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Il sole era quasi scomparso all'occidente e pareva stesse sciogliendosi nel rosso del tramonto. Lo spettacolo era finito. Le moltitudini lasciavano l'anfiteatro attraversando i passaggi chiamati vomitorî e spargendosi per la città. Soli gli augustiani indugiavano; aspettavano che la corrente del popolo fosse finita. Avevano tutti abbandonato i loro seggi e si erano radunati nel podium, in cui Cesare era ricomparso a udire le lodi. Benchè gli spettatori non avessero risparmiato applausi alla fine del canto, Nerone non era soddisfatto.
Egli si era imaginato un entusiasmo che avesse rasentato la frenesia. Invano gli si facevano suonare all'orecchio gli inni delle lodi, invano le vestali baciavano la sua mano «divina», e invano Rubria baciandogliela s'inchinava fino a toccare il petto dell'imperatore coi di lei capelli rossicci. Nerone non era soddisfatto e non poteva nasconderlo. Egli era sorpreso e anche agitato perchè Petronio non parlava.
Una parola di lode o di critica dalla sua bocca gli sarebbe stata, in quel momento, di grande consolazione.
Finalmente, incapace di trattenersi, Cesare fece segno all'arbitro di andare da lui.
–– Parla, diss'egli, quando Petronio entrò nel podium.
– Taccio, rispose Petronio freddamente, perchè non posso trovare parole. Tu hai superato te stesso.
– Così pare anche a me; nondimeno questa gente...
– Puoi aspettarti che dei meticci gustino la poesia?
– Tu pure hai notato che non mi hanno applaudito come meritavo.
– Perchè tu hai scelto un cattivo momento,
– Come?
– Quando gli uomini hanno il cervello pieno dell'odore del sangue, non possono ascoltare attentamente.
– Ah, quei cristiani! replicò Nerone, stringendosi i pugni. Non contenti di aver incendiato Roma, ora, mi fanno anche del male. Quale nuovo castigo troverò io per loro?
Petronio vide ch'egli aveva preso la via sbagliata e che le sue parole avevano prodotto l'effetto contrario di quello che aveva supposto. Così, per trascinare la mente dell'imperatore su un altro terreno, s'inchinò al suo orecchio a susurrargli:
– La tua canzone è meravigliosa, ma farò un'osservazione: nel quarto verso della terza strofa il metro lascia qualcosa a desiderare.
Nerone divenne rosso dalla vergogna, come se fosse stato colto a commettere un atto disonorevole.
C'era nel suo sguardo la paura e gli rispose anche lui con un bisbiglio:
– Tu vedi tutto. Lo so. Lo rifarò. Nessun altro se n'è accorto, mi pare. E tu, per l'amore degli dèi, non farne parola con alcuno, se la vita ti è cara.
Petronio rispose come un'esplosione di dolore e di collera:
– Condannami alla morte, o divino, se ti inganno; ma tu non mi spaventi, perchè gli dèi sanno bene se io ho paura della morte.
E parlando guardava direttamente negli occhî di Cesare, il quale poco dopo rispose:
– Non andare in collera: tu sai che ti voglio bene.
– Cattivo segno! pensò Petronio.
– Volevo invitarti oggi a un banchetto, proseguì Nerone, ma preferisco chiudermi nello studio a limare quel maledetto verso della terza strofa. Oltre te, può averlo notato Seneca e forse Secondo Carina; ma mi sbarazzerò di loro prestamente.
Fece chiamare Seneca e gli disse che lo mandava in Italia e in tutte le altre provincie con Acrate e Secondo Carina a raccogliere denaro. Gli ingiungeva di prenderselo nelle città, nei villaggi, nei templi famosi, e dovunque fosse stato possibile trovarlo o estorcerlo. Ma Seneca, vedendo che Cesare gli affidava un lavoro di sacrilegi, di furti e di saccheggio, rifiutò senza esitazione.
– Io devo andare in campagna, signore, ad aspettarvi la morte, perchè sono vecchio e i miei nervi sono ammalati.
I nervi iberici di Seneca erano più forti di quelli di Chilone; non erano forse ammalati, ma in generale la sua salute non era buona. Pareva un'ombra, e i suoi capelli erano divenuti tutt'affatto bianchi.
Anche Nerone, dopo averlo guardato, pensò che non aveva molto da aspettare per la sua morte e disse:
– Non voglio esporti ai pericoli di un viaggio se sei ammalato, ma per l'affezione che ti porto, desidero tenerti vicino a me. Invece di andare in campagna, te ne starai in casa tua, senza uscirne.
Poi si mise a ridere e a dire:
– Se mando Acrate e Carina da soli, è come mandare dei lupi in mezzo al gregge. Chi posso dar loro come capo?
– Puoi dare me, signore, rispose Domizio Afro.
– No! non voglio attirare su Roma la collera di Mercurio, che voi disonorereste colle vostre scelleratezze. Ho bisogno di qualche stoico come Seneca, o come il mio nuovo amico, il filosofo Chilone.
Indi guardò attorno e domandò:
Questi, che era rinvenuto all'aria aperta e ritornato nell'anfiteatro per udire il canto di Cesare, si fece innanzi e disse:
– Eccomi, o radiante figlio del Sole e della Luna; mi era venuto male, ma il tuo canto mi ha guarito.
– Voglio mandarti all'Acaia, disse Nerone. Tu devi sapere fino all'ultimo centesimo che cosa vi è in ciascun tempio.
– Mandami, o Giove, e gli dèi ti ricompenseranno con tale tributo come non hanno mai ricompensato alcuno.
– Ti manderei, ma non voglio impedirti di assistere agli spettacoli.
Gli augustiani, lieti che Cesare avesse ripreso il buon umore, si misero a ridere e scherzare.
– No, signore, non privare questo valoroso greco del piacere di assistere agli spettacoli.
– Ma salvami, o signore, dallo spettacolo di questa noiose oche del Campidoglio, i cui cervelli, messi tutti assieme, non riempirebbero il guscio di una noce, replicò Chilone. O primogenito d'Apollo, sto scrivendo un inno greco in tuo onore, e desidero spendere pochi giorni nel tempio delle muse per implorarne l'ispirazione.
– Oh, no! sclamò Nerone. Tu desiderî scappare dagli spettacoli. Sprechi il fiato!
– Ti giuro, signore, che sto scrivendo un inno.
– Allora lo scriverai di notte. Supplica Diana che ti dia l'ispirazione, la quale, tra parentesi, è sorella di Apollo.
Chilone si lasciò andare la testa sul petto e guardò coloro che erano presenti con occhî truci. Le risate ricominciarono. Cesare, voltosi a Senecione e a Suilio Nerulino, disse:
– Imaginatevi che abbiamo spacciato appena una metà dei cristiani per gli spettacoli d'oggi.
Il vecchio Aquilo Regolo, che aveva una grande pratica di ogni cosa che avesse relazione coll'Anfiteatro, dopo averci pensato alquanto, disse:
– Gli spettacoli in cui il popolo prende parte sine armis et sine arte sono quasi più lunghi e meno divertenti.
– Darò ordine che si diano loro delle armi, rispose Nerone.
Il superstizioso Vestinio si distolse dalla meditazione e domandò con voce misteriosa:
– Avete notato che quando muoiono vedono qualche cosa? Guardano in alto e muoiono come se non soffrissero nulla. Sono sicuro che vedono qualche cosa.
Levò gli occhî attraverso l'apertura dell'anfiteatro, sul quale la notte aveva incominciato a stendere il suo velario costellato di stelle. Gli altri risposero ridendo e dicendo delle facezie su quello che potevano vedere i cristiani al momento di morire. Nello stesso tempo Cesare fece segno ai portatori di torce e lasciò il Circo; dietro a lui erano le vestali, i senatori, i dignitarî e gli augustiani.
La notte era chiara e tepida. Dinanzi al Circo si muoveva la folla curiosa di vedere l'uscita di Cesare; era una folla piuttosto tetra e silenziosa. Gli applausi che si udivano qua e là cessavano subito. Dallo spoliarium rumoreggiavano le ruote dei carri che portavano via i sanguinosi avanzi dei cristiani.
Petronio e Vinicio facevano la loro strada silenziosi. Solo vicino alla villa, Petronio domandò a Vinicio:
– Hai tu pensato a quello che ti ho detto?
– Ci ho pensato.
– Non sai tu che è divenuta anche per me una questione della più alta importanza? Devo salvarla a dispetto di Cesare e di Tigellino. È una specie di lotta colla quale ho intrapreso una conquista, un giuoco che devo vincere, anche a costo della mia vita. La giornata d'oggi mi ha confermato sempre più nel mio progetto.
– Vedrai.
Conversando giunsero all'entrata della villa e discesero dalla lettiga.
Si avvicinò loro una figura nera, domandando:
– C'è, rispose il tribuno. Che cosa desideri?
– Io sono Nazario, il figlio di Miriam. Sono uscito dalla prigione e ti porto notizie di Licia.
Vinicio pose la mano sulla spalla del giovine e gli guardò negli occhî colla torcia, senza poter dire una parola; ma Nazario indovinò l'interrogazione che moriva sulle sue labbra e rispose:
– Ella è ancora viva. Ursus mi ha mandato a dirti che ella prega nel delirio e ripete sovente il tuo nome.
– Sia lodato Cristo, il quale può ridarmela, disse Vinicio.
Condusse Nazario nella biblioteca e poco dopo vi andò anche Petronio a udire che cosa dicevano.
– La malattia l'ha salvata dal disonore, perchè i carnefici sono timidi, disse il giovane. Ursus e Glauco, il medico, la vegliano giorno e notte.
– I carcerieri sono ancora quelli?
– Sì, ed ella è nella loro stanza. Tutti gli altri prigionieri nel carcere sotterraneo muoiono di febbre o soffocati dall'aria nauseabonda.
– Il nobile Vinicio mi conosce. Sono il figlio della vedova presso la quale era Licia.
– E sei cristiano?
Il giovine interrogò cogli occhî Vinicio, ma vedendolo assorto nella preghiera, alzò la testa e rispose:
– Sì.
– Come hai tu potuto entrare liberamente nel carcere?
– Mi hanno preso come portatore di cadaveri; così ho potuto aiutare i miei fratelli e comunicare loro le notizie cittadine.
Petronio guardò attentamente la bella faccia del giovine, coi suoi occhî azzurri e la sua capigliatura nera e folta.
– Di che paese sei, giovinotto?gli domandò.
– Ti piacerebbe veder Licia libera?
– Sì, anche se dovessi poi morire.
Vinicio cessò di pregare e disse:
– Dì alle guardie di metterla nella cassa come se fosse morta. Tu troverai qualcuno che ti aiuti a portarla fuori di notte. Vicino alle «fosse putride» saranno persone colla lettiga ad aspettarvi. A loro consegnerete la cassa. Prometti alle guardie, da parte mia, tanto oro quanto ciascuno può portarne nel proprio mantello.
Mentre parlava, la sua faccia perdeva quell'apatia che gli era divenuta abituale, e in lui si risvegliava il soldato al quale la speranza aveva ridata l'energia di prima.
Nazario ebbe un impeto di gioia e levando le mani esclamò:
– Cristo le renda la salute, perchè essa sarà libera.
– Credi tu che le guardie consentiranno? domandò Petronio.
– Essi, signore? Certo, purchè sappiano di non correr pericolo di essere puniti.
– Le guardie avrebbero consentito alla sua fuga; tanto più consentiranno a lasciarcela portar fuori come cadavere, disse Vinicio.
– È vero che vi è un uomo disse Nazario, che applica ai corpi un ferro rovente per assicurarsi che portiamo fuori dei cadaveri. Ma si contenterà anche di pochi sesterzi per non toccare la faccia della morta. Per una moneta d'oro l'applicherà alla cassa invece che al corpo.
Digli che ne avrà una berretta piena, disse Petronio. Ma non puoi tu procurarti persone veramente sicure che ti aiutino?
– Posso trovare individui che venderebbero le loro mogli e i loro figli per del denaro.
– Nella stessa prigione o in città. Una volta che le guardie siano pagate, lascieranno passare chi mi piace.
– In questo caso prenderai me come uno degli uomini pagati, disse Vinicio.
Petronio gli si oppose seriamente.
– I pretoriani potrebbero riconoscerti anche travestito e tutto sarebbe perduto. Tu non devi andare nè alla prigione, nè alle «fosse putride.» Tutti, Cesare e Tigellino compresi, devono essere convinti che ella è morta; altrimenti ordinerebbero subito di cercarla. Solo in questo modo possiamo allontanar il sospetto. Quando ella sarà condotta ai monti Albani o più lontano, in Sicilia, noi saremo in Roma. Una settimana o due dopo tu ti darai ammalato e farai chiamare il medico di Nerone; egli ti dirà di andare ai monti. Tu e lei vi incontrerete e poi...
Si fermò a pensarci un momento, quindi, agitando la mano, disse:
– Possono venire altri tempi.
– Cristo abbia misericordia di lei, disse Vinicio. Tu parli di Sicilia, mentre ella è ammalata e può morire.
– Prima teniamola vicina a Roma. L'aria le ridarà la salute, solo che si riesca a strapparla dalla segreta. Non hai tu in montagna qualche fattore del quale tu possa essere sicuro?
– L'ho, rispose subito Vinicio. Vicino a Corioli è un uomo del quale mi posso fidare; egli mi ha portato nelle braccia quand'ero piccino e mi vuol bene ancora.
– Scrivigli che venga domani, disse Petronio, passando a Vinicio la tavoletta. Gli manderò un corriere all'istante.
Chiamò il capo dell'Atrio e diede gli ordini necessarî. Pochi minuti dopo uno schiavo a cavallo correva nella notte verso Corioli.
– Mi sarebbe caro che Ursus l'accompagnasse, disse Vinicio. Ne sarei più tranquillo.
– Signore, disse Nazario, egli è un uomo di una forza sovrumana; può rompere la inferriata e seguirla. Vi è una finestra sul precipizio di un'alta roccia, dove non vi è guardia. Porterò a Ursus una fune, al resto penserà lui.
– Per Ercole! disse Petronio, lasciamolo uscire come gli piace, ma non al tempo stesso di Licia e non due o tre giorni più tardi, perchè gli si terrebbe dietro e si scoprirebbe il di lei nascondiglio. Per Ercole! Volete rovinare lei e voi stessi? Vi proibisco di parlargli di Corioli, o me ne lavo le mani.
Entrambi riconobbero la prudenza delle sue parole e rimasero silenziosi. Nazario se ne andò, promettendo di ritornare all'aurora dell'indomani.
Egli sperava di mettersi d'accordo colle guardie nella notte, ma prima voleva vedere la madre, la quale, in tempi tanto spaventevoli, non poteva aver requie per il suo figliuolo assente. Dopo averci pensato un poco, concluse ch'era meglio corrompere uno fra i suoi compagni portatori di cadaveri.
Mentre se ne andava, si fermò, trasse in disparte Vinicio e gli bisbigliò all'orecchio:
– Non parlerò del progetto neppure a mia madre, ma dirò tutto all'Apostolo, il quale ha promesso di andare a casa mia dopo l'anfiteatro.
– Qui puoi parlare liberamente, rispose Vinicio. L'Apostolo era nell'anfiteatro colla gente di Petronio. Ma verrò io stesso con te.
Ordinò che gli si portasse il mantello di uno schiavo e uscirono. Petronio trasse un profondo sospiro.
– Avrei preferito ch'ella fosse morta di febbre, diceva a sè stesso, perchè ciò sarebbe stato meno spaventevole per Vinicio. Ma ora sono pronto a offerire un tripode d'oro a Esculapio per la sua salute. Ah, Barbadibronzo, tu hai voglia di convertire le torture di un amante in uno spettacolo; tu, Augusta, gelosa della bellezza della fanciulla, vorresti divorarla viva perchè il tuo Rufio è stato ucciso; tu, Tigellino, vorresti distruggerla per far dispetto a me! Vedremo! Io vi dico che i vostri occhî non la vedranno nell'arena, perchè o ella morrà di morte naturale o ve la strapperò come la strapperei dalle fauci dei cani, e in un modo che non lo saprete. E dopo, tutte le volte che vi vedrò, dirò di voi: «Questi sono gli stolti, ai quali Caio Petronio l'ha fatta.»
Contento di sè, andò al triclinio, dove sedette a cena con Eunice. Durante il pasto il lettore lesse loro gli Idillî di Teocrito. Di fuori il vento spingeva nubi dal Soracte e un temporale improvviso ruppe il silenzio della calma d'estate. Di tanto in tanto il lampo riverberava dai sette colli, mentre essi, l'una colla testa sul petto dell'altro, ascoltavano il poeta bucolico che nel dialetto dorico celebrava gli amori pastorali. Più tardi, colla mente tranquilla, si preparavano al dolce sonno.
Ma prima di coricarsi, Vinicio era di ritorno. E Petronio, saputolo, gli andò incontro.
– Ebbene? Vi siete messi d'accordo su qualche cosa di nuovo? gli domandò Petronio. È Nazario andato alla prigione?
– Sì, rispose il giovine ravviandosi i capelli bagnati dalla pioggia. Nazario è andato ad accordarsi colle guardie carcerarie, ed io ho veduto Pietro, il quale mi ha ingiunto di pregare e credere.
– Ciò è bene. Se tutto va secondo i nostri desiderî, potremo portarla via domani sera.
– Il mio fattore sarà qui all'alba con degli uomini.
– La via è breve. Ora va a riposarti.
Vinicio s'inginocchio invece nel cubicolo e pregò.
All'aurora giunse da Corioli Nigro, il fattore, colle mule, con una lettiga e con quattro uomini fidati, scelti fra gli schiavi britanni, e lasciati in un'osteria della Suburra per non dare nell'occhio a nessuno. Vinicio, che aveva vegliato tutta notte, gli andò incontro. Nigro, non appena vide il giovine padrone, gli baciò le mani e gli occhî e disse:
– Mio caro, tu sei ammalato, o i patimenti ti hanno assorbito tutto il sangue della faccia, perchè ho fatto fatica a riconoscerti a prima vista.
Vinicio lo condusse nell'interno del colonnato, e ivi gli fece la confidenza. Nigro ascoltò con attenzione e sulla sua faccia asciutta e bruciata dal sole si dipinse una profonda emozione che egli non cercò di nascondere.
– Allora ella è cristiana? sclamò Nigro fissando gli occhî su Vinicio.
Questi evidentemente indovinò la sorpresa del contadino e rispose:
Le lacrime luccicarono negli occhî di Nigro. Rimase silenzioso per un po' e poi, alzando le mani, disse:
– Ti ringrazio, o Cristo, per avere tolta la benda agli occhî che mi sono più cari sulla terra!
Poi si prese la testa di Vinicio tra le mani e, piangendo dalla gioia, si mise a baciarne la fronte. Più tardi comparve Petronio con Nazario.
– Buone nuove! gridò egli mentre era ancora distante.
Le notizie erano davvero buone. Prima di tutto Glauco, il medico, assicurava la guarigione di Licia, benchè ella fosse affetta dalla stessa febbre per cui nella Tullianum e in altre prigioni morivano a centinaia ogni giorno. In quanto alle guardie e all'uomo che applicava il ferro rovente sui morti, non c'era difficoltà alcuna. L'aiutante Ati era pure contento.
– Abbiamo fatto dei buchi nella cassa per lasciarla respirare, disse Nazario. Il solo pericolo è ch'ella parli o si lamenti mentre passeremo tra i pretoriani. Ma ella è debolissima ed è rimasta cogli occhî chiusi da stamane. Inoltre Glauco le darà una bevanda preparata da lui che la farà dormire. Il coperchio non sarà inchiodato, così che potrete sollevarlo facilmente e portare l'ammalata nella lettiga. Noi metteremo al suo posto nella bara un sacco di sabbia che voi ci procurerete.
Vinicio nell'ascoltare queste parole era bianco come un lenzuolo; ma ascoltava con tale attenzione che pareva indovinare ciò che Nazario stava dicendo.
– Si porteranno fuori degli altri cadaveri dal carcere? domandò Petronio.
– La scorsa notte ne sono morti circa venti; e prima di sera ce ne saranno degli altri, rispose il giovine. Noi vi dobbiamo andare coll'intero convoglio, ma indugeremo, e adagio adagio rimarremo alla coda. Al primo angolo il mio compagno fingerà di azzopparsi, e in questo modo rimarremo indietro di molto. Voi ci aspetterete al piccolo tempio di Libitina. Che Dio ci dia una notte nera come la fuliggine!
– Ce la darà, disse Nigro. Ieri sera era limpido e poi scoppiò il temporale. Oggi il cielo è chiaro, ma il caldo è soffocante. Per un pezzo avremo ogni notte vento e pioggia.
– Vi andrete senza torce? domandò Vinicio.
– Le torce ci precederanno. A ogni modo, venuta la sera, siate vicino al tempio di Libitina, quantunque di solito non incominciamo a trasportare i cadaveri che verso mezzanotte.
Tacquero. Non si udiva che l'alito affannoso di Vinicio. Petronio si volse a lui.
– Ho detto ieri che avremmo fatto bene a stare a casa entrambi. Ma vedo ora che ciò non mi sarebbe possibile. Se si trattasse di una fuga, sarebbe necessaria la più grande precauzione; ma dal momento, ch'ella verrà portata fuori come cadavere, mi pare che in nessuno sorgerà alcun sospetto.
– Hai ragione, hai ragione, rispose Vinicio. Io devo esservi. La toglierò dalla bara io stesso.
– Una volta ch'ella sarà nella mia casa, a Corioli, ne risponderò io, disse, Nigro.
Qui ebbe fine la discussione. Nigro ritornò ai suoi uomini all'osteria. Nazario si mise una borsa d'oro sotto la tunica e andò al carcere. Per Vinicio incominciò un giorno pieno di ansie, di agitazioni, di inquietudini, di speranze.
– La cosa deve riuscire, perchè è bene ideata, disse Petronio. Non si poteva scegliere meglio. Tu devi fingerti sofferente e indossare una toga oscura. Non abbandonare l'anfiteatro. Che la gente ti veda. Tutto è stabilito in un modo che non ci può essere insuccesso. Dimmi, sei tu perfettamente sicuro del tuo fattore?
– Egli è un cristiano, rispose Vinicio.
Petronio lo guardò sorpreso, scrollò le spalle e disse come se parlasse a sè stesso:
– Per Polluce! come si è diffusa questa dottrina e come si impadronisce delle anime del popolo! Collo spavento che esiste, gli individui rinuncerebbero senza esitazione a tutti gli dèi di Roma, della Grecia e d'Egitto. È maraviglioso. Per Polluce! Se credessi che qualche cosa dipendesse dai nostri dèi, sacrificherei sei buoi bianchi a ciascuno di loro, e dodici a Giove Capitolino. Non risparmiare promesse al tuo Cristo.
– Gli ho dato l'anima mia, disse Vinicio.
E si separarono. Petronio ritornò al suo cubicolo, ma Vinicio andò a vedere la prigione in lontananza, e poi si recò sul pendio del Colle Vaticano, alla capanna del cavatore, dove egli era stato battezzato dall'Apostolo. Gli sembrava che Cristo lo avrebbe ascoltato più prestamente in quel luogo così che quando vi giunse si gettò sulle ginocchia e si abbandonò con tutta la sua anima trambasciata alla preghiera e con tanto trasporto che non si ricordava più nè dove era, nè che cosa stava facendo. Nel pomeriggio egli fu richiamato alla realtà della vita dagli squilli delle trombe che venivano dalla parte del Circo di Nerone. Uscì dalla capanna e girò gli occhî smarriti come se si fosse appena destato dal sonno.
Faceva caldo; la quiete veniva interrotta a intervalli dal suono degli strumenti d'ottone e dall'incessante ronzio delle cicale. L'aria era divenuta soffocante, il cielo nella città era ancora chiaro, ma nuvoloni oscuri andavano addensandosi al margine dell'orizzonte vicino ai colli Sabini.
Vinicio ritornò a casa. Petronio lo aspettava nell'atrio.
– Sono stato al Palatino, diss'egli. Mi vi sono fatto vedere a bella posta e ho giocato anche ai dadi. Stasera vi è banchetto a casa di Anicio; ho promesso di andarvi dopo mezzanotte, dicendo che dovevo dormire prima di quell'ora. Vi sarò senza dubbio e sarebbe bene che tu pure vi venissi.
– Vi sono nuove di Nigro e di Nazario? domandò Vinicio.
– Noi li vedremo a mezzanotte. Hai notato che si avanza il temporale?
– Sì.
– Domani vi deve essere un'esposizione di cristiani crocifissi; ma può darsi che la pioggia ne impedisca lo spettacolo.
Poi, si trasse più vicino al nipote e toccandogli la spalla aggiunse:
– Ma tu non la vedrai sulla croce; tu la vedrai, solo a Corioli. Per Castore! Non darei il momento in cui la salveremo per tutte le gemme di Roma. La sera si avvicina.
E in verità la sera si avvicinava e l'oscurità incominciava a circondare la città più presto del solito, per le nubi che avevano coperto l'intero orizzonte. Colla sera discendeva una pioggia dirotta che sollevava dalle pietre infocate dalla canicola del giorno un vapore che riempiva le vie cittadine di nebbia. Dopo un momento di sosta cadde un violento acquazzone che durò poco.
– Facciamo presto! disse alla fine Vinicio, perchè col temporale possono incominciare il trasporto dei morti prima degli altri giorni.
E indossati i mantelli gallici col cappuccio, uscirono dalla porta del giardino. Petronio si era armato del breve coltello romano, chiamato sicca, ch'egli aveva l'abitudine di prendere in tutte le escursioni notturne.
La città era deserta per il temporale. I lampi di tanto in tanto squarciavano le nubi e illuminavano colle irruzioni di luce le muraglie delle case appena fabbricate e in costruzione e le pietre bagnate che lastricavano la via. Finalmente il folgore di un lampo fece loro vedere, dopo un cammino piuttosto lungo, il monticino sul quale stava il piccolo tempio di Libitina, ed ai piedi di esso un gruppo di muli e di cavalli.
– Nigro? chiamò sommessamente Vinicio.
– Eccomi, signore, rispose una voce nella pioggia.
– È pronto ogni cosa?
– Sissignore. Siamo qui dal principio della sera. Riparatevi sotto il terrapieno, se non volete inzupparvi. Che temporale! Credo che avremo la grandine.
Infatti il timore di Nigro era giustificato, perchè subito dopo incominciò a grandinare; in sulle prime era sottile, poi più grossa e più frequente. L'aria si fece immediatamente fredda. Rifugiati sotto il terrapieno, fuori dal vento e dalla grandine, si misero a discorrere sottovoce.
– Anche se qualcuno ci vedesse, non sospetterebbe di nulla. Abbiamo l'aria di gente che aspetta che passi il temporale. Ma ho paura che non escano coi cadaveri prima dell'aurora.
– La tempesta non durerà molto, disse Petronio. Noi dobbiamo aspettare anche fino allo spuntar del giorno.
Aspettavano coll'orecchio teso per udire i passi del corteo funebre. Passata la tempesta si riversò una pioggia torrenziale. A intervalli, sbuffate di vento portavano loro dalle fosse putride un odore pestilenziale di corpi in putrefazione, seppelliti malamente vicino alla superficie.
– Vedo un lume nella nebbia, disse Nigro, ne vedo uno, due, tre... Sono torce. Badate che le mule non abbiano a sbuffare, diss'egli volgendosi agli uomini.
Le luci si facevano sempre più distinte. Poco dopo si potevano vedere le torce sotto le fiamme che vacillavano.
Nigro si fece il segno della croce e incominciò a pregare.
Intanto il lugubre convoglio si avvicinava e giunto dinanzi al tempio di Libitina fece sosta. Petronio, Vinicio e Nigro si appiattarono sotto il terrapieno, rattenendo il respiro, non sapendo il perchè della fermata. Ma gli uomini si erano fermati solo per coprirsi la bocca e la faccia, ed evitare così le esalazioni pestifere, le quali in vicinanza delle fosse diventano intollerabili; poi risollevarono le bare e ripresero il cammino. Solo una cassa rimase dinanzi al tempio. Vinicio si slanciò verso essa e dietro lui Peronio, Nigro e i due schiavi britanni colla lettiga.
Ma prima che vi fossero vicini si sentì nel buio la voce straziante di Nazario:
– Signore l'hanno trasferita con Ursus alla prigione dell'Esquilino. Noi portiamo un altro corpo. L'hanno condotta via prima di mezzanotte.
Petronio, ritornato a casa, era tetro come una tempesta, e non cercò neppure di consolare Vinicio. Capiva che non c'era neppure da pensare di liberar Licia dai sotterranei dell'Esquilino.
Si diceva che probabilmente ella era stata tolta dal Tulliano per non lasciarla morire dalla febbre e sfuggire al martirio dell'anfiteatro. Questo voleva dire ch'ella era vegliata e custodita più attentamente degli altri. Dal fondo dell'anima Petronio era dolente per lei e per Vinicio, ma si sentiva pure ferito al pensiero che per la prima volta in vita sua non era riuscito, e per la prima volta era stato vinto in una lotta.
– Pare che la fortuna stia per abbandonarmi, disse a sè stesso, ma gli dèi si sbagliano se pensano che io accetterò un'esistenza come la sua, per esempio!
Si volse a Vinicio, il quale lo guardava con occhî vitrei.
– Che cos'hai? Tu hai la febbre, disse Petronio.
Vinicio rispose con una voce strana, rotta, balbettante come quella di un fanciullo ammalato:
– Ma io credo che Egli me la può restituire.
Sulla città erano cessati gli ultimi tuoni della tempesta.