Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO LXIII.

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CAPITOLO LXIII.

 

Dopo gli spettacoli nei giardini di Cesare le prigioni erano press'a poco vuote. Si arrestavano e si imprigionavano ancora i sospetti della superstizione orientale, ma le persecuzioni diminuivano di giorno in giorno e davano a mala pena abbastanza vittime per i prossimi spettacoli che dovevano avvenire sollecitamente. Il popolo era sazio di sangue; esso mostrava di esserne stufo e di sentirsi spaventato per la condotta singolare dei condannati. La paura del superstizioso Vestinio era penetrata in migliaia di persone. Tra la folla si narravano storie sempre più sorprendenti sulla vendetta del Dio Cristiano. Il tifo delle prigioni, che si era diffuso fra i cittadini, aumentava lo spavento generale. I numerosi funerali si vedevano e la gente si comunicava di orecchio in orecchio che per placare il dio sconosciuto ci volevano degli altri sagrifici. Si facevano offerte ai templi di Giove e di Libitina. L'epidemia continuava, e malgrado gli sforzi di Tigellino e dei suoi fautori, l'opinione pubblica continuava a circolare e ad affermare che l'ordine di ardere Roma era stato dato da Cesare e che i cristiani erano vittime innocenti.

Ma, proprio per questa ragione, Nerone e Tigellino erano instancabili nella caccia al cristiano. Per calmare le moltitudini si diedero altri ordini di distribuire farine, vini e olive. Per facilitare le costruzioni delle case vennero pubblicate nuove norme che sollevavano i costruttori dai balzelli e che determinavano la larghezza delle vie, prescrivevono materiale da servire alle costruzioni, allo scopo di evitare in avvenire gli incendî. Cesare stesso assisteva alle sessioni del Senato e si consigliava coi «padri della patria» sul benessere del popolo e della città; ma non mai ombra di grazia cadde sui sentenziati. Il dominatore del mondo era ansioso sopratutto di inchiodare nella mente del pubblico che le persecuzioni spietate non colpivano che i colpevoli. In Senato non si sentì alcuno parlare in favore dei cristiani, perchè nessuno voleva incorrere nell'ira di Cesare; e per giunta, coloro che vedevano nel futuro, sostenevano che la nuova fede minava le fondamenta della dominazione romana.

I morti venivano dati ai parenti, perchè la legge romana non si vendicava sui morti. Vinicio si consolava in certo qual modo pensando che se a Licia fosse toccato morire l'avrebbe seppellita nella tomba di famiglia, ove avrebbe riposato con lei. In quel tempo non aveva più speranza di salvarla; quasi separato dalla vita sociale, egli rimaneva tutto assorto in Cristo e non sognava più che nella vita eterna. La sua fede era divenuta infinita; con essa l'eternità pareva qualche cosa di assolutamente più vero e più reale della vita fuggevole che aveva vissuto fino allora. Il suo cuore rigurgitava di entusiasmo. Benchè ancora vivo egli si era mutato come in un essere quasi spirituale, anelante alla completa liberazione di e di un'altra persona. Egli si imaginava che lui e Licia, una volta liberi, si sarebbero presi per la mano e sarebbero andati in cielo, dove Cristo li avrebbe benedetti e li avrebbe lasciati vivere beatamente nella luce infinita come la luce dell'alba. Supplicava semplicemente Cristo di risparmiare a Licia i tormenti del Circo, e di addormentarla tranquillamente nella prigione; egli si sentiva perfettamente sicuro che egli stesso sarebbe morto nello stesso momento.

In vista del mare di sangue che era stato versato non osò neppure sperare che ella sola potesse essere risparmiata. Aveva sentito dire da Pietro e da Paolo ch'essi pure dovevano morire come martiri. Lo spettacolo di Chilone sulla croce lo aveva convinto che anche la morte del martirio poteva essere dolce; perciò la desiderava per lui e per Licia, come il mutamento di un male triste e inumano per un destino migliore.

Sovente pregustava la vita al di della tomba. La tristezza che pesava sulle anime di entrambi perdeva della sua cocente afflizione, si cambiava a poco per volta in una specie di celeste abbandono alla volontà di Dio. Vinicio, che prima si era affaticato contro la corrente, che aveva lottato, che si era torturato, ora vi si lasciava trasportare, credendo che l'avrebbe condotto alla calma eterna. Indovinava che anche Licia, come lui, stava preparandosi per la morte e che a dispetto delle muraglie della prigione che li separavano, procedevano insieme; e questo dolce pensiero gli sorrideva come la felicità.

Infatti avanzavano assieme con tanta armonia, come se si fossero scambiati i pensieri giorno per giorno da molto tempo. Licia aveva desiderio o speranza che non riguardasse l'al di della tomba. La morte le appariva non solo come una liberazione dal terribile sotterraneo della prigione, dalle mani di Cesare e di Tigellino – non solo come la salvezza, ma come l'ora del matrimonio con Vinicio. Con questa idea incrollabile, tutto il resto non aveva importanza. Dopo la morte verrebbe la sua beatitudine, la quale sarebbe anche terrena; così ch'essa l'aspettava come una fidanzata aspetta il giorno dello sposalizio.

E quella immensa corrente di fede che strappò dalla vita e portò al di della tomba migliaia dei primi cristiani, trascinava anche Ursus. il suo cuore si era rassegnato alla morte di Licia; ma dopo che giungevano attraverso le muraglie, di giorno in giorno, le notizie di ciò che avveniva negli anfiteatri e nei giardini, dopo che la morte pareva la sorte comune ed inevitabile di tutti i cristiani, e che al tempo stesso era il loro bene e la più alta felicità di tutte le concezioni mortali, non osò pregare Cristo di privare Licia di tanta beatitudine o di indugiarla. Nella sua anima semplice e barbara pensava inoltre che la figlia di un capo licio avrebbe avuto più celesti delizie che non la popolazione comune alla quale egli apparteneva, e che nella gloria eterna ella sarebbe stata seduta più vicino all'Agnello che gli altri. Aveva udito, è vero, che gli uomini dinanzi a Dio sono uguali, ma in fondo alla sua anima rimaneva la convinzione che la figlia di un capo, e il capo di tutti i lici, non era la stessa del primo schiavo della strada. Confidava pure che Cristo gli avrebbe permesso di continuare a servirla. Il suo desiderio intimo era di poter morire sulla croce come era morto l'Agnello. Ma questa era una felicità così grande che non osava pregare di concedergliela, benchè sapesse che in Roma anche i peggiori malfattori erano stati crocifissi.

Pensava che indubbiamente sarebbe stato condannato ad essere sbranato dai denti delle bestie feroci, e ciò lo addolorava. Dalla fanciullezza egli aveva vissuto nelle dense foreste, in una continua caccia, alla quale, grazie alla sua forza sovrumana, era divenuto famoso tra i lici anche prima di essere adulto. Questa occupazione gli era divenuta così piacevole, che più tardi, in Roma, quando ebbe a rinunziarvi, andava ai serragli e agli anfiteatri non per altro che per vedere le belve note e ignote. La vista delle bestie suscitava sempre nell'uomo un desiderio irresistibile di lottare e uccidere; così ora temeva che, trovandosele tra i piedi nell'anfiteatro, sarebbe stato incitato dai pensieri indegni di un cristiano, il cui dovere era di morire piamente e pazientemente. Ma per questo egli si abbandonava interamente a Cristo e si consolava con più dolci pensieri. Udito che l'Agnello aveva dichiarata la guerra contro le potenze dell'Inferno e degli spiriti maligni, nel cui numero i cristiani comprendevano tutte le divinità pagane, pensava che egli in questa guerra sarebbe stato assai più utile di ogni altro all'Agnello, perchè non poteva dimenticare che la sua anima non fosse più forte di quella degli altri martiri. Durante i giorni pregava, rendeva servigi ai prigionieri, aiutava gli ispettori e confortava la sua regina, la quale sovente si rammaricava che nella sua breve vita non aveva potuto fare tante buone azioni come la famosa Tabita, di cui le aveva parlato Pietro, l'Apostolo.

Le stesse guardie carcerarie, che temevano la spaventevole forza del gigante e sapevano che le sbarre di ferro e le catene non avrebbero giovato a nulla, finirono per volergli bene per la sua dolcezza. Sorpresi del suo temperamento buono glie ne domandavano il perchè. E lui, Ursus, parlava loro con tanta sicurezza della vita dopo la morte, che i custodi ascoltavano stupefatti, chiedendosi come potesse penetrare la felicità in un sotterraneo dove non entrava la luce. E quando li stimolava a credere nell'Agnello, a nessuno dei carcerieri passava per la mente che i suoi servigi fossero quelli di uno schiavo e la sua vita fosse la vita di un infelice; e non uno meditava sulla sua sorte sventurata, la cui fine certa era la morte.

Ma la morte li faceva rabbrividire perchè non ne aspettavano alcun bene; mentre il gigante e la fanciulla, la quale era come un fiore sulla paglia della prigione, andavano verso di essa estasiati come verso la porta della felicità.

 

 


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