Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO LXIV.

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CAPITOLO LXIV.

 

Una sera il senatore Scevino andò a trovare Petronio e a conversare a lungo con lui sulla gravità dei tempi, con degli accenni a Cesare. Egli parlava così liberamente, che Petronio, pur sapendolo amico, cominciò a essere cauto.

Scevino si doleva che il mondo vivesse pazzamente e ingiustamente e che tutto dovesse finire in una catastrofe più tremenda ancora di quella dell'incendio di Roma. Diceva che anche gli augustiani erano malcontenti; che Fenio Rufo, secondo prefetto dei pretoriani, faceva eseguire con dei grandi sforzi gli ordini atroci di Tigellino e che tutti i parenti di Seneca erano inquietissimi per il contegno di Cesare contro il suo vecchio maestro e versò Lucano. Alla fine accennò al malcontento del popolo ed anche dei pretoriani, la cui maggioranza propendeva per Fenio Rufo.

Perchè mi dici tutto questo? domandò Petronio.

– Per amore di Cesare, disse Scevino. Io ho un lontano parente tra i pretoriani, pure di nome Scevino; col suo mezzo so che cosa avviene al campo. Il malcontento si diffonde sempre più anche in mezzo a loro. Caligola fu pure pazzo, e sai che cosa sia avvenuto. Comparve Cassio Cherea. Fu un delitto orribile e, indubbiamente, nessuno, tra noi, lo loda; tuttavia Cherea liberò il mondo da un mostro.

– Il tuo significato è questo: «Non lodo Cherea, ma egli era un uomo perfetto e volessero gli dèi che ce ne fossero tanti come lui!»

Scevino cambiò discorso e incominciò subito a esaltare Pisone, a glorificare la sua famiglia, ad ammirare la nobiltà della sua mente, a parlare della sua affezione per la moglie, e finalmente a lodare il suo ingegno, la sua calma e il suo meraviglioso dono di guadagnarsi la simpatia del popolo.

Cesare è senza figli, diss'egli, e tutti vedono in Pisone il suo successore. Non c'è dubbio che ognuno farà di tutto per aiutarlo a conquistare il potere. Fenio Rufo lo ama; i congiunti di Anteo gli sono completamente devoti. Plauzio Laterano e Tullio Senecione salterebbero nel fuoco per lui, come farebbe Natalio, Subrio Flavio, Sulpicio Aspro, Afranio Quinziano, ed anche Vestinio.

– Da quest'ultimo uomo Pisone non avrà molto da aspettarsi, disse Petronio. Vestinio ha paura della sua ombra.

Vestinio ha paura dei sogni e degli , rispose Scevino, ma egli è uomo pratico, e il popolo, con ragione, desidera di farlo console. Che egli sia poi internamente contrario alla persecuzione dei cristiani, tu non dovresti fargliene un carico, perchè pure a te interessa che cessi questa follìa.

– Non a me, ma a Vinicio, rispose Petronio. Per riguardo a Vinicio vorrei poter salvare una certa fanciulla; ma non posso, perchè non posso più contare sulle grazie di Barbadibronzo.

– Che cosa dici? Non hai tu notato che Cesare ti si avvicina di nuovo e incomincia a parlare con te? E te ne dico anche la ragione. Egli sta preparandosi per il viaggio all'Acaia, dove egli intende cantare in greco i suoi versi. Egli arde per questo viaggio; ma al tempo stesso trema al pensiero del genio critico dei Greci. Egli s'imagina di ottenere o il più grande trionfo, o di fare il più gran fiasco. Egli ha bisogno di consigliarsi con un uomo che sappia, ed egli conosce che non ci sei che tu. Questa è la ragione per cui tu stai ritornando nelle sue grazie.

Lucano potrebbe prendere il mio posto.

Barbadibronzo lo odia e nelle pieghe della sua anima è la sentenza di morte contro il poeta. Egli sta unicamente cercandone il pretesto, come fa sempre. Lucano capisce che bisogna affrettarsi.

– Per Castore! disse Petronio, può darsi. Ma io posso avere anche una via più sollecita di riguadagnarmi il favore di Cesare.

– In che modo?

Ripetendo a Barbadibronzo quello che tu mi hai detto ora.

– Io non ho detto nulla! disse Scevino costernato.

Petronio mise la sua mano sulla spalla del senatore.

– Tu hai chiamato Cesare un pazzo, tu hai predetto il successore di Nerone ed hai soggiunto: «Lucano capisce che bisogna affrettarsi». Per che cosa affrettarsi, carissime?

Scevino divenne pallidissimo e per un momento si guardarono l'un l'altro negli occhî.

– Tu non vorrai ripeterlo!

– Per i fianchi di Ciprigna, non voglio! Come mi conosci bene! No, non voglio ripeterlo. Non ho udito nulla e non voglio ascoltar nulla. Capisci? La vita è troppo breve perchè valga la pena che s'intraprenda qualsiasi cosa. Ti prego soltanto di fare una visita oggi a Tigellino e di parlare con lui a lungo, come hai parlato con me, di qualunque cosa ti piaccia.

Perchè?

Perchè se Tigellino mi dicesse: «Scevino è stato oggi da te», io possa rispondergli: «Egli è stato pure da te nello stesso giorno».

Scevino, udite le parole di Petronio, spezzò il bastone d'avorio e disse:

– Che il male cada su questo bastone! Oggi andrò da Tigellino e più tardi al banchetto di Nerva. Tu pure vi andrai; non è vero? In tutti i casi ci vedremo nell'anfiteatro, dove gli ultimi cristiani compariranno dopodomani. Arrivederci!

Dopodomani! ripetè Petronio allorchè fu solo. Non vi è tempo da perdere. Barbadibronzo avrà veramente bisogno di me all'Acaia; perciò egli deve contare ancora su me.

E si risolse a valersi dell'ultimo mezzo.

Infatti al banchetto di Nerone lo stesso Cesare volle che Petronio gli sedesse di fronte, perchè voleva parlare coll'arbitro intorno all'Acaia e alla città in cui poteva comparire in pubblico colla speranza del più grande trionfo. Dava molta importanza agli Ateniesi perchè li temeva.

Gli altri augustiani ascoltavano attentamente, allo scopo di impadronirsi delle briciole dell'arbitro dell'eleganza, per poi regalarle più tardi come proprie.

– Mi pare di non avere vissuto fino adesso, disse Nerone, e che solo in Grecia avverrà la mia nascita.

– Tu nascerai per acquistare nuova gloria e l'immortalità, rispose Petronio.

Confido che ciò sia vero, e che Apollo non ne sarà geloso. Se ritornerò trionfante, voglio offrirgli una tale ecatombe come nessun altro nume ha mai avuto.

Scevino ripetè i versi di Orazio:

"Sic te diva Potens Cypri,
Sic fratres Helenæ, lucida sidera,
Ventorumque regat Pater".21

– Il vascello è pronto a Napoli, disse Cesare. Mi piacerebbe andarmene anche domani.

Petronio si alzò e guardando fissamente negli occhî di Nerone disse:

Permettimi, o divino, di celebrare il banchetto nuziale, al quale ti invito prima di ogni altro.

– Un banchetto nuziale? Quale banchetto nuziale? domandò Nerone.

– Quello di Vinicio col tuo ostaggio, la figlia del re licio. Ella è ora, è vero, in prigione; ma come ostaggio non è soggetta alla prigionia; poi tu stesso hai dato il permesso a Vinicio di sposarla; e siccome i tuoi ordini, come quelli di Giove, sono immutabili, tu darai ordine di liberarla ed io la darò al tuo augustiano.

La fredda sicurezza con cui Petronio pronunciò queste parole, turbò Nerone, come sempre accadeva ogni volta che qualcuno gli parlava in quella maniera.

– Lo so, diss'egli, curvando gli occhî. Io ho pensato a lei e al gigante che uccise Crotone.

– In questo caso sono salvi entrambi, rispose Petronio freddamente.

Tigellino venne in aiuto del padrone:

– Ella è in prigione per volontà di Cesare; e tu stesso hai detto, o Petronio, che i suoi ordini sono immutabili.

Tutti i commensali conoscevano la storia di Vinicio e Licia, e sapevano benissimo come stavano le cose; perciò nessuno fiatava, aspettando con ansia la fine della discussione.

– Ella è in prigione contro la volontà di Cesare, per errore e per la tua ignoranza delle leggi internazionali, disse Petronio con enfasi. Tu sei un ingenuo, Tigellino; ma anche tu non asserirai ch'ella ha incendiato Roma, e se anche tu l'affermassi, Cesare non ti crederebbe.

Petronio ha ragione, disse Nerone; domani le porte della prigione le saranno aperte e del banchetto nuziale parleremo il giorno dopo nell'anfiteatro.

– Ho perduto di nuovo, pensò Petronio.

Ritornato a casa, egli era così certo che la fine di Licia era venuta, che mandò un liberto fidato all'anfiteatro a contrattare col capo dello spoliarium per la consegna del cadavere che voleva dare a Vinicio.

 

 





21 Letteralmente: Così la dea padrona di Cipro – così i fratelli di Elena fulgidi astri – il padre dei venti diriga te.



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