Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO LVII.

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CAPITOLO LVII.

 

Tre giorni consecutivi di pioggia e di grandine, cosa tutt'affatto eccezionale, d'estate, a Roma, interruppero gli spettacoli. Il popolo incominciò a inquietarsi e a temere per la vendemmia, e quando, in un pomeriggio, un fulmine liquefò la statua di bronzo di Cerere al Campidoglio, si indissero sagrifici al santuario di Giove Liberatore. I sacerdoti di Cerere avevano sparsa la voce che la collera degli dèi si era rovesciata sulla città per la troppa lentezza nel punire i cristiani; la folla allora incominciò a domandare con insistenza che gli spettacoli venissero continuati senza badare al tempo, e la gioia si diffuse per tutta Roma non appena si annunciò che i ludi sarebbero stati ripresi dopo i tre giorni d'intervallo.

Il tempo era ridivenuto bello. L'anfiteatro venne invaso da migliaia di persone allo spuntar del giorno. Cesare vi andò presto colle vestali e la Corte. Lo spettacolo doveva incominciare con una lotta tra cristiani e cristiani, i quali, questa volta, erano vestiti da gladiatori e provveduti di tutte le armi che i gladiatori di professione adoperavano per la lotta d'attacco e di difesa. L'illusione non durò molto. I cristiani gettarono nell'arena le reti, i dardi, i tridenti e le spade e s'abbracciarono, incoraggiandosi l'un l'altro a sostenere impavidamente il martirio e la morte. A questa resistenza scoppiò l'indignazione delle moltitudini e il risentimento fu nel cuore di tutti gli spettatori. Alcuni accusavano i cristiani di pusillanimità e di vigliaccheria, altri asserivano che rifiutavano di darsi alla lotta per l'odio che nutrivano contro il popolo, e per privarlo del piacere che ciascuno prova a vedere gli atti di coraggio.

Alla fine, per ordine dell'imperatore, vennero fatti scendere nell'arena dei veri gladiatori, i quali in un batter d'occhio finirono tutte queste vittime in ginocchio e senza resistenza.

Si portarono via i cadaveri e si riprese la rappresentazione con una serie di quadri mitologici, un'idea uscita dalla testa di Cesare. Il pubblico vide un cristiano che figurava Ercole che consumava in mezzo alle fiamme sul monte Eta. Vinicio tremò al pensiero che il còmpito di rappresentare Ercole fosse toccato a Ursus; ma evidentemente la volta del fedele servo di non era venuta, perchè sul rogo era un altro cristiano che ardeva, un uomo sconosciuto a Vinicio. Al secondo quadro, Chilone, che Cesare non volle esonerare dallo spettacolo, vide delle conoscenze. La scena rappresentava la morte di Dedalo e di Icaro. Faceva da Dedalo Euricio, il vecchio che aveva dato a Chilone il significato del pesce, e da Icaro, suo figlio, Quarto. Con dei mezzi meccanici ingegnosi vennero sollevati ad un'altezza vertiginosa e poi lanciati violentemente nel mezzo dell'arena. Il giovine Quarto cadde così vicino al podio di Cesare, che il sangue schizzò non solo sugli ornamenti esterni, ma anche sulla porpora che penzolava dal podio. Chilone chiuse gli occhî per non vedere la caduta; ma sentì il tonfo dei corpi pesanti, e quando, poco dopo, vide del sangue vicino a lui, fu li per smarrire i sensi una seconda volta.

I quadri si succedevano sollecitamente. I vergognosi tormenti delle fanciulle, violate prima della morte dai gladiatori vestiti da belve feroci, deliziarono i cuori della plebe. Si vedevano le sacerdotesse di Cibele e di Cerere, le Danaidi, Dirce e Pasifae; e finalmente giovinette fatte a pezzi dai cavalli selvaggi. A ogni momento le folle applaudivano alle invenzioni di Nerone, il quale, superbo dell'approvazione unanime, non si tolse mai dall'occhio lo smeraldo per vedere i corpi candidi lacerati dal ferro e agitati dai trasalimenti convulsivi.

Si passò ai quadri storici della città. Dopo le fanciulle cristiane si vide Muzio Scevola, la cui mano sul fuoco, legata al tripode, sperdeva per l'anfiteatro l'odore della carne bruciata. Ma quest'uomo, come il vero Scevola, vi rimase senza un gemito, cogli occhî al cielo, mormorante la preghiera colle labbra annerite. Spirato e trascinato allo spoliarium seguì il solito intervallo del mezzogiorno.

Cesare, colle vestali e gli augustiani, lasciò l'anfiteatro e si ritirò sotto un'immensa tenda scarlatta eretta per l'avvenimento, ove era preparato un sontuoso pranzo.

La maggior parte degli spettatori seguirono l'esempio dell'imperatore, uscendo come una fiumana, disponendosi in gruppi pittoreschi intorno alla tenda, a rinvigorire le loro stanche membra state inerte troppo a lungo, e a godere dei cibi che la bontà di Cesare faceva distribuir loro dagli schiavi.

Solo i più curiosi discendevano nell'arena e toccavano colle dita i pezzi di sabbia ingrumati di sangue, chiacchierando, come specialisti e dilettanti, di ciò che era avvenuto e di ciò che stava per avvenire. Tosto anche costoro andarono via, per paura di arrivare tardi al banchetto; vi rimasero soli i pochi che simpatizzavano per le future vittime. Costoro si celarono dietro i posti o nei luoghi più vicini agli spettacoli.

Intanto la sabbia dell'arena era stata livellata e gli schiavi incominciarono a scavare buchi uno vicino all'altro, in file parallele per il circuito, così che l'ultima fila giungesse a pochi passi dal podium cesareo. Dal di fuori giungevano il murmure, le grida e il battimano del popolo, mentre di dentro si preparavano in tutta fretta nuovi tormenti. Di a poco s'apersero i cuniculi e da tutte le aperture conducenti al Circo vennero spinti innanzi moltitudini di cristiani nudi portanti le croci sulle spalle. Tutta l'arena ne fu piena.

Si vedevano dei vecchî curvati sotto il peso delle travi incrociate, dei giovani nella vigorìa della vita, delle donne che cercavano di nascondere la nudità coi loro capelli disciolti, dei ragazzi e dei bimbi. Quasi tutte le croci, come le vittime, erano inghirlandate di fiori. Il personale del Circo li mandava innanzi a colpi di bastone, e li costringeva a deporre le croci vicino ai buchi preparati e a mettersi in fila al loro fianco. Era così che dovevano perire coloro che i carnefici non avevano potuto dare in pasto ai cani e alle belve feroci nel primo giorno degli spettacoli. Gli schiavi neri si impadronirono delle vittime, le rovesciarono supine sulla croce di legno e precipitosamente si misero a inchiodare loro le mani alle braccia delle croci perchè il popolo, rientrando dopo l'intervallo, le trovasse tutte fisse in piedi. Il rumore dei martelli risuonava per l'intero anfiteatro e si ripercuoteva all'esterno e fin sotto la tenda di Nerone, che banchettava colle vestali e col seguito. Cesare vuotava calici, diceva delle facezie con Chilone, lasciava cadere delle parole equivoche nelle orecchie delle sacerdotesse di Vesta, mentre nell’arena ferveva il lavoro e i chiodi entravano nelle mani e nei piedi dei cristiani, e le pale riempivano colla massima prestezza i buchi nei quali erano state piantate le croci.

Tra le nuove vittime che aspettavano il loro turno era Crispo. I leoni non avevano avuto tempo di sbranarlo, perciò era stato destinato alla croce. Egli, pronto a morire a ogni momento, era lieto che la sua ora fosse vicina. Pareva un altro uomo. Il suo corpo, completamente nudo, era una carcassa cinta ai lombi di edera, con una ghirlanda di rose sulla testa, ma nei suoi occhî brillava sempre la stessa inesauribile energia e disotto alla corona di rose spiccava la stessa faccia austera e fanatica. il suo cuore aveva cambiato; perchè, come una volta nel cuniculum egli aveva minacciato i fratelli cuciti nelle pelli delle bestie feroci, così oggi la sua voce li terrorizzava invece di consolarli.

Ringraziate il Redentore, diceva Crispo, che vi permette di morire della stessa sua morte. Può darsi per questo che parte dei vostri peccati vi siano perdonati; ma tremate perchè la giustizia deve avere il suo corso, e lassù non vi può essere premio per i buoni e per i cattivi.

Le sue parole erano accompagnate dal rumore dei martelli che inchiodavano le mani e i piedi delle vittime,

A ogni momento si drizzavano in piedi altre croci; ma lui, volto a coloro che aspettavano a fianco della croce di essere inchiodati, continuò:

Vedo il cielo aperto, ma vedo anche l'abisso spalancato. Non so quale conto dare della mia vita al Signore, benchè io abbia sempre odiato il male. Non ho paura della morte, ma della risurrezione, non ho paura dei tormenti, ma del giudizio, perchè il giorno dell'ira di Dio è vicino.

In quell'istante si udì tra le file più vicine una voce solenne e calma che disse:

– Non il giorno dell'ira, ma della misericordia, il giorno della salvazione e della felicità perchè io dico che Cristo vi raccoglierà, vi consolerà e vi farà sedere alla sua destra. Abbiate fiducia perchè il cielo vi è aperto.

A queste parole tutti si volsero; anche coloro che erano appesi alle croci, alzarono le loro facce pallide e contorte dagli spasimi, e guardarono in viso l'uomo che aveva parlato.

E questi, accostatosi fin presso allo steccato, li benedì col segno della croce.

Crispo tese il suo braccio come per fulminarlo; ma quando vide la faccia dell'uomo, lasciò cadere la mano, le ginocchia piegarono sotto di lui, e le sue labbra bisbigliarono:

Paolo, l'Apostolo!

Con grande sorpresa dei lavoratori del Circo, tutti quelli che non erano ancora inchiodati alla croce s'inginocchiarono. Paolo si volse a Crispo e disse:

– Non minacciarli, Crispo, perchè quest'oggi saranno con te in paradiso. Tu pensi che possano essere condannati.. E chi vorrà condannarli? Dio che ha dato per loro suo figlio? Cristo, morto per la loro salvazione, vorrà condannarli quando muoiono per il suo nome? E come è mai possibile che Colui che ama condanni? Chi accuserà gli eletti di Dio? Chi dirà di questo sangue: è maledetto?

– Ho odiato il male, disse il vecchio prete.

– L'ordine di Cristo di amare gli uomini fu più alto di quello di odiare il male, perchè la sua religione non è odio, ma amore.

– Ho peccato nell'ora della morte, rispose Crispo, battendosi il petto.

Il direttore dei seggi si avvicinò all'Apostolo e domandò:

– Chi sei tu che parli ai condannati?

– Un cittadino romano, rispose tranquillamente Paolo.

Poi rivoltosi a Crispo, aggiunse:

– Abbi fiducia, perchè oggi è giorno di grazia; muori in pace: o servo di Dio.

I negri si avvicinarono a Crispo e lo sdraiarono sulla croce; egli girò gli occhî intorno un'altra volta, gridando:

Fratelli, pregate per me!

La sua faccia aveva perduto la solita durezza, e le sue linee inflessibili assunsero un'espressione di pace e di dolcezza. Allargò lui stesso le braccia sulla croce per rendere agli uomini il lavoro più facile, e guardando direttamente in cielo, si mise a pregare con fervore. Pareva che non sentisse nulla; i chiodi passavano per le sue mani senza che corresse un brivido per il suo corpo; e neppure sul suo volto apparve la contrazione della sofferenza. Pregava quando rizzavano la croce e quando calpestavano la terra che doveva tenerla in piedi. Solo quando la plebe incominciò a riempire l'anfiteatro con delle grida e delle risate, gli si corrugò la fronte come se fosse irritato che un popolo pagano disturbasse la pace e la tranquillità di una dolce morte.

Tutte le croci erano state drizzate e l'arena dava l'idea di una foresta colla gente appesa agli alberi. Sulle braccia delle croci e sulle teste dei martiri cadevano i raggi del sole, mentre nell'arena l'oscurità profonda formava una specie di grata, attraverso la quale riluceva la sabbia gialla. Era uno spettacolo in cui il piacere raffinato del pubblico consisteva nel seguire il progresso della lenta agonia. Nessuno aveva mai visto prima un affollamento di tante croci e il personale del Circo non poteva passare tra l'una e l'altra che assottigliandosi. Alle estremità erano in maggioranza le donne: ma Crispo, come capo, era stato drizzato di fronte al podium, imperiale, su una croce enorme, attorcigliata alla base di caprifoglio. Nessuna delle vittime era ancora morta, ma alcune tra le prime messe in croce erano svenute.

Tuttavia non una si lamentava o implorava la misericordia. Alcune, colla testa sul braccio o sul petto, parevano addormentate o meditabonde; altre, cogli occhî verso il cielo, con un leggiero movimento delle labbra, pregavano. In questa terribile foresta di croci, fra tutta quella gente crocifissa, nel silenzio di tante vittime, c'era qualche cosa che prediceva male.

Il pubblico, sazio del banchetto, era rientrato nel Circo coi clamori della gente allegra; ma ora era taciturno, non sapendo su quale figura appesa fermarsi cogli occhî o che cosa pensare dello spettacolo. La nudità dei corpi contorti delle donne non suscitava compassione.

Non scommettevano neppure sul primo dei crocifissi che sarebbe morto, una cosa abituale che si faceva anche quando c'era un numero esiguo di condannati nell'Arena.

Pareva che lo stesso Cesare ne fosse annoiato, perchè egli si volse svogliatamente con una faccia d'addormentato ad accomodarsi il suo collare d'oro.

In quel momento Crispo che gli stava appeso di fronte, e che fino allora era rimasto colle palpebre chiuse come uno che avesse perduto i sensi o fosse morente, aperse gli occhî e li fissò su Cesare. La faccia di Crispo assunse un'espressione così spietata e gli occhî gli si illuminarono di tanto sdegno, che gli augustiani se lo mostravano a dito, parlando a voce bassa, e Nerone stesso alla fine si volgeva alla croce e si metteva indolentemente lo smeraldo all'occhio.

Tutto l'anfiteatro rimase silenzioso. Gli occhî degli spettatori erano su Crispo, il quale faceva lo sforzo di muovere la mano destra, come per strapparla dalla croce.

Poco dopo gli si gonfiò il petto, le sue costole divennero visibili e scoppiò in un grido:

Matricida! guai a te!

I cortigiani, udendo l'insulto mortale lanciato al padrone del mondo alla presenza del suo popolo, non osarono fiatare.

Chilone era mezzo morto. Cesare tremava e si lasciò cadere lo smeraldo dalle mani. La massa del pubblico tratteneva persino il respiro. La voce di Crispo divenne più potente e si fece udire in tutto l'anfiteatro:

– Che la maledizione cada su te, assassino di tua moglie e di tuo fratello! guai a te, anticristo! L'abisso ti è aperto sotto i piedi, la morte allunga le sue mani per ghermirti e la tomba ti aspetta. Sventura a te, cadavere vivente, perchè tu morrai di terrore e sarai dannato in eterno!

Incapace di strappare la mano dalla croce, Crispo si drizzò spaventevolmente.

Egli era terribile, simile a uno scheletro animato; inflessibile come il destino, scosse la sua barba bianca verso il podio di Nerone, spargendo, collo scotimento, le foglie delle rose della ghirlanda sulla sua testa.

Sventura a te, assassino! La tua misura è colma, e la tua ora è vicina!

Qui egli fece un altro sforzo supremo. Parve per un momento ch'egli volesse staccare la mano dalla croce per agitarla minacciosa contro Cesare; ma ad un tratto le sue braccia scarne si stiracchiarono una volta ancora, il suo corpo s'irrigidì tranquillamente, la sua testa cadde sul petto... Era morto.

Nella selva delle croci, i più deboli tra le vittime incominciavano pure ad addormentarsi nel sonno eterno.

 

 


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