Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO LXVI.

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CAPITOLO LXVI.

 

Quattro bitini portavano con tutti i riguardi Licia a casa di Petronio; Vinicio e Ursus le stavano ai lati, sollecitando i portatori, per metterla sotto la cura del medico greco il più presto possibile. Camminavano senza dirsi una parola, perchè dopo la commozione della giornata non avevano la forza di parlare. Vinicio era ancora quasi inconscio. Mentalmente continuava a ripetersi che Licia era salva; che non era più minacciata dalla carcere o dalla morte nel Circo; che le loro disgrazie erano finite e per sempre; che l'avrebbe portata a casa e non se ne sarebbe più separato. Tutto questo gli appariva come il principio di una nuova esistenza, piuttosto che la realtà. Di momento in momento s'inchinava ad aprire la lettiga per guardare sull'adorato viso, il quale inondato dalla luce lunare pareva addormentato, e dentro di andava ripetendo; «È lei! Cristo l'ha salvata!» Si ricordava pure che mentre egli e Ursus la portavano dallo spoliarium, un medico sconosciuto lo aveva assicurato ch'ella era viva e che sarebbe ritornata alla vita. Questo pensiero gli riempiva il cuore di tanta delizia, che in certi momenti lo indeboliva e doveva appoggiarsi a Ursus per poter continuare la strada. Intanto Ursus guardava il cielo stellato e pregava.

Procedevano frettolosi per le vie, lungo le quali splendevano, illuminati dalla luna, i bianchi edifici appena costruiti. La città era deserta. Salvo qua e qualche gruppo di persone, incoronate di edera, cantava e danzava per godersi la notte superba e la stagione festiva, ininterrotta dal principio degli spettacoli.

Solo quando furono vicini alla casa, Ursus cessò di pregare e disse sottovoce, come se avesse avuto paura di svegliare Licia:

Signore, è stato il Salvatore che l'ha liberata dalla morte. Quando l'ho veduta sulle corna del bufalo, ho sentito in me una voce dirmi: «Difendila!» e quella fu la voce dell'Agnello. La prigione mi aveva tolte le forze, ma Lui me le ridiede in quel momento e inspirò quel popolo crudele a prendervi parte. Che la Sua volontà sia fatta!

E Vinicio rispose:

– Sia gloria al Suo nome!

Non potè dir altro, perchè tutto a un tratto sentì che il suo petto si gonfiava dalla potente voglia di . Egli era come soverchiato da un immenso desiderio di gettarsi in ginocchio a ringraziare il salvatore per i suoi miracoli e la sua misericordia.

Erano giunti; i servi, informati da uno schiavo che li aveva preceduti, uscirono in folla a riceverli. Paolo di Tarso, da Anzio, aveva rimandato la maggior parte dei domestici. Ciascuno di loro sapeva benissimo delle sventure di Vinicio; perciò fu grande la loro gioia alla vista delle vittime salvate dalla malvagità di Nerone, e crebbe quando il medico Teocle dichiarò che Licia non era stata ferita e che non appena avesse riprese le forze perdute durante la febbre in prigione sarebbe guarita.

Licia rinvenne nella stessa notte. Risvegliandosi in quella sontuosa camera, illuminata dalle lampade corinzie, in mezzo ai profumi della verbena e del nardo, non sapeva dove fosse o che cosa le accadesse. Si ricordava del momento in cui l'avevano legata alle corna del bufalo incatenato; ed ora che vedeva inchinato su lei il viso di Vinicio, rischiarato dai dolci raggi della lampada, supponeva di non essere più sulla terra. Nella sua testa indebolita i pensieri erano confusi; le pareva naturale di essere trattenuta in qualche parte lungo la via al paradiso, per i suoi patimenti e la sua debolezza. Non sentendosi però addolorata sorrideva a Vinicio e sentiva il bisogno di domandargli dove erano; ma dalle di lei labbra non uscì che un bisbiglio dal quale potè capire a mala pena il suo nome.

Allora egli si inginocchiò e, posto leggermente la sua mano sulla fronte della fanciulla, disse:

Cristo ti ha salvata, e mi ti ha ridonata!

Le labbra di Licia si mossero di nuovo con un bisbiglio senza significato; poco dopo gli occhî le si chiusero, il suo seno s'alzò leggermente con un sospiro e s'immerse in un profondo sonno, aspettato dal medico, come quello che le avrebbe ridata la salute.

Vinicio a ogni modo rimase in ginocchio, assorto nella preghiera. L'anima sua era così intenerita dall'amore immenso, ch'egli era come in un sogno. Teocle entrò nella stanza spesse volte e l'auricrinita testa di Eunice si affacciò sovente dalle cortine alzate; finalmente le gru, allevate nei giardini, annunciarono il sorgere dell'alba; ma Vinicio era ancora colla mente abbracciato ai piedi di Cristo, senza udire e senza vedere ciò che avveniva intorno a lui, col cuore tramutato come in un'ara che fiammeggiava di gratitudine, affondato nell'estasi, quasi rapito in cielo.

 

 


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