Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO LIX.

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CAPITOLO LIX.

 

Da qualche tempo Vinicio spendeva le sue notti fuori di casa. Petronio supponeva che probabilmente egli aveva concepito un altro progetto e stava lavorando per liberare Licia dal sotterraneo dell'Esquilino. Non lo interrogava per timore di portargli sfortuna. Lo scettico elegante era divenuto in un certo modo superstizioso.

Egli non era riuscito a strapparla dal carcere Mamertino e per questo egli aveva cessato di credere nella sua stella.

Inoltre egli non credeva questa volta che riuscissero a qualche cosa di buono gli sforzi di Vinicio. La prigione dell'Esquilino, fatta su in fretta e in furia cogli avanzi delle case demolite per spegnere l'incendio, non era davvero tanto formidabile come la vecchia Tullianum vicino al Campidoglio, ma era cento volte assai meglio custodita. Petronio era sicuro che Licia vi era stata condotta non per essere sottratta alla morte, ma perchè ella non sfuggisse all'anfiteatro. Capiva subito che questa era la ragione per cui la si guardava come la pupilla dell'occhio.

– Senza dubbio, diceva a stesso, Cesare e Tigellino l'hanno destinata a qualche spettacolo straordinario, più orribile di tutti gli altri, e Vinicio riuscirà piuttosto a perdere stesso che non a salvarla.

Anche Vinicio aveva perduto ogni speranza di poterla liberare. Solo Cristo lo poteva. Ora il giovane tribuno non cercava altro che di vederla in prigione.

Da qualche tempo l'idea che Nazario era penetrato nel carcere Mamertino come portatore di cadaveri non gli dava pace; decise di valersi dello stesso stratagemma.

L'ispettore delle «fosse putride» si era finalmente lasciato corrompere da una somma ingente e l'aveva ammesso tra i portatori che andavano al carcere di notte a prendere i morti.

Di notte, vestito da schiavo e in mezzo alla fosca luce della prigione, c'era poco pericolo di essere conosciuto. Inoltre a chi poteva venire in mente che un patrizio, il nipote di un console e il figlio di un altro console, si potesse trovare tra i fossaiuoli, esposti ai miasmi delle prigioni e alle esalazioni fetenti delle fosse putride?

Così egli si era dato a un lavoro al quale gli uomini erano solo costretti dalla schiavitù o dal più crudele bisogno.

Venuta la tanta sospirata sera, Vinicio vestì con il camiciotto, si coperse la testa di una tela inzuppata di trementina, e col cuore agitato andò colla folla dei sotterratori all'Esquilino.

I pretoriani non fecero alcuna osservazione, perchè erano muniti tutti della tessera che il centurione esaminava alla luce della lanterna.

Un momento dopo s'apersero le pesanti porte di ferro ed entrarono.

Vinicio si trovò sotto l'ampia vòlta di un sotterraneo che metteva ad altri consimili. Ciascuno di essi, gremito di prigionieri, era rischiarato dalla luce moribonda di una lanterna. Alcuni dei carcerati giacevano lungo le muraglie, sprofondati nel sonno o forse morti.

Altri erano intorno a secchi d'acqua al centro, che bevevano come gente tormentata dalla febbre; altri ancora erano seduti sul terreno, coi gomiti alle ginocchia e la testa nelle mani; qua e si vedevano figli addormentati o nicchiati tra le braccia delle madri. Dappertutto si sentivano gemiti, respirazioni affannose, pianti, preghiere bisbigliate, inni sottovoce e imprecazioni dei sorveglianti. Dovunque esalava l'odore delle moltitudini e dei cadaveri. Dove l'oscurità era più profonda formicolavano figure tetre. Più vicino alle fiammelle tremolanti delle lanterne si vedevano visi pallidi, terrorizzati, affamati, cadaverici, con occhî spenti o illuminati dalla febbre, colle labbra paonazze, colle fronti gocciolanti di sudore, e coi capelli umidi e vischiosi. Negli angoli gli ammalati si lamentavano ad alta voce, alcuni implorando un po' d'acqua, altri di essere trascinati alla morte. E tuttavia era una prigione meno spaventevole di quella del vecchio Tullianum.

Le gambe di Vinicio si piegarono e la respirazione gli venne meno. Pensando che Licia si trovava in mezzo a tanta miseria e a tanta sventura gli si rizzarono i capelli sulla testa e dovette soffocare un grido di disperazione. L'anfiteatro, i denti delle belve feroci, le croci, tutto era meglio degli orribili sotterranei puzzolenti ed echeggianti da ogni parte del grido supplichevole:

Conduceteci alla morte!

Vinicio si cacciò le unghie nelle palme delle mani perchè sentiva che le sue forze se ne andavano col suo pensiero. Tutto ciò che aveva sentito fino allora, tutto il suo amore, tutto il suo strazio, si erano cambiati in un'immensa voglia di morire.

A questo punto s'udì la voce dell'ispettore delle «fosse putride».

– Quanti cadaveri abbiamo oggi?

– Una dozzina circa, rispose il guardiano della prigione; ma ve ne saranno di più prima che sorga il giorno; parecchî lungo le muraglie sono moribondi.

E qui prese a dolersi che le donne celassero i bimbi morti per tenerseli vicini, invece di consegnarli ai becchini per la sepoltura.

– Siamo obbligati a scoprire i cadaveri dal puzzo. Con questo sistema l'aria già velenosa diventa irrespirabile. Preferirei essere schiavo in qualche prigione rurale, piuttosto che custodire questi cani putridi anche vivi.

L'ispettore delle fosse lo consolava dicendo che anche il suo servizio non era invidiabile. Intanto Vinicio si era riavuto e si era messo a cercare invano di Licia per il sotterraneo, pieno di trepidazione di non trovarla più fra i vivi.

Una quantità di sotterranei erano stati connessi ai nuovi passaggi, così che i portatori di cadaveri non entravano che in quelli dove c'erano morti.

E Vinicio fu preso dal timore che il privilegio che si era procurato con tanta fatica non gli giovasse nulla. Fortunatamente gli venne in aiuto il suo capo.

– Più che tutto l'infezione si diffonde coi cadaveri, diss'egli. Bisogna portarli fuori subito se non si vuole morire coi prigionieri.

– In tutti i sotterranei non siamo che in dieci, disse il guardiano e dobbiamo dormire.

Lascierò quattro dei miei uomini, i quali andranno di notte per i sotterranei alla ricerca dei morti.

Domani ti compenserò per questo favore. Ci si è mandato un ordine che ogni corpo deve essere sottoposto alla prova con un buco di coltello nel collo prima di essere trasportato alle fosse.

Benissimo, domani beveremo, disse l'ispettore.

Scelse i quattro uomini, tra cui Vinicio, e agli altri ordinò di mettere i cadaveri sulla bara.

Vinicio non ebbe più apprensioni. Egli era ormai sicuro di trovare in qualche parte Licia. Il giovane tribuno si mise al lavoro nel primo sotterraneo, frugando in tutti gli angoli oscuri rischiarati dalla sua torcia. Guardava gli addormentati negli abiti ruvidi lungo le pareti a uno a uno; e vedeva che tutti gli ammalati più gravi erano stati radunati in un angolo a parte.

Ma non riuscì a trovar Licia. Nel secondo e nel terzo sotterraneo il risultato fu identico.

Intanto s'era fatto tardi; tutti i cadaveri erano stati trasportati, le guardie per i corridoî fiancheggiati dai sotterranei dormivano, e i bimbi, sfiniti dal continuo piangere, tacevano. Non si udivano che le respirazioni grevi e il mormorìo della preghiera.

Vinicio passò colla sua torcia nel quarto sotterraneo, il quale era più piccolo degli altri. Alzando la torcia incominciò a guardare, tremando subito in tutta la persona, perchè gli parve di vedere vicino all'inferriata nella muraglia la forma gigantesca di Ursus. Spense la torcia e gli si avvicinò dicendogli sottovoce:

– Sei tu, Ursus?

– Chi sei? domandò il gigante volgendo la testa.

– Non mi conosci?

– Tu hai spento la torcia, come posso conoscerti?

In questo momento Vinicio vide Licia sdraiata su un mantello lungo la parete; così, senza rispondere, si inginocchiò vicino a lei. Ursus lo riconobbe e disse:

– Sia lodato Cristo! ma non svegliarla, signore.

Vinicio, in ginocchio, la contemplava attraverso le lacrime. Malgrado il buio, egli poteva distinguere il di lei viso che gli pareva pallido come l’alabastro, e le di lei braccia ischeletrite. Vedendola in quello stato si sentì invaso da un amore che lo straziava e lo scuoteva fino in fondo all'anima, da un amore così pieno di pietà, di rispetto e di adorazione, che cadde prostrato e si diede a baciare il lembo del mantello sul quale riposava la testa che gli era tanto cara.

Ursus seguiva i movimenti di Vinicio nel silenzio, ma alla fine lo tirò per la tunica.

Signore, gli domandò, come sei entrato qui? Sei tu venuto per salvarla?

Vinicio s'alzò e rimase per un po' in preda all'emozione.

Dimmi in che modo, rispose egli.

Pensavo che tu l'avessi trovato, signore. A me non è venuta che un'idea...

Si volse verso l'inferriata, e rispondendo quasi a stesso:

In questo modo, ma di fuori vi sono i soldati.

– Cento pretoriani.

– Allora non si può passare?

– No!

Il licio si fregò la fronte e gli domandò di nuovo:

– Come sei entrato?

– Ho la tessera dell'ispettore delle fosse putride.

Vinicio si fermò come se un'idea gli fosse balenata nella testa.

– Per la Passione del Redentore, diss'egli affrettatamente, io rimarrò qui. Ch'ella prenda la mia tessera, si ravvolga il capo colla tela, si copra le spalle col mantello ed esca. Tra gli schiavi che portano fuori i cadaveri vi sono parecchî adolescenti. Perciò i pretoriani non se ne accorgeranno; e una volta ch'ella sarà alla casa di Petronio sarà salva.

Il licio si lasciò cadere la testa sul petto.

– Ti ama e non consentirà a questo sacrificio; di più ella è ammalata e incapace di stare in piedi. Se tu e il nobile Petronio non potete liberarla dalla prigione, chi vuoi che lo possa?

Cristo solo!

Entrambi rimasero silenziosi.

Cristo poteva salvare tutti i cristiani, pensava il licio nella semplicità del suo cuore; ma dal momento che Egli non li salva, è chiaro che l'ora del tormento e della morte è venuta.

Egli era pronto a morire, ma era profondamente addolorato per la fanciulla ch'era cresciuta nelle sue braccia e per la quale aveva un'affezione indicibile.

Vinicio ricadde sulle ginocchia vicino a Licia. Dall'inferriata a scacchi entravano raggi di luna che rischiaravano assai meglio della lampada che bruciava all'entrata. Licia aperse gli occhî e posando la sua mano sul braccio di Vinicio, disse:

– Ti vedo, sapevo che tu saresti venuto.

Le afferrò le mani, se le appressò alla fronte e al cuore, la rialzò dal giaciglio e se la tenne sul seno.

– Sono venuto, cara. Cristo ti custodisca e ti liberi, adorata Licia.

Non potè dir altro perchè il suo cuore incominciò a sanguinare dall'angoscia e perchè non voleva farsi vedere che soffriva.

– Sono ammalata, Marco, disse Licia, e devo morire nell'arena o in prigione; ho pregato per vederti prima di morire; tu sei venuto... Cristo mi ha esaudita.

Incapace di pronunciare una parola, se la strinse al petto ed ella continuò:

– Ti vedevo attraverso la finestra del Tullianum. Capivo che tu avevi una gran voglia di entrare a vedermi. Ora il Redentore mi ha ridonato i sensi per dirci addio per sempre. Io vado a Lui, Marco, ma ti amo e ti amerò in eterno.

Vinicio si padroneggiò, soffocò il suo tormento e parlò con una voce che cercò di rendere calma.

– No, cara, tu non morrai. L'Apostolo mi disse di credere e mi promise di pregare per te; egli conobbe Cristo. Cristo lo ama e Cristo non gli negherà la grazia. Se tu avessi dovuto morire, Pietro non mi avrebbe ingiunto di avere fede; ma egli mi ha detto: «Abbi fede!» No, Licia, Cristo avrà misericordia! Egli non vuole la tua morte e non la permetterà. Ti giuro nel nome del Redentore che Pietro prega per te.

Tacque. La lampada appesa all'entrata si spense, e il chiaror della luna entrò per tutte le aperture. Nell'angolo opposto del sotterraneo un fanciullo cessò di lamentarsi.

Non si udivano più che le voci dei pretoriani che dopo il servizio di guardia giuocavano sotto le mura del carcere alle scriptæ duodecim.

– O Marco, aggiunse Licia, Cristo stesso disse al Padre: «Toglimi l'amaro calice dalle labbra», e tuttavia, lo vuotò. Cristo è morto sulla croce e migliaia periscono per amor suo. E perchè, dimmi, dovrebbe risparmiare me sola? Chi sono io, Marco? Ho udito Pietro dire ch'egli pure sarebbe morto fra i tormenti. Chi sono io di fronte a Pietro? Quando i pretoriani vennero a prenderci ebbi paura del martirio e della morte; ma ora non li temo più. Guarda che prigione orribile; ma io vado in cielo. Pensa a questo: quaggiù è Cesare, ma lassù è il Redentore buono e pietoso. Non vi è morte lassù, Marco. Tu mi ami; pensa, allora, come sarò felice. Oh, caro Marco, pensa che mi raggiungerai in cielo!

Si fermò per aspirare un po' d'aria nel suo petto ammalato, e poi si trasse la mano di lui alle labbra.

Marco?

– Che cosa, cara?

– Non piangere per me, e ricordati di questo: che tu verrai a raggiungermi. Ho vissuto poco, ma Dio mi ha dato la tua anima; perciò io dirò a Cristo che quantunque io sia morta e tu abbia assistito al mio supplizio, e quantunque tu sia rimasto inconsolato, non hai bestemmiato contro la Sua volontà e Lo ami sempre. Continuerai ad amarlo e sopporterai pazientemente la mia morte? Perchè allora Egli ci vorrà uniti. Ti amo e voglio essere con te.

L'oppressione le tolse il respiro e potè appena dire con un filo di voce:

Promettimelo, Marco!

Vinicio se la cinse colle braccia tremanti, dicendo:

– Sul tuo capo santo, lo prometto!

Il viso di lei divenne radiante nella luce mesta della luna, e una volta ancora si trasse la mano di Vinicio alle labbra e bisbigliò:

– Sono tua moglie!

Di fuori, sotto le mura, i pretoriani che giocavano, altercavano ad alta voce; ma Vinicio e Licia dimenticavano la prigione, le guardie, il mondo, e, sentendo in le anime degli angeli, incominciarono a pregare.

 

 


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