del caduto gladiatore, Nerone non aveva alcuna simpatia per lui, e agli ultimi spettacoli prima dell'incendio egli aveva giocato contro di lui e perduto somme considerevoli con Licinio perciò buttò fuori la mano dal podium e volse il pollice verso terra.

Le vestali fecero subito il segno di Cesare.

Calendio andò colle ginocchia sul petto del gallo, si trasse un breve coltello dalla cintola, gli tirò indietro l'armatura dal collo e gli sprofondò nella gola la lama triangolare fino al manico.

Peractum est! si gridò da varie parti dell'anfiteatro.

Il gallo ebbe dei fremiti come un bue a cui si sia piantato il coltello nella carotide; fece dei solchi nel terreno coi talloni, si stiracchiò e rimase immoto.

Mercurio non ebbe bisogno di provare col ferro rovente se era ancora in vita. Lo si portò via sollecitamente e altre coppie si fecero innanzi. Dopo costoro incominciò il combattimento a gruppi. Il pubblico da questo momento vi prendeva parte coll'anima, col cuore e cogli occhî. Schiamazzava, ruggiva, fischiava, applaudiva, rideva, incalzava i lottatori e diventava selvaggio. I gladiatori nell'arena, divisi in due legioni, combattevano colla rabbia delle bestie feroci. I petti si urtavano contro i petti, i corpi si torcevano nelle strette mortali, le ossa scricchiolavano, le spade si immergevano nelle carni palpitanti e le labbra vomitavano sangue sulla sabbia. Verso la fine alcuni novizî vennero presi da una paura così terribile che si sottrassero dal tumulto e fuggirono; ma i mastigofori li rimandarono in mezzo ai combattenti a colpi di bastone piombato. Sulla sabbia si andavano formando larghe macchie nere; da ogni parte giacevano corpi nudi o armati, gli uni addosso agli altri come tanti covoni ammucchiati. I vivi combattevano sui morti, urtavano contro le armature e gli scudi, si tagliavano i piedi colle lame spezzate e cadevano.

Il pubblico non aveva ritegno; si ubriacava di morte, se ne saziava cogli occhî, ne aspirava le esalazioni con delizia, a pieni polmoni.

Quasi tutti i vinti erano in terra morti. I pochi feriti inginocchiati nel mezzo dell'arena e tremanti tendevano le loro mani al pubblico, imploranti la misericordia.

Ai vincitori vennero distribuiti delle corone e dei rami d'olivo. Vi fu un po' di riposo e per ordine dell'imperatore l'arena si tramutò in un banchetto.

I profumi bruciavano nei bracieri. Gli innaffiatoî dall'alto spargevano sul popolo la pioggerella di zafferano e di violetta. Si servivano delle bevande fresche, dell'arrosto, dei vini, delle olive e delle frutta. Il popolo divorava e acclamava alla generosità di Nerone, per incitarlo a essere più munifico. Saziata la fame e la sete, uscirono centinaia di schiavi colle corbe colme di regali che i fanciulli vestiti da amorini buttavano a due mani agli spettatori. Alla distribuzione delle tessere della lotteria vi fu colluttazione. La gente si affollava, si protendeva, si rovesciava, si calpestava, gridava aiuto, saltava da una fila all'altra, e, nell'impeto, gli uni soffocavano gli altri. I numeri fortunati potevano far vincere una casa con giardino, uno schiavo, un abito splendido, una belva feroce che il vincitore poteva vendere poi all'anfiteatro. Per queste ragioni il disordine sovente era tale che dovevano intervenire i pretoriani; e a ogni distribuzione si portavano fuori le persone colle gambe e le braccia rotte, o i morti rimasti sotto i piedi.

I più ricchi non prendevano parte alla lotta per le tessere della lotteria.

Gli augustiani si divertivano a guardare Chilone che faceva degli sforzi per dimostrare ch'egli poteva rimanere imperturbabile al combattimento sanguinoso come ogni altr'uomo.

Ma invano lo sgraziato greco aggrottava le ciglia, si mangiava le labbra e si stringeva i pugni fino a quando le unghie gli entravano nel palmo della mano. Il suo temperamento greco e la sua vigliaccheria personale non resistevano a tale vista. Le sue guance impallidivano, la sua fronte s'imperlava di sudore, le sue labbra diventavano paonazze, i suoi occhî si chiudevano, i suoi denti battevano su stessi, e tutto il suo corpo passava da un brivido all'altro. Alla fine del combattimento si riebbe un po', ma appena si misero a burlarlo, si lasciò andare dalla collera e si difese accanitamente in tutti i modi.

– Ah, greco, ti fa male la vista della pelle di un uomo lacerata! gli disse Vatinio prendendolo per la barba.

Chilone scoperse i suoi due denti gialli e gli rispose:

– Mio padre non era un ciabattino, così non posso cucirla.

Macte! habet! (bravo! egli ha colto nel segno!) dissero parecchie voci; altri risero.

– Non è colpa sua se al posto del cuore egli ha un pezzo di formaggio, disse Senecione.

– E non è colpa tua se al posto della testa hai una vescica.

– Che tu possa diventare un gladiatore! Staresti bene colla rete nelle mani.

– Se ti pigliassi in essa, non piglierei che una upupa puzzulente.

– E come andrà coi cristiani? domandò Festo della Liguria. Non ti piacerebbe essere un cane per morderli?

– Non mi piacerebbe di esserti fratello

– Tu, naso di rame della Meotide!

– Tu, mulo della Liguria!

– La pelle prude davvero, ma non ti consiglio a dirmi di grattarla!

Grattati la tua! Se ti gratti la tua pustola, distruggerai ciò che è di più bello in te!

Questo era il modo con cui lo si aizzava, ed egli si difendeva velenosamente, in mezzo alle risa generali.

Cesare applaudiva colle mani e ripeteva: Macte! e li incalzava a continuare. Poco dopo gli si avvicinò Petronio, lo toccò sulla spalla colla sua canna intarsiata d'avorio e gli disse freddamente:

– Tutto ciò va bene, filosofo, ma in una cosa hai sbagliato: gli dèi avevano fatto di te un borsaiuolo, e tu sei divenuto un demone. Questa è la ragione per cui non puoi resistere.

Il vecchio lo guardò coi suoi occhî rossi, ma questa volta non gli venne alle labbra l'insulto. Rimase un po' silenzioso, poi rispose con un certo sforzo:

– Vi resisterò.

Le trombe suonarono la fine dell'intervallo. La gente incominciò a lasciare i passaggi ove si era radunata per sgranchirsi le gambe e ciaramellare. Il frastuono nel riprendere i posti e le dispute intorno al diritto dei primi occupanti fu generale. I senatori e i patrizî tornarono nelle loro file. Cessò il baccano e l'ordine fu ristabilito. Nell'arena comparvero gli incaricati di raschiare e rompere la ghiaia rappresa di sangue.

La volta dei cristiani era vicina. Siccome era un nuovo spettacolo e nessuno sapeva come i cristiani si sarebbero contenuti, così lo si aspettava con una certa ansia.

Il pubblico era attento, ma ostile. Si aspettavano delle scene straordinarie.

Coloro che stavano per apparire avevano bruciato Roma e i suoi tesori secolari. Avevano bevuto il sangue dei fanciulli e avvelenata l'acqua, maledetto tutto il genere umano e commesso i più orrendi delitti.

I castighi più tremendi non bastavano a saziare l'odio delle masse: e se qualche paura era nel cuore della gente, era che i tormenti dei cristiani non fossero uguali alla loro ferocia.

Il prefetto dava il segnale. Di nuovo il nocchiero Caronte, che aveva chiamato i gladiatori alla morte, attraversò l'arena a passi lenti in mezzo al silenzio sepolcrale, e giunto alla porta diede il segnale coi tre colpi di martello.

Per tutto l'anfiteatro si levò una esclamazione unanime:

– I cristiani! i cristiani!

I cancelli di ferro cigolarono sui cardini; per le tetre aperture si udirono le solite grida dei mastigofori:

– All'arena!

E in un lampo questa fu inondata di esseri che parevano satiri nelle pelli delle bestie feroci. Tutti andarono al centro con passo rapido, e tutti si inginocchiarono l'uno dopo l'altro, colle mani alzate. Gli spettatori, credendola una preghiera per domandare grazia, ed esasperati per tanta vigliaccheria, si misero a fischiare, a battere i piedi, e a gettar loro bicchieri vuoti e le ossa del loro pasto, gridando:

– Le bestie! le bestie!

Ma ad un tratto ebbe luogo qualcosa di inaspettato.

Da tutta quella riunione vellosa un'armonia si levò per lo spazio e risuono l'inno che non era mai stato udito negli anfiteatri romani:

Christus regnat!18.

La sorpresa invase gli spettatori. I condannati cantavano cogli occhî rivolti al velarium. Il pubblico vedeva dei visi pallidi, ma ispirati. Tutti compresero allora ch'essi non domandavano la grazia; pareva anzi che non vedessero affatto il Circo, il Senato, Cesare.

Christus regnat! si elevava più sonoro e andava in alto, fino agli ultimi posti, e dappertutto gli spettatori si domandavano che cosa avveniva e chi era il Cristo che regnava nelle bocche di quella gente che stava per morire. Tutto a un tratto s'aperse un altro cancello e nell'arena irruppero una moltitudine di cani selvaggi che divoravano lo spazio latrando, di cani giganteschi, molossi del Peloponneso, cani screziati dei Pirenei e cani lupeschi, tenuti a bella posta affamati; avevano i fianchi vuoti e i loro occhî erano iniettati di sangue.

L'anfiteatro risonava dei loro urli e dei loro lamenti. Terminato l'inno, i cristiani rimasero in ginocchio, immoti, come pietrificati, ripetendo semplicemente in un tono lamentoso:

Pro Christo! Pro Christo!

I cani, fiutando l'odore delle persone nelle pelli delle bestie, e sorpresi del loro silenzio, non si avventarono su loro immediatamente.

Alcuni erano rimasti sotto le mura dei palchi, come se avessero voluto andare tra gli spettatori; altri giravano su stessi latrando, come se stessero inseguendo una bestia invisibile. Il popolo perdeva la pazienza. Migliaia di voci avevano incominciato a chiamare; alcuni ululavano come bestie feroci; altri latravano come cani; altri ancora li eccitavano all'assalto in tutte le lingue. I cani inferociti incominciarono a correre verso la gente prostrata, ritraendosi dalle vittime, digrignando i denti, fino a quando uno dei molossi piantò i suoi denti nella spalla di una donna inginocchiata in prima fila, e se la strascinò sotto i piedi.

I cani si gettarono sui cristiani a diecine, come per sfollarli. Il pubblico smise di urlare, per concentrare tutta l'attenzione sulla strage. Tra gli urli e i lamenti dei cani che sbranavano si udivano le voci lamentose degli uomini e delle donne: «Pro Christo! Pro Christo!» e nell'arena si formarono masse palpitanti di cani e di cristiani. Il sangue usciva a fiotti. I cani si contendevano le membra tirandole da tutte le parti. L'odore del sangue e delle viscere fumanti era più forte dei profumi arabi, e si era disseminato per l'intero anfiteatro.

Alla fine non erano visibili, qua e , che le figure di alcune vittime in ginocchio, le quali scomparivano tosto sotto frotte di cani che si contorcevano.

Vinicio, al momento in cui i cristiani corsero nell'arena, era in piedi, come aveva promesso, per indicare al cavatore la parte in cui si trovava l'Apostolo nascosto tra gli schiavi di Petronio. Subito dopo risedette, e colla faccia cadaverica continuò a guardare cogli occhî vitrei allo spettacolo orrendo. In sulle prime, per paura che il cavatore non avesse veduto, o che Licia, per un caso qualunque, fosse tra le vittime, rimase come assiderato; ma quando udì le voci: «Pro Christo!» quando vide i tormenti di tante vittime che, moribonde, confessavano la loro religione e il loro Dio, un altro sentimento irresistibile lo invase, acuto più d'ogni altro dolore tormentoso. E il sentimento era questo: se lo stesso Cristo era morto fra i tormenti, se migliaia perivano allora per Lui, se si spargeva un mare di sangue, una goccia di più non contava nulla ed era un peccato domandare grazia. Questo pensiero gli era salito dall'arena ed era penetrato in lui coi gemiti dei moribondi, coll'odore del loro sangue. Nondimeno pregava e ripeteva colle labbra ardenti:

– O Cristo! o Cristo! anche il tuo Apostolo prega per lei!

In seguito dimenticò stesso e perdette come la conoscenza del luogo ove si trovava. Gli pareva che il sangue dell'arena salisse e salisse e traboccasse dal Circo per dilagare tutta Roma. Del resto non udì nulla; gli urli dei cani, i clamori del pubblico, le voci degli augustiani, i quali incominciavano a dire:

Chilone è svenuto!

Chilone è svenuto! disse Petronio, volgendosi verso il greco.

Ed era svenuto davvero. Egli era bianco come un pannolino, colla testa rovesciata, la bocca aperta, come quella di un cadavere.

In quel momento stavano spingendo nella arena nuove vittime cucite nelle pelli.

Costoro s'inginocchiarono subito come gli altri che li avevano preceduti; ma i cani sazi non volevano farli a brani.

Appena alcuni si gettarono sui più vicini in ginocchio; gli altri si adagiarono ansanti col loro muso sanguinolento in aria, grattandosi i fianchi e sbadigliando cupamente.

Allora la folla delirante, ubriaca di sangue, ricominciò a gridare con voce rauca:

– I leoni! i leoni! lasciate uscire i leoni!

I leoni dovevano essere riservati per l'indomani, ma negli anfiteatri la volontà del popolo s'imponeva anche su quella di Cesare. Caligola solo, insolente e mutabile nei suoi desiderî, osava opporsi, e in certi casi faceva bastonare il pubblico, ma anche lui spesso cedeva.

Nerone, al quale gli applausi erano più cari di ogni altra cosa al mondo, non resistette mai. Tanto più ora che si trattava di ammansare la plebe sovreccitata dall'incendio, e di gettare sui cristiani la colpa della catastrofe.

L'imperatore fece segno di aprire il cuniculum, e gli spettatori si calmarono in un momento. Si udì subito il cigolìo delle porte dietro cui erano i leoni.

Alla loro vista i cani si raccolsero con dei cupi lamenti al lato opposto dell'arena. I leoni entrarono uno dopo l'altro, maestosi, col passo pesante, colla larga testa vellosa. Lo stesso Cesare si volse verso loro guardandoli attraverso lo smeraldo. I patrizî li applaudivano; la moltitudine li contava colle dita e seguiva attentamente l'impressione che producevano sui cristiani inginocchiati al centro, i quali avevano ricominciato a ripetere le parole incomprensibili ai più, ma che irritavano tutti: «Pro Christo! Pro Christo!»

I leoni, quantunque affamati, non si affrettavano sulle loro vittime. La luce vermiglia dell'arena li abbagliava e faceva loro battere gli occhî. Alcuni si stiracchiavano i corpi giallognoli; alcuni spalancavano le loro fauci, sbadigliando, come per far vedere al pubblico le loro potenti mascelle.

Più tardi l'odore del sangue e i corpi sbranati, molti dei quali giacevano sulla sabbia, incominciarono a farsi sentire. I loro movimenti divennero inquieti, le loro gjubbe ebbero degli scotimenti e le loro nari aspirarono con un suono cupo. Uno d’essi si precipitò subitamente su una donna dal viso squarciato, andandole sopra colle zampe e leccandola colla sua lingua rugosa; un altro si avvicinò a un uomo che teneva nelle sue braccia un bimbo cucito nella pelle di un cervo.

Il fanciullo, tutto sottosopra dalle grida e dal pianto, si attaccava convulsivamente al collo del padre. Costui, per prolungargli la vita, fosse pure di un attimo, cercò di staccarselo dal collo per passarlo agli altri in ginocchio e più lontani. Ma le strida e i movimenti irritarono il leone. Tutto a un tratto l'animale mandò un breve e rotto ruggito, uccise il bimbo con una zampata, afferrò la testa del padre colle mascelle e la schiantò in un batter di ciglio. Fu come il principio della carneficina. Tutti gli altri leoni si rovesciarono sui cristiani. Alcune donne non seppero trattener le grida strappate dal terrore, grida che il pubblico soffocava col battimano entusiastico, il quale durava poco per la voluttà acre in tutti di assistere al resto della scena. Videro degli orrori indescrivibili: le teste scomparivano completamente nelle fauci spalancate; i seni sfondati con un colpo; i cuori e i polmoni portati via e divorati in un boccone, e le ossa stritolate sotto i denti vigorosi. Alcuni leoni afferravano le loro vittime per le costole o per i lombi e correvano pazzamente a balzi per l'arena, come per cercarsi un angolo nascosto da divorarli a loro agio; altri si urtavano, drizzandosi sulle zampe di dietro, e lottando tra loro come lottatori, sollevando in tutto l'anfiteatro un uragano d'applausi. Molta gente si levava in piedi e non pochi andavano attraverso i passaggi delle file sottostanti, per veder meglio, pigiandosi così tra la folla pigiata. Si sarebbe detto che la moltitudine stava per precipitarsi essa stessa nell'arena per sbranare i cristiani in compagnia dei leoni. Ora si udivano grida sovrumane, ora applausi, ora ruggiti, ora cupi suoni, ora stridori di denti, ora ululati di molossi, e ora soli gemiti.

Cesare, collo smeraldo all'occhio, guardava attentamente. La faccia di Petronio aveva assunto l'espressione del disprezzo e del disgusto. Chilone era stato portato via dal Circo.

Ma dal cuniculum uscivano continuamente delle vittime.

Dall'ultima fila in alto dell'anfiteatro l'Apostolo guardava su loro. Nessuno lo vedeva perchè tutte le teste erano volte verso l'arena. Egli stava in piedi, e come una volta nel vigneto di Cornelio aveva benedetto, per la morte e per l'eternità, quelli che dovevano essere arrestati, così ora egli si inchinava verso coloro che perivano sotto i denti delle belve feroci, e inviava loro la benedizione suprema col segno della croce.

Benediva il loro sangue, il loro tormento, i loro cadaveri ridotti a una massa informe e le loro anime che fuggivano dalla sabbia sanguinosa. Alcuni alzavano lo sguardo fino a lui e i loro volti divenivano radianti; sorridevano quando vedevano in alto il segno della croce.

Ma il suo cuore era lacerato, e con una invocazione al cielo disse:

– O Signore! sia fatta la Tua volontà. Questo mio gregge perisce per la Tua gloria, per la verità. Tu mi hai comandato di nutrirli, io Te li restituisco; Tu, contali, Signore, prendili, guarisci le loro ferite, addolcisci le loro pene, loro la felicità più grande dei tormenti che hanno sofferto.

E continuava a benedire gli uni dopo gli altri, un gruppo dopo l'altro; con altrettanto amore come se fossero stati figli ch'egli stava consegnando direttamente nelle mani di Cristo.

Cesare intanto, o per pazzia o perchè egli desiderava che la rappresentazione sorpassasse ogni cosa veduta in Roma, susurrò poche parole all'orecchio del prefetto di città. Tigellino lasciò il podium e andò subito al cuniculum. Anche la plebaglia rimase sorpresa, quando poco dopo udì che si riaprivano i cancelli. Questa volta si lanciarono fuori fiere di ogni specie. Tigri dell'Eufrate, pantere di Numidia, orsi, lupi, jene, sciacalli. L'intera arena era coperta come di un mare movente di pelli tigrate, gialle, fulve, scure, maculate. Ne nacque un caos in cui l'occhio non poteva distinguere nulla, salvo i rovesciamenti e i contorcimenti orribili delle bestie feroci. Lo spettacolo perdeva ogni apparenza di realtà e si convertiva in un'orgia di sangue, in un sogno spaventevole, in un gigantesco caleidoscopio della più pazza fantasia. La misura era passata. Tra i muggiti, gli ululati, i lamenti, qua e , in mezzo agli spettatori, si udivano le risate spasmodiche e terribili delle donne, le cui forze erano esaurite. Il popolo era terrorizzato. Le facce si rannuvolavano, e da varie parti si incominciava a gridare: «Basta! basta!» Ma era più facile di lasciare uscire le bestie che di farle rientrare. Cesare, comunque, trovò un modo di far sbarazzare l'arena e dare un altro divertimento al popolo. Nei passaggi che separavano i sedili, comparvero immediatamente dei numidi neri e maestosi, con delle penne colorate, dei pendenti nelle orecchie e degli archi nelle mani. Il popolo indovinò ciò che stava per avvenire e accolse gli arcieri con grida di giubilo.

I numidi si avvicinarono al ferro del circuito e messe le frecce agli archi, incominciarono a tirare sulla moltitudine delle bestie ferine.

Era indubbiamente un nuovo spettacolo. Quegli uomini ben fatti, che parevano scolpiti nel marmo nero, piegandosi indietro, tendevano i loro archi flessibili e lanciavano una freccia dopo l'altra. Il tremito delle corde e il sibilo delle frecce piumate si confondevano cogli urli delle bestie e le grida di meraviglia del pubblico. Lupi, orsi, pantere e cristiani ancora vivi cadevano insieme e vicini. Qua e un leone, sentendosi il ferro nel fianco, si rivolgeva con movimenti subitanei, colle mascelle increspate dalla rabbia e cercavano di afferrarlo e strapparselo dalle carni. Altri sgolavano i gemiti lunghi dei tormenti. Le piccole bestie, spaventate, correvano per l'arena a caso, spesso buttandosi colla testa sui cancelli: ma le frecce sibilarono e fischiarono fino a quando tutto ciò che c'era di vivo non giacque in terra nel brivido finale dell'agonia.

Centinaia di schiavi invasero l'arena armati di badili, di palette, di scope, di carretti, per raccogliere le viscere e la sabbia insanguinata. I gruppi si succedevano ai gruppi, e per l'intero circolo ferveva un'attività febbrile.

In un batter d'occhio si portarono via i cadaveri, si fecero scomparire le pozze di sangue, si raccolse lo sterco, si sparse un nuovo strato di sabbia. Fatto questo, entrarono stormi di amorini, seminando dovunque foglie di rose e di gigli, e la più grande varietà di fiori. Si riaccesero gli incensieri e si tolse il velarium perchè il sole era già verso il tramonto.

Il pubblico si guardava con sorpresa e si domandava quale nuovo spettacolo si stava per dar loro in quel giorno.

E lo spettacolo era assolutamente inaspettato. Cesare, il quale aveva lasciato il podium qualche momento prima, comparve subito nell'arena fiorita, vestito di porpora e cinto dell'aurea corona. Venne seguìto da dodici citaredi. L'imperatore aveva un liuto d'argento e andò al centro con passo tragico, s'inchinò parecchie volte agli spettatori, alzò gli occhî e rimase come per aspettare l'ispirazione.

Poi toccò le corde e incominciò a cantare:

 

Figlio di Leto, o radiante, di Tènedo, Crise e Chios
Dominatore, o patrocinio d'Ilio;

Come reggendo il fato, volesti le tue sacre mura
Abbandonate nel furore argivo?

Eccoli i rossi altari, fumando, incensanti al tuo nome,
grondanti sangue, di sangue trojano.

Stanno i vecchi, le mani erte per te nel terrore
o dell'arco d'argento, lungi saettante;

E le madri dall'imo petto implorare pei nati gridando:
o strida, o lacrime! – pietà: ti commovi.

Anche un macigno avrebbe sforzata ai lamenti l'angoscia,
non te Smintèo, immobile, impietrato.

 

Il canto passò a poco a poco in una elegìa piagnucolosa.

Nel Circo il silenzio era supremo. Dopo qualche pausa, Cesare, commosso egli stesso, riprese:

 

Armoniosamente col plettro celeste le strida
hai soffocato e lo strazio del cuore.

Funeree in questo canto lacrime stagnano in l'occhi
Come rugiada al calice del fiore.

Ma chi può dalle ceneri suscitar questo giorno fatale,
giorno di fuoco, la rovina e l'incendio?
Smintèo ov'eri allora?...

 

Qui la voce di Nerone tremò di commozione e i suoi occhî si inumidirono. Le lacrime apparvero sulle ciglia delle vestali; il silenzio religioso scoppiò in una lunga tempesta d'applausi.

Intanto, di fuori, attraverso i vomitorî aperti, si udivano gli scricchiolii dei veicoli sui quali si caricavano i resti sanguinosi dei cristiani per essere scaricati nelle fosse chiamate puticuli.

L'apostolo Piero si prese nelle mani la sua testa tremolante e canuta, dicendo fra :

– O Signore, o Signore! a chi hai Tu mai dato l'impero del mondo, e perchè vuoi Tu fondare in questo luogo la Tua capitale?

 

 





17 Non cerco te, cerco un pesceperchè mi fuggi o gallo?



18 Cristo regna.



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