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Gli spettacoli notturni erano rari e non divennero abituali nel circo e nell'anfiteatro che sotto Nerone. Agli augustiani piacevano perchè sovente erano seguiti da banchetti e da orgie che duravano fino allo spuntare del giorno. Benchè il popolo fosse già sazio di sangue umano, pure, quando andò intorno la notizia che la fine degli spettacoli era prossima, e che gli ultimi cristiani dovevano morire a un spettacolo notturno, un pubblico immenso si riversò nell'anfiteatro.
Gli augustiani vi andarono come un sol uomo perchè prevedevano che non sarebbe stato uno spettacolo comune; essi sapevano che Cesare era risoluto di farsi una tragedia dello strazio di Vinicio. Tigellino aveva tenuto segreto il castigo inteso per la fidanzata del giovine tribuno. Coloro che avevano veduto Licia alla casa di Plauzio narravano le meraviglie della sua bellezza. Altri si chiedevano se veramente ella sarebbe comparsa nell'arena in quel giorno o in un altro. Tanti di coloro che avevano udito la risposta di Cesare a Petronio al banchetto di Nerva, la spiegavano in due modi: alcuni supponevano semplicemente che Nerone avrebbe dato la fanciulla a Vinicio; altri, ricordandosi ch'ella era in ostaggio, la credevano padrona di adorare quella divinità che più le piaceva, e aggiungevano che le leggi internazionali non permettevano che la si punisse.
L'incertezza, l'aspettazione e la curiosità dominavano tutti gli spettatori. Cesare arrivò più presto del solito; e subito, alla sua entrata, il popolo susurrava che qualcosa di straordinario stava per avvenire, perchè Cesare, oltre Tigellino e Vatinio, aveva con sè Cassio, un centurione di enorme grandezza e un gigante di una forza straordinaria, che lo seguiva quando Nerone desiderava di avere un difensore al suo fianco, come, per esempio, quando egli organizzava le spedizioni notturne nella Suburra, dove egli si divertiva colla cosidetta sagatio, la quale consisteva nel lanciare in aria col mantello del soldato le fanciulle che s'incontravano per le vie. Si notava pure che anche nell'anfiteatro s'erano prese precauzioni insolite. Le guardie pretoriano erano aumentate ed erano comandate invece che da un centurione, dal tribuno Subrio Flavio, conosciuto fino allora per la cieca devozione a Nerone.
S'era pure saputo che Cesare aveva voluto premunirsi in caso di uno scoppio di disperazione da parte di Vinicio, e per questo la curiosità si era triplicata.
Tutti gli occhî guardavano fissamente dove era seduto lo sfortunato amante. Egli era eccessivamente pallido, e la sua fronte era cosparsa di gocce di sudore: egli, al pari degli altri spettatori, non aveva nessuna idea dello spettacolo che si sarebbe dato, ma il suo cuore era angosciato e pieno di apprensioni. Petronio non sapeva che cosa potesse avvenire; taceva. Tornando dal banchetto di Nerva aveva appena domandato a Vinicio se era preparato a ogni cosa e se sarebbe andato allo spettacolo. A entrambe le interrogazioni Vinicio aveva risposto di sì, con un brivido che gli era corso per tutta la persona, sicuro che Petronio non lo aveva interrogato senza ragione. Da tempo egli viveva come mezzo morto, immerso nella morte, riconciliato col pensiero della morte di Licia, da chè per entrambi non doveva essere che la liberazione e il matrimonio: ma, ora intendeva che una cosa era pensare dell'ultimo momento quando è lontano, come d'un sonno tranquillo, e un'altra assistere al tormento di una persona più cara della propria vita. Tutte le sue sofferenze di prima rinascevano. La disperazione ch'era stata sedata, ricominciava a urlare in fondo alla sua anima e veniva ripreso dal desiderio di salvare Licia ad ogni costo.
Col mattino egli aveva cercato di entrare nei cunicoli per accertarsi se vi era Licia; ma i pretoriani badavano a tutte le entrate e gli ordini erano così severi che i soldati, anche quelli ch'egli conosceva, non si lasciarono piegare nè dalle preghiere, nè dal denaro. Pareva al tribuno che l'incertezza l'avrebbe fatto morire prima di vedere lo spettacolo. In qualche parte, in fondo al suo cuore, palpitava ancora la speranza che Licia non fosse nell'anfiteatro e che le sue paure fossero infondate. Si andava dicendo che Cristo poteva toglierla dalla prigione per Sè, ma che non poteva permetterne la tortura nel Circo. Prima era rassegnato alla volontà divina in tutto; ora, respinto alle porte dei cunicoli, ritornava al suo posto nell'anfiteatro, ove indovinava da tutti gli sguardi su lui che le supposizioni più spaventevoli potevano essere vere.
E si metteva a implorare nel suo cuore, colla passione che andava quasi alla minaccia.
– Tu puoi! ripeteva Vinicio stringendosi i pugni convulsivamente: Tu puoi!
Fino allora non aveva supposto la terribilità del momento. Ora, senza una chiara conoscenza di ciò che avveniva nella sua mente, aveva una vaga idea che se avesse veduto a torturare Licia, il suo amore per Cristo si sarebbe mutato in odio e la sua fede in disperazione. Ma era sorpreso di tale idea perchè temeva di offendere Cristo, dal quale implorava la misericordia e il miracolo. Non lo implorava più per la vita di Licia; desiderava semplicemente ch'ella morisse prima di essere portata nell'arena e dall'abisso della sua ambascia ripeteva mentalmente: «Non rifiutarmi anche questa grazia, e ti amerò assai più di quello che ti abbia amato fino adesso.» E poi i suoi pensieri imperversavano come un mare squarciato dal turbine. Gli nasceva un desiderio intenso di vendetta e di sangue e si sentiva preso da una furia di avventarsi su Nerone e strangolarlo alla presenza di tutti gli spettatori; ma sentiva che quel suo trasporto era una nuova offesa contro Cristo ed una trasgressione al Suo comandamento. Tratto tratto la sua mente veniva attraversata da un lampo di speranza: che cioè ogni cosa dinanzi la quale la sua anima tremava sarebbe stata allontanata da una mano onnipotente e misericordiosa; ma essi venivano subito spenti, come travolti nell'incommensurabile dolore che Colui che poteva distruggere il Circo con una parola e salvare Licia l'avesse abbandonata, benchè ella avesse fede in Lui e Lo amasse con tutte le forze del di lei cuore immacolato. E di più pensava ch'ella giacesse in quel luogo buio, debole, senza protezione, negletta, abbandonata ai capricci delle guardie brutali, esalante forse l'ultimo anelito, mentre egli doveva aspettare, impotente, in quell'orribile anfiteatro, senza sapere a quale tortura fosse destinata o di che cosa sarebbe stato testimonio fra poco. Finalmente, come chi cade per un precipizio si attacca ai ramoscelli che trova, così egli s'afferrò con ambo le mani al pensiero che la fede sola poteva salvarla. Non gli rimaneva più che questo mezzo! Pietro gli aveva detto che la fede poteva muovere la terra dalle sue fondamenta.
E da quest'istante incominciò a ricuperare le forze; scacciò da sè ogni dubbio, condensò tutto il suo essere in una sola parola: «Credo!» e attese il miracolo.
Ma come una corda troppo tesa può rompersi, così gli sforzi lo avevano esaurito. Il pallore della morte gli si distese sul viso e il suo corpo si abbandonò stremato. S'imaginava che la sua preghiera fosse stata ascoltata, perchè egli era morente; gli pareva che anche Licia doveva indubbiamente morire e che Cristo li avrebbe in quel modo chiamati a Sè. L'arena, le bianche toghe, il numero infinito degli spettatori, la luce di migliaia di fiamme e di torce scomparvero come una visione.
Ma la sua prostrazione non durò a lungo. Poco dopo si risvegliò, o piuttosto lo risvegliò l'impazienza dei piedi delle moltitudini.
– Tu sei ammalato, disse Petronio; ordina che ti si porti a casa.
E senza badare a quello che avrebbe detto Cesare, si alzò per prenderlo sotto il braccio e uscire. Il suo cuore era commosso e di più egli era irritato oltre ogni dire perchè Cesare studiava con soddisfazione attraverso lo smeraldo le torture di Vinicio, per poi descriverle forse in strofe commoventissime per guadagnarsi l'applauso degli uditori.
Vinicio scosse la testa. Poteva morire nell'anfiteatro, ma non poteva uscirne. Tanto più che lo spettacolo stava per incominciare da un momento all'altro.
Infatti in quello stesso istante il prefetto della città agitò il fazzoletto rosso, i cardini di fronte al podium di Cesare cigolarono e dall'oscuro fondo del cunicolo venne nella brillante luce dell'arena Ursus.
Il gigante battè le ciglia, abbagliato da tanta luce, poi si avviò al centro, girando intorno gli occhî come per vedere con chi doveva affrontarsi. Tutti gli augustiani e gran parte degli spettatori sapevano ch'egli era l'uomo che aveva soffocato Crotone e perciò la sua presenza sollevò un mormorìo che passò di fila in fila. In Roma non era penuria di gladiatori più alti e più grossi della statura comune, ma gli occhî romani non avevano mai contemplato un individuo come Ursus. Cassio, nel palco imperiale, a paragone del licio, pareva un essere meschino. Senatori, vestali, Cesare, augustiani e tutto il pubblico ammiravano con la compiacenza dei conoscitori le poderose gambe, grosse come tronchi d'alberi, il petto largo come due scudi uniti, e le braccia erculee. Il mormorìo si riproduceva a ogni momento. Per tutta quella gente non vi poteva essere piacere più grande di quello di assistere alla tensione di quei muscoli nel momento della lotta. Il mormorìo si mutò quindi in grida di ammirazione e molti si domandavano:
– Dove abita il popolo che può produrre simili giganti?
Egli rimaneva là nel mezzo dell'anfiteatro, nudo, somigliante più a un colosso di pietra che a un uomo, in un atteggiamento raccolto, coll'aspetto triste del barbaro: e mentre osservava l'arena vuota, guardava sorpreso, coi suoi bambineschi occhî azzurri, ora agli spettatori, ora a Cesare, e ora al cancello del cunicolo, da dove, credeva, dovessero uscire i suoi carnefici.
Al momento di mettere piede nell'arena, il suo cuore semplice aveva battuto per l'ultima volta di speranza che lo avrebbero crocifisso; ma quando egli non vide nè la croce, nè il buco in cui poteva essere piantata, si credette indegno di tale grazia e pensò ch'egli avrebbe dovuto morire in un altro modo, indubbiamente divorato dalle belve feroci. Egli era disarmato, e deciso a morire come un seguace dell'Agnello, tranquillo e paziente. E desiderando di pregare un'altra volta il Salvatore, s'inginocchiò nell'arena colle mani giunte, e alzò gli occhî alle stelle che scintillavano per la vòlta celeste.
L'atto spiacque alla folla. Ne aveva abbastanza di cristiani che morivano come pecore. Capiva che se il gigante non si fosse difeso lo spettacolo sarebbe mancato. Si udirono dei fischî.
Alcuni incominciarono a chiamare i mastigofori, il cui ufficio era di procombere collo staffile su coloro che non volevano combattere. Ma tosto si fece silenzio perchè nessuno sapeva la sorte che aspettava il gigante e se egli avrebbe lottato al momento di essere faccia a faccia con la morte.
E davvero non si dovette aspettar molto. Immediatamente si udirono gli squilli delle trombe e al segnale si aperse il cancello del cunicolo di faccia al palco cesareo, e irruppe nell'arena, tra le grida forsennate dei bestiarî, un bufalo prussiano, con in testa il corpo di una donna nuda.
– Licia! Licia! gridò Vinicio.
Poi egli si afferrò i capelli vicini alle tempia, contorcendosi come un uomo che si sentisse una freccia nelle carni, e si mise a ripetere con accenti soffocati:
– Credo! credo! o Cristo, il miracolo!
E non sentiva neanche in quel momento che Petronio gli aveva coperto la testa colla toga. Era sotto l'impressione che la morte gli avesse chiusi gli occhî. Non guardava, non vedeva. Provava la sensazione di essere nel vuoto spaventevole. Nella sua testa non era un pensiero. Semplicemente le sue labbra ripetevano freneticamente:
Nell'anfiteatro il silenzio era divenuto profondo. Gli angustiani si alzarono protendendosi come un sol uomo, perchè nell'arena avveniva qualche cosa di straordinario. Il licio, ubbidiente e pronto a morire, non appena vide la sua regina legata alle corna del bue selvaggio, balzò in piedi come se fosse stato tocco dal fuoco, e curvatosi innanzi, corse incontro all'animale furioso.
Da tutti i petti uscì un grido di terrore, seguìto subito da un silenzio sepolcrale.
Il licio s'era precipitato in un batter di ciglio sul bufalo infuriato e lo aveva afferrato per le corna.
– Guarda! gridò Petronio strappando la toga dalla testa di Vinicio.
Egli si rizzò, protese la faccia bianca come un panno di bucato e guardò fisso nell'arena con occhio smarrito, vitreo. Tutti i petti avevano per un momento cessato di respirare, la gente non credeva ai proprî occhî. Da che Roma era Roma, nessuno aveva veduto una cosa simile.
Il licio teneva il bue selvaggio per le corna. I piedi del gigante affondavano nella sabbia fino alla caviglia, il suo dorso era piegato come un arco, la sua testa nascosta tra le sue spalle, i muscoli delle sue braccia erano divenuti turgidi come se avessero voluto farne scoppiare la pelle; ma il bufalo era inchiodato sulle sue zampe. E l'uomo e la bestia erano così immobili che gli spettatori credevano di avere gli occhî su un quadro raffigurante un atto prodigioso di Ercole o di Teseo, o un gruppo scolpito in pietra. Ma in quell'apparente riposo era lo sforzo tremendo di due forze in lotta.
I piedi del bufalo affondavano nella sabbia come quelli dell'uomo, e il suo corpo oscuro e velloso era così curvo che pareva una palla enorme. Per gli spettatori entusiasti della lotta era questione di chi avrebbe ceduto prima e di chi prima sarebbe caduto, questione che in quel momento voleva dire assai più della loro vita, di tutta Roma e della sua signoria sul mondo. Ai loro occhî il licio era un semidio degno di onori e di statue. Cesare stesso stava in piedi come gli altri. Egli e Tigellino, che avevano udito della forza dell'uomo, avevano preparato a bella posta un simile spettacolo, dicendosi l'un l'altro scherzando: «Che l'uccisore di Crotone uccida il bufalo che scegliamo per lui!» Così ora guardavano sbalorditi al gruppo, come se non credessero alla realtà.
Nell'anfiteatro c'erano spettatori che avevano alzate le braccia e che erano rimasti in quella posizione. I visi degli altri colavano di sudore, come se fossero stati essi stessi in lotta colla bestia. Il silenzio era tale che nel Circo non si sentiva che il crepitìo delle fiamme delle lampade e lo scoppiettìo dei pezzi che cadevano dalle torce. Le voci degli spettatori morivano sulle loro labbra, ma i loro cuori battevano da farsi in pezzi. Ma l'uomo e la bestia continuavano nel loro sforzo formidabile, come se entrambi fossero stati piantati nel terreno.
Intanto si udì per tutta l'arena un cupo ruggito che parve un gemito; un grido eruppe da ogni petto e di nuovo si rifece un silenzio sepolcrale. Il popolo credette di sognare: l'enorme testa del bue incominciava a contorcersi nelle mani ferree del barbaro. Il viso, il collo e le braccia del licio divennero scarlatti; il suo dorso si piegò ancora di più. Si vedeva ch'egli raccoglieva il resto della sua forza sovrumana, ma che non poteva resistere a lungo. Il lamento del bufalo diventava sempre più cupo, sempre più strozzato, sempre più penoso e si mescolava col sibilante alito del petto del gigante. La testa dell'animale si contorceva sempre più, e dalle sue fauci veniva fuori una lingua coperta di spuma.
Un momento dopo all'orecchio degli spettatori più vicini giunse lo scricchiolare delle ossa che si rompevano; poi la bestia si rovesciò morta sulla ghiaia col collo contorto.
Il gigante tolse in un lampo la corda dalle corna del bufalo e presa la fanciulla fra le braccia, incominciò ad ansare affannosamente. La sua faccia divenne pallida, i suoi capelli erano incollati dal sudore, le sue spalle e le sue braccia parevano inondate d'acqua. Egli rimase un istante in quell'atteggiamento, come se avesse perduto i sensi; poi alzò gli occhî e li volse agli spettatori.
L'anfiteatro era diventato frenetico.
Le muraglie dell'edificio tremarono sotto l'impeto delle grida di diecimila persone. Dal principio degli spettacoli nelle arene non c'era esempio di tanto eccitamento. Gli spettatori delle ultime file discendevano sulle prime, affollando i passaggi per vedere più da vicino l'uomo forte. Dappertutto s'erano levate grida di grazia, calde, insistenti, prorompenti per l'anfiteatro come tuoni. Il gigante era divenuto caro a tutti gli ammiratori della forza fisica; egli era diventato in un attimo il primo personaggio di Roma.
Ursus aveva veduto che il pubblico si sforzava di salvargli la vita e ridargli la libertà; ma era evidente ch'egli non pensava a sè stesso. Guardò intorno per qualche momento, poi si avvicinò al podium imperiale, e col corpo della fanciulla sulle braccia tese, alzò gli occhî supplici, come se avesse voluto dire:
– Abbiate pieta di lei! Salvate la fanciulla. L'ho fatto per amore suo!
Gli spettatori intesero perfettamente che cosa desiderava. Alla vista della fanciulla svenuta, la quale vicino al licio pareva una bambina, l'emozione invase cavalieri e senatori.
Le sue forme sottili, bianche come se fossero state tagliate nell'alabastro, il deliquio, lo spaventevole pericolo dal quale l'aveva sottratta il gigante, la sua bellezza e la devozione di Ursus commossero ogni cuore. Alcuni credevano che l'atleta fosse il padre che implorava la grazia per la figlia. La pietà divampò da tutte le parti come un incendio. Ne avevano abbastanza di sangue, di vittime, di torture. Le voci soffocate dalle lacrime incominciarono a supplicare la grazia per entrambi.
Durante l'agitazione Ursus, colla ragazza sulle braccia, andava per l'arena, e coi suoi occhî e coi suoi gesti chiedeva grazia per lei.
Vinicio balzò in piedi, scavalcò il palco, corse a Licia e le coperse il corpo nudo colla toga.
Poi si strappò la tunica dal petto, snudò le cicatrici delle ferite ch'egli aveva ricevute nella guerra armena e stese le mani supplici al pubblico.
A quest'atto l'entusiasmo del pubblico sorpassò ogni cosa veduta in un circo. La folla batteva i piedi e urlava. Le voci che chiedevano la grazia divennero in breve minacciose. Il popolo, non solo aveva preso le parti dell'atleta, ma s'era fatto il difensore del soldato, della fanciulla e del loro amore. Migliaia di spettatori si volsero a Cesare cogli occhî fosforescenti di collera e coi pugni tesi.
Ma Cesare indugiava ed esitava. Contro Vinicio non aveva davvero rancori, e la morte di Licia non lo interessava; ma preferiva vedere il corpo della fanciulla bucato e lacerato dalle corna del bufalo o sbranato dalle zampe delle belve. La sua ferocia, la sua stravagante imaginazione e i suoi desiderî inumani si pascevano di delizia in simili spettacoli. E ora il popolo voleva sottrargli la preda! A questo pensiero lo sdegno compariva sulla faccia turgida. L'amor proprio gl'impediva di cedere ai clamori delle moltitudini, ma al tempo stesso non osava, per l'innata vigliaccheria, resistere.
Così egli girò gli occhî tra gli augustiani in cerca di pollici voltati in segno di morte. Ma Petronio teneva in alto la mano, e gli guardava direttamente in faccia, come se avesse voluto provocarlo. Vestinio, superstizioso, ma con tendenza all'entusiasmo, un uomo che non aveva paura dei vivi, ma dei fantasmi, aveva il pollice alzato che domandava grazia. Così Scevino, il senatore. Così Nervo, Tullio Senecione, il famoso capo Ostorio Scapulo, Antistio, Pisone, Veto, Crispino, Minucio Termo, Ponzio Telesino, e il più importante di tutti, onorato dal popolo, Trasea.
Cesare si tolse lo smeraldo dall'occhio con un'espressione di disprezzo e di persona offesa; Tigellino, che voleva fare dispetto a Petronio, si volse a lui, dicendogli:
– Non cedere, o divino; abbiamo i pretoriani.
Allora Nerone guardò dove erano i pretoriani, comandati da Subrio Flavio, fino a quel giorno devoto a lui anima e corpo, e vide qualche cosa di insolito. Il vecchio tribuno, colla faccia tutta in lagrime, teneva in alto la mano in segno di grazia.
La furia s'era impadronita delle moltitudini. Dal pestare dei piedi erasi levato un nugolo di polvere che ondeggiava nell'anfiteatro come una nube. Tra il tumulto si udivano le grida di: «Barbadibronzo! matricida! incendiario!»
Nerone si sentì terrorizzato. I romani nel Circo erano padroni assoluti. Gli altri Cesari, e specialmente Caligola, si erano permessi qualche volta di opporsi alle volontà del popolo, una cosa però che aveva sempre provocato dei disordini, spesso finiti nel sangue. Nerone si trovava in una differente posizione. Prima egli era un attore e un cantante, e aveva bisogno del favore del popolo; secondo gli era necessario che il popolo fosse dalla sua per la lotta contro il Senato e i patrizî; e specialmente dopo l'incendio di Roma, egli si era sforzato a guadagnarselo con tutti i mezzi per far cadere l'ira popolare sul capo dei cristiani. Egli capiva che a opporsi più a lungo diventava pericoloso. Il tumulto incominciato nel Circo, poteva disseminarsi per la città intera e dare risultati incalcolabili.
Guardò di nuovo a Subrio Flavio, a Scevino il centurione, parente del senatore, e ai soldati; e vedendo dappertutto fronti accigliate, visi infiammati, occhî che lo guardavano fissamente, fece segno della grazia.
Gli applausi dai seggi più alti ai seggi più bassi scoppiarono come un uragano. Il popolo era sicuro della vita dei condannati, perchè da quel momento erano sotto la sua protezione e lo stesso Cesare non avrebbe osato di perseguitarli più a lungo colla sua vendetta.