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Le tenebre non erano ancora discese quando le prime ondate di popolo cominciavano a irrompere nei giardini imperiali. Andavano ad assistere al magnifico spettacolo negli abiti festivi, incoronati di fiori, giocondi, sgolando canzoni; non pochi di loro erano ubriachi. Le grida di semaxii! sarmentitii! echeggiavano per la via Tecta, sul ponte di Emilio e dall'altra parte del Tevere, lungo la via Trionfale, intorno al Circo di Nerone e in linea retta al colle Vaticano. In Roma non era la prima volta che si vedevano ardere le persone legate ai pali: ma nessuno aveva mai veduto un numero così grande di vittime.
Cesare e Tigellino che volevano finirla subito coi cristiani, anche per evitare l'infezione che si diffondeva sempre più per la città, avevano dato ordine di vuotare i sotterranei, così che non v'erano rimaste che poche diecine di individui destinati alla chiusura degli spettacoli.
Così le moltitudini, passati i cancelli, ammutolirono dalla meraviglia. Per tutti i viali principali e trasversali che conducevano ai folti boschetti, ai prati, agli stami, tra gli alberi, ai campi e ai quadrati pieni di fiori, erano infiniti pali impeciati, ai quali erano legati i cristiani. Nei luoghi più alti, dove gli alberi non ostruivano gli spazî, si potevano vedere tutte le file dei pali coi cristiani adorni di fiori, di mirti, di edera, che si prolungavano su e giù per luoghi tanto lontani che i più vicini sembravano alberi di navi, e i più discosti dardi colorati o bastoni piantati nel terreno. Il numero delle vittime sorpassava l'aspettazione delle masse. Si poteva credere che un'intera nazione fosse stata legata ai pali del supplizio per il divertimento di Roma e di Cesare. La folla degli spettatori si fermava dinanzi a ciascun palo ogni volta che la sua curiosità era suscitata dalla forma o dal sesso della vittima; guardava alle facce, alle corone, alle ghirlande di edera e poi tirava innanzi, domandandosi stupefatto: «Possono esserci stati tanti malfattori? E come hanno potuto i fanciulli, che a mala pena sanno camminare, mettere in fuoco Roma? E lo stupore lasciava gradatamente il posto alla paura.
La notte era calata e le prime stelle scintillavano nel cielo.
Vicino a ciascun condannato prese posto uno schiavo colla torcia in mano. Al momento in cui si udirono gli squilli di tromba come segno che lo spettacolo incominciava, ogni schiavo mise la torcia ai piedi del palo. La paglia, nascosta sotto i fiori e intinta di pece, s'incendiò immediatamente, colle vampe luminose che s'allargavano a ogni istante e avvizzivano l'edera e colle fiamme che si elevavano ad abbracciare i piedi delle vittime. Il popolo taceva e i giardini risuonavano di un immenso gemito e di grida di dolore. Ad onta degli spasimi, alcuni dei condannati levarono le facce al cielo stellato e incominciarono a cantare inni alla gloria di Cristo. Il popolo ascoltava. Ma anche i cuori più induriti erano pieni di terrore allorquando dai piccoli pali i fanciulli chiamavano con acute strida: «Mamma! mamma!» Un brivido corse anche fra gli spettatori ubriachi nel momento in cui si videro testoline e visini d'innocenti contorcersi dal tormento o fanciulli che perdevano i sensi in mezzo al fumo che li soffocava. Le fiamme salivano sempre e divoravano corone di rose fresche di edera. I viali più grandiosi, i sentieri laterali, i gruppi d'alberi, i prati verdi, i piazzali fioriti erano illuminati. L'acqua dei vivai e degli stagni luccicava e le foglie agitate degli alberi avevano assunto il colore roseo, e tutto era visibile come nella luce del giorno.
Non appena l'odore dei corpi bruciacchiati si fu diffuso pei giardini, gli schiavi spruzzarono l'aria di mirra e d'aloe preparati per correggerla. Qua e là, tra le moltitudini, si elevano grida forse di pietà, forse di meraviglia, forse di gioia, e le grida crescevano col crescere delle fiamme che s'attorcigliavano ai pali, strisciavano su per i petti delle vittime, raggiungevano i capelli col loro alito infocato, gettavano veli sulle facce annerite e poi si slanciavano più in alto, come se avessero voluto dimostrare la vittoria e il trionfo di quella forza che aveva ordinato d'incendiarla.
Proprio al principio dello spettacolo comparve Cesare tra il popolo in una splendida quadriga del Circo, tirata da quattro destrieri bianchi. Egli era vestito come un auriga in verde, il colore imperiale agli spettacoli. Tenevano dietro alla quadriga imperiale i cocchî dei cortigiani nelle brillanti livree, dei senatori, dei sacerdoti, delle baccanti, nude e incoronate di fiori, con in mano anfore di vino, parecchie mezzo ubriache che emettevano urli selvaggi. Ai lati delle baccanti c'erano suonatori abbigliati come fauni e satiri, che suonavano cetere, forminghe, flauti e corni. In altri cocchî venivano innanzi matrone e fanciulle di Roma, ubriache e mezzo nude. Intorno alla quadriga correvano uomini che agitavano i tirsi ornati di nastri; alcuni battevano il tamburo; altri spargevano fiori.
Tutto questo brillante corteggio moveva innanzi tra le grida degli «Evoè!» per il più largo viale del giardino, fra il fumo e le processioni del popolo. Cesare, tra Tigellino e Chilone, il cui terrore lo divertiva, guidava lui stesso i cavalli al passo, guardando sui corpi che bruciavano e ascoltando le grida delle moltitudini. Sull'alto cocchio dorato, circondato da un mare di gente che si prosternava ai suoi piedi, nello splendore del fuoco, con in capo l'aurea corona del vincitore del Circo, egli sovrastava ai cortigiani e alla folla. Pareva un gigante. Le sue braccia immense, allungate per tenere le redini, sembrava benedissero le moltitudini. C'era sulla sua faccia un sorriso e i suoi occhî ammiccavano; egli rifulgeva sulla massa come un sole o un nume terribile, ma maestoso e potente.
Qualche volta si soffermava a guardare con maggior agio a certe fanciulle il cui seno incominciava a raggrinzarsi nelle fiamme o al visino di un fanciullo contorto dalle convulsioni; e di nuovo riprendeva il cammino, seguìto da un corteggio turbolento ed esaltato. Sovente s'inchinava al popolo, poi si ritraeva di nuovo colle redini d'oro a parlare con Tigellino. Alla fine, giunto alla grande fontana al centro del bivio, discese dalla quadriga, fece cenno a coloro che lo accompagnavano, e si confuse colla massa.
Fu salutato dagli evviva e dal battimano. Le baccanti, le ninfe, i senatori, gli augustiani, i sacerdoti, i fauni, i satiri e i soldati gli si fecero subito intorno come un circolo eccitato. L'imperatore, con Tigellino da una parte e Chilone dall'altra, fece il giro della fontana, intorno alla quale ardevano alcune diecine di torce, fermandosi dinanzi a ciascuna, facendo delle osservazioni sulle vittime o deridendo il vecchio greco, sul cui viso era diffusa l'immensa disperazione.
Dopo si fermò ad un alto palo decorato di mirto e d'edera. Le lingue rosse delle fiamme erano appena giunte alle ginocchia della vittima; ma non le si poteva vedere il volto perchè i rami di mirto incendiati glielo ravvolgevano nel fumo. Subito dopo comunque, la leggiera brezza notturna lasciò scoperta la testa di un uomo dalla barba grigia sparsa sul petto.
All'orribile vista Chilone si raggomitolò come un serpente ferito e mandando un versaccio che pareva più quello della cornacchia che di una voce umana, gridò:
Infatti, Glauco, il medico, lo guardava dall'alto del palo in fiamme.
Egli era ancora vivo. La sua faccia traduceva lo spasimo ed era protesa come se avesse voluto guardare più da vicino per l'ultima volta il suo persecutore, l'uomo che lo aveva tradito, che gli aveva involato la moglie e il figlio, che aveva incitato ad assassinarlo e che, quando tutte queste ribalderie erano state perdonate in nome di Cristo, lo aveva consegnato ai carnefici. Nessun uomo aveva mai oltraggiato così orribilmente, sanguinosamente un altro uomo. Ora il martire di tante ingiustizie bruciava sul palo impeciato e il carnefice stava ai suoi piedi. Gli occhî di Glauco non abbandonavano il viso di Chilone. In certi momenti gli venivano nascosti dal fumo, ma subito che la brezza lo disperdeva, Chilone rivedeva quegli occhî che lo fissavano più insistentemente di prima. Si raddrizzò e cercò di fuggire, ma non ne ebbe la forza. Le sue gambe erano come divenute di piombo e una mano invisibile pareva che lo tenesse inchiodato al palo con una forza sovrumana. Egli era pietrificato. Sentiva che qualche cosa traboccava in lui, si separava da lui; sentiva ch'egli aveva avuto un eccesso di sangue, un eccesso di strazî, che la sua vita si avvicinava alla fine e che ogni cosa svaniva: Cesare, la Corte, la moltitudine. Non esisteva più nulla. Non rimaneva intorno a lui che un abisso, un vuoto nero e spaventevole, illuminato dagli occhî del martire che lo citavano dinanzi al giudice supremo.
Glauco piegava sempre più la sua testa e lo guardava sempre più fissamente. Gli astanti indovinavano che fra quei due uomini avveniva qualche cosa. Ma il riso moriva sulle loro labbra, perchè la faccia di Chilone era orribile. L'angoscia e la paura l'avevano contratta come se quelle lingue di fuoco ardessero il suo corpo. Ad un tratto vacillo e levò in alto le braccia, gridando con una voce terribile:
– Glauco! in nome di Cristo, perdonami!
Intorno a lui si fece il silenzio, un brivido invase gli spettatori e tutti gli occhî si alzarono involontariamente.
La testa del martire si mosse leggermente e dalla cima del palo si udì una voce come un gemito:
– Perdono!
Chilone si gettò colla faccia al suolo con gli urli della bestia feroce, e presa della terra nelle mani se la cosparse sulla sua testa. Intanto le fiamme salivano afferrando il petto e il viso di Glauco, bruciando la corona di mirto sulla di lui testa, lambendo i nastri al vertice del palo, e facendo di tutto una luminaria che accecava.
Chilone si rialzò poco dopo col viso così cambiato, che agli augustiani sembrava un altro uomo. I suoi occhî irraggiavano di una luce nuova e l'estasi era diffusa per la sua fronte corrugata. Il greco, che prima non poteva reggersi in piedi, assomigliava ora a un sacerdote invaso dallo spirito divino, e pronto a rivelare la verità sconosciuta.
– Che c'è? È divenuto matto? domandava un certo numero di persone.
Ma egli si volse alle moltitudini, alzando la destra e dicendo o piuttosto gridando con una voce tanto acuta, che non solo gli augustiani, ma tutto il pubblico lo intese:
– Popolo romano! Giuro sulla mia morte che qui periscono degli innocenti. Ecco l'incendiario!
Si fece un grande silenzio. I cortigiani erano di ghiaccio. Chilone continuava a rimanere col braccio teso e tremulo e col dito puntato che additava Nerone.
Nacque un tumulto. Il popolo, come un'onda incalzata da un turbine improvviso, si precipitò verso il vecchio per vederlo più da vicino. Qua e là sorgevano le grida di: «Afferratelo!» e altrove si gridava: «Sventura a noi!» La massa compatta incominciò a fischiare e a schiamazzare.
– Barbadibronzo! matricida! incendiario!
Il disordine aumentava di minuto in minuto. Le baccanti mandavano acute strida e si nascondevano nei cocchî. Alcuni pali consumati fino alla cima si sfasciavano spargendo faville e accrescendo la confusione. Un'ondata veemente di popolo portò via Chilone e lo cacciò fino in fondo al giardino.
I pali finivano di bruciare da tutte le parti e cadevano attraverso i viali, sollevando e diffondendo dovunque fumo e faville e disperdendo l'odore del legno bruciato e della carne abbrustolita. Le fiamme più vicine si spegnevano. I giardini incominciavano a ricadere nel buio. Le moltitudini, agitate, terrorizzate, cupe, si rovesciarono verso le uscite. L'avvenimento passava di bocca in bocca ampliato, sfigurato, ingrossato. Alcuni dicevano che Cesare era svenuto, altri che aveva confessato di avere dato l'ordine di incendiare Roma, altri ancora che egli era caduto gravemente ammalato, e non pochi assicuravano che egli era stato portato fuori sul cocchio come morto. Da una parte e dall'altra nasceva della simpatia per i cristiani. «Se non hanno incendiato Roma, perchè tanto sangue, tante torture, tanta ingiustizia? Gli dèi non vendicheranno gli innocenti, e quale piacula potrà placarli ora?» Si ripetevano sempre più spesso le parole innoxia corpora. Le donne manifestavano altamente la loro pietà per i fanciulli gettati in gran numero alle belve feroci, inchiodati alle croci, e bruciati in quei maledetti giardini. E la pietà faceva ingiuriare Cesare e Tigellino. V'erano persone che si fermavano di botto e si domandavano o domandavano agli altri che divinità era mai quella che dava tanta forza da sopportare la tortura e la morte. E se ne ritornavano a casa pensierosi.
Chilone vagava per i giardini senza sapere dove andare o dove volgere. Si sentiva nuovamente debole, impotente, logoro e stanco.
Ora incespicava in corpi in parte bruciati, ora dava del piede in una torcia che l'avvolgeva in una pioggia di faville e ora sedeva guardando attorno, con occhio smarrito. L'oscurità dei giardini era quasi completa. La pallida luna che passava attraverso il fogliame degli alberi, rischiarava i pali carbonizzati e rovesciati per i sentieri, e le vittime in parte divorate dal fuoco e ridotte a masse informi. Ma il vecchio greco pensava di vedere nella luna la faccia di Glauco cogli occhî che lo guardavano ancora con tanta insistenza da costringerlo a fuggire la luce. Alla fine uscì dall'ombra suo malgrado, come se fosse stato spinto da una forza ignota e volse verso la fontana dove Glauco aveva esalato lo spirito.
Si sentì una mano sulla spalla. Si volse e si trovò dinanzi uno sconosciuto.
– Chi sei? sclamò egli terrorizzato.
– Sono maledetto! Che cosa vuoi?
– Voglio salvarti, rispose l'apostolo.
Chilone s'appoggiò a un albero. Le sue gambe piegarono e le braccia gli caddero giù penzoloni per il corpo.
– Per me non c'è salvezza, diss'egli cupamente.
– Non hai tu udito come Cristo abbia perdonato al ladrone in croce che lo compiangeva? domandò Paolo.
– Io vidi le tue sofferenze e ti ho udito affermare la verità.
– O Signore!
– E se il servo di Cristo ti perdona nell'ora dell'angoscia e della morte, perchè non ti dovrebbe perdonare Cristo?
Chilone si afferrò la testa con ambe le mani, come perplesso:
– Il nostro Dio è un Dio di misericordia, disse Paolo.
– Per me? ripetè Chilone, e incominciò a gemere come un uomo cui manchi la forza per padroneggiare i suoi dolori e i suoi patimenti.
– Appoggiati, disse Paolo, e vieni con me.
E presolo sotto il braccio andò al crocicchio dei viali, guidato dal mormorìo della fontana, la quale pareva piangesse nella solennità della notte sui corpi di coloro che erano morti tra spasimi atroci.
– Il nostro Dio è un Dio di misericordia, ridisse l'apostolo. Se tu dalla riva del mare ti mettessi a lanciare piastrelle, potresti colmarlo? Io ti dico che la misericordia di Cristo è come il mare e che i peccati e le colpe degli uomini affondano in esso come piastrelle nell'abisso; io ti dico che è come il cielo che copre le montagne, le terre e i mari, perchè dessa è dovunque e non ha nè fine nè limite. Tu hai sofferto dinanzi al palo di Glauco, Cristo vide le tue sofferenze. Senza pensare a quello che ti potesse capitare domani, tu dicesti: «Quello è l'incendiario!» E Cristo ricorda le tue parole. Il tuo delitto e la tua menzogna sono andati; nel tuo cuore non è rimasto che un dolore immenso. Seguimi e ascolta ciò che dico. Sono io che ha odiato Cristo e che ha perseguitato i suoi eletti. Non Lo volli e non credetti in Lui fino a quando mi si manifestò e mi chiamò a Sè. D'allora in poi Egli è, per me, la misericordia. Egli ti ha visitato col rimorso, con l'ansia e col dolore e ti chiama a Sè. Tu Lo hai odiato, ma Egli ti ama. Tu hai consegnato i suoi seguaci alla tortura, ed Egli vuole perdonarti e salvarti.
Il petto del miserabile ingrossava coi singhiozzi che gli laceravano l'anima; ma Paolo si impadronì di lui, lo domò, e lo condusse via come un soldato conduce via un prigioniero.
Poco dopo l'Apostolo ricominciò a parlare:
– Vieni con me, ti condurrò da Lui. Per qual ragione sarei venuto a te? Cristo mi ha ordinato di raccogliere anime nel nome dell'amore; perciò io non adempio che ai suoi ordini. Tu ti credi maledetto, ma io dico: credi in Lui e sarai salvo. Tu pensi d'essere odiato, ma io ti ripeto che Egli ti ama. Guardami. Prima che Egli fosse in me, non avevo che la nequizia nel mio cuore; ed ora il Suo amore mi tien luogo di padre, di madre, di ricchezza e di potenza. In Lui solo è il rifugio. Egli solo vedrà il tuo dolore, crederà alla tua miseria, ti toglierà dall'inquietudine e t'eleverà a Sè.
Così dicendo lo aveva condotto alla fontana, i cui fili d'argento brillavano da lontano nella luce lunare. Il silenzio s'era fatto dappertutto; i giardini erano vuoti perchè gli schiavi li avevano già sgombrati dai pali carbonizzati e dagli avanzi dei martiri.
Chilone cadde in ginocchio con un gemito, nascondendosi la faccia nelle mani e rimanendo immobile. Paolo alzò gli occhî alle stelle.
– O Signore! rivolgi il tuo sguardo su questo infelice, sulla sua ambascia, sulle sue lacrime, sui suoi patimenti! O Dio di misericordia, Tu che hai sparso il Tuo sangue per i nostri peccati, perdonagli in nome de' Tuoi tormenti, della Tua morte e della Tua rigenerazione!
Poi tacque, guardando per del tempo ancora le stelle e pregando. Ai suoi piedi udiva una voce che pareva un gemito.
– O Cristo! O Cristo! perdonami!
Paolo allora s'avvicinò alla fontana, raccolse dell'acqua nel cavo della mano e voltosi allo sciagurato in ginocchio, disse:
– Chilone! io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen!
Chilone alzò la testa, aperse le braccia e stette così volto verso il cielo. La luna splendeva in tutta la pienezza della sua luce sui suoi capelli bianchi e sulla sua faccia pure bianca e immota, come morta o di marmo. I minuti passavano uno dopo l'altro. Dalle grandi uccelliere dei giardini di Domiziano giungevano i canti dei galli; ma Chilone rimaneva in ginocchio come una statua sul basamento. Alla fine ritornò in sè, parlò coll'Apostolo e gli domandò:
– Che cosa devo fare prima di morire?
Paolo parve assorto nella meditazione sull'incommensurata potenza a cui nessuno poteva resistere, neppure uno spirito come quello del greco, e disse:
– Abbi fede e sostieni la verità.
Se ne andarono assieme. Al cancello l'Apostolo benedì un'altra volta il vecchio e si salutarono. Chilone stesso non volle che Paolo rimanesse con lui perchè, dopo quello che era avvenuto, sapeva che Cesare e Tigellino avrebbero dato ordine di inseguirlo.
E non s'ingannò. Ritornato a casa trovò l'edificio circondato da pretoriani che lo arrestarono e lo condussero sotto la direzione di Scevino al Palatino.
Cesare era andato a riposare, ma Tigellino era là ad aspettarlo. Quando vide apparire lo sfortunato greco, lo salutò con calma, ma con una smorfia di cattivo augurio.
– Tu hai commesso il delitto di alto tradimento, diss'egli, e il castigo non ti sarà risparmiato; ma se domani affermerai nell'anfiteatro che tu eri ubriaco e pazzo e che gli autori dell'incendio di Roma sono i cristiani, la tua pena verrà limitata alle staffilate e all'esilio.
– Non posso, rispose Chilone freddamente.
Tigellino gli si avvicinò a passo lento e con voce profonda e terribile:
– Perchè? gli domandò. Tu non puoi, cane di greco? Non eri tu ubriaco e non capisci che cosa ti attende? Guarda laggiù!
E gli accennava un angolo dell'atrio nel quale, vicino a una panca di legno, stavano quattro schiavi traci nell'ombra, con in nano le funi e le tanaglie.
– Non posso!
La collera invase Tigellino, ma si contenne.
– Hai tu veduto, gli domandò, come muoiono i cristiani? Desideri tu di morire in quel modo?
Il vecchio alzò la sua faccia pallida; per qualche secondo le sue labbra si mossero come se stessero pregando. Poi rispose:
Tigellino lo guardò stupefatto.
– Cane, tu sei proprio diventato pazzo.
E immediatamente la sua collera non ebbe più ritegno. Si lanciò su Chilone, gli agguantò la barba con le due mani, lo trascinò al suolo, gli andò sopra coi piedi, ripetendo colla bava alla bocca:
– Tu ti ritratterai! ti ritratterai!
– Non posso! rispose Chilone dal pavimento.
– Alla tortura!
All'ordine imperativo, i traci afferrarono il vecchio e lo sdraiarono sulla panca; poi ve lo legarono strettamente colle funi e incominciarono ad attanagliargli le gambe scarne. Mentre lo legavano egli baciava loro le mani umilmente; indi, chiusi gli occhî pareva morto.
Era però vivo; perchè quando Tigellino si curvò su lui a domandargli: «Ti vuoi ritrattare?» le sue labbra si mossero leggermente e da esse uscì un bisbiglio quasi inaudibile:
– Non posso.
Tigellino diede ordine di smettere la tortura e si mise a camminare su e giù per l'atrio colla faccia tutta contratta dalla collera impotente. Finalmente gli passò per la testa una nuova idea perchè si volse verso i traci, dicendo:
– Strappategli la lingua!